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Appaltatore, mancato completamento dell’opera

090,00, a titolo di acconti; che successivamente – con la nota indicata – l’appaltante aveva manifestato la volontà di recedere dal contratto, invitando l’impresa a rimuovere il cantiere entro 10 giorni. Ora, per un verso, quanto al rapporto tra recesso e risoluzione per inadempimento, il committente non può invocare la risoluzione giudiziale del contratto dopo l’esercizio del diritto di recesso, che importa lo scioglimento, con effetti ex nunc, dell’appalto.

Pubblicato il 28 January 2024 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

Con atto di citazione notificato il 25 giugno 2008, la XXX S.r.l. conveniva, davanti al Tribunale di Roma, YYY e chiedeva:

1) che fosse accertato l’intervenuto scioglimento del contratto di appalto concluso tra le parti per effetto dell’esercizio, a cura della convenuta committente, del diritto potestativo di recesso unilaterale mediante missiva del 20 ottobre 2006;

2) che conseguentemente fosse accertato l’inadempimento dell’appaltante all’obbligazione indennitaria in favore dell’appaltatore, avendo la stessa impedito all’assuntore di completare l’esecuzione dell’opera appaltata;

3) che, per l’effetto, la committente fosse condannata al pagamento della somma di Euro 190.635,54, oltre rivalutazione monetaria e interessi.

Al riguardo, l’attrice esponeva: che, nel settembre 2005, aveva ricevuto dalla YYY l’affidamento di un appalto per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione di un immobile di proprietà dell’appaltante, sito in ***; che i lavori consistevano in opere di demolizione e rifacimento di strutture portanti e solai, murature interne ed esterne, del tetto, degli intonaci interni ed esterni, dell’impianto idro – termo – sanitario ed elettrico; che l’andamento dei lavori aveva subito notevoli rallentamenti a causa delle ripetute richieste della committente, fino a quando, con telegramma del 18 aprile 2006, la stessa aveva ordinato, senza alcuna motivazione, la sospensione dei lavori; che, a fronte delle lavorazioni programmate per Euro 90.000,00, erano state eseguite lavorazioni per circa Euro 73.945,00, mentre erano stati corrisposti solo Euro 9.090,00, a titolo di acconti; che successivamente – con la nota indicata – l’appaltante aveva manifestato la volontà di recedere dal contratto, invitando l’impresa a rimuovere il cantiere entro 10 giorni.

Si costituiva in giudizio YYY, la quale contestava la fondatezza, in fatto e in diritto, delle pretese avanzate da controparte e chiedeva che fosse accertato l’inadempimento dell’appaltatrice al contratto di appalto, a causa della parziale e cattiva esecuzione delle opere commissionate, in ordine alle quali sussisteva la concorrente responsabilità del progettista e direttore dei lavori ZZZ, di cui era chiesta la chiamata in causa.

In via riconvenzionale, la convenuta domandava la declaratoria di risoluzione del contratto di appalto per colpa dell’assuntore nonché l’accertamento della concorrente responsabilità del progettista e direttore dei lavori, per tutti i vizi e i nocumenti patiti, con conseguente condanna degli stessi, in solido, alla restituzione della somma di Euro 29.400,00 e al risarcimento di tutti i danni subiti.

In subordine, chiedeva che, in caso di soccombenza verso l’artefice dell’appalto, fosse manlevata dal direttore dei lavori.

In proposito, deduceva che le opere realizzate dalla ditta incaricata erano del tutto difformi da quelle commissionate e ricavabili dal progetto e non erano state eseguite a regola d’arte.

Autorizzata la chiamata in causa del terzo, si costituiva in giudizio anche ZZZ, il quale eccepiva preliminarmente il proprio difetto di titolarità passiva del rapporto, per non aver ricevuto alcun incarico dalla YYY.

Nel merito chiedeva il rigetto delle domande formulate nei suoi confronti e avanzava domanda riconvenzionale finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti per lesione della reputazione e dell’immagine, chiedendo altresì che la convenuta chiamante fosse condannata alla riparazione dei pregiudizi conseguenti all’instaurazione di una lite temeraria.

Nel corso del giudizio era espletata consulenza tecnica d’ufficio, ad integrazione delle risultanze già raggiunte con lo svolto accertamento tecnico preventivo ante causam, con la convocazione del consulente tecnico d’ufficio nominato affinché rendesse i chiarimenti resisi necessari.

Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 11021/2013, depositata il 20 maggio 2013, in parziale accoglimento delle domande proposte dall’attrice, accertava l’intervenuto recesso di YYY dal contratto di appalto stipulato e, per l’effetto, condannava l’appaltante al versamento, in favore della società appaltatrice, della somma di Euro 29.490,00, oltre rivalutazione e interessi, a titolo di lavorazioni eseguite e non saldate, e di Euro 4.000,00, a titolo di spese sostenute, rigettando ogni altra domanda.

In specie, la pronuncia di prime cure sosteneva:

che il contratto di appalto si era sciolto per iniziativa unilaterale della committente, il che in sé non implicava alcuna necessaria indagine sull’importanza e gravità dell’inadempimento, la quale sarebbe stata necessaria solo allorché la committente avesse preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso;
che, pertanto, l’esercizio del diritto di recesso riservato al committente in materia di appalto non privava il recedente del diritto di richiedere il risarcimento per l’inadempimento in cui l’appaltatore fosse già incorso al momento del recesso;

che dopo il recesso l’eventuale valutazione dell’importanza della gravità dell’inadempimento dell’appaltatore poteva essere effettuata ai soli fini risarcitori, ma non allo scopo di ottenere la pronuncia di risoluzione di un contratto non più in essere; che, dunque, la domanda di risoluzione del contratto doveva essere rigettata e così le conseguenti statuizioni restitutorie formulate dalla convenuta in via riconvenzionale;

che, quanto alla domanda risarcitoria, occorreva che la committente avesse conservato l’azione verso l’appaltatore, mentre nella fattispecie essa risultava prescritta, conformemente all’eccezione sollevata sul punto dall’assuntore, secondo la disciplina sulla garanzia per i vizi e le difformità dell’opera, sicché l’appaltatore restava liberato da ogni responsabilità; che il costo delle opere realizzate era pari ad Euro 48.890,00, da cui doveva essere detratto l’importo dimostrato – che risultava corrisposto a titolo di acconti – per Euro 19.400,00; che non era, invece, liquidabile la voce del mancato guadagno, in quanto non provata; che le spese sostenute dovevano essere liquidate, in via equitativa, nella misura di Euro 4.000,00; che, con riferimento alla domanda proposta nei confronti del terzo chiamato, erano stati fatti valere due profili di responsabilità, l’uno afferente all’attività relativa alla presentazione della D.I.A. e l’altra riguardante l’attività di direzione dei lavori; che, in ordine al primo profilo, non emergevano elementi sufficienti per ritenere che all’ZZZ fosse stato conferito l’incarico di svolgere l’attività di progettazione e presentazione della D.I.A., mentre, con riferimento al secondo profilo, risultava espressamente che l’ZZZ avesse accettato l’incarico di direttore dei lavori; che, peraltro, la prescrizione della garanzia per i vizi escludeva che potesse indagarsi circa una responsabilità solidale del terzo chiamato, in qualità di direttore dei lavori;

che altrettanto destituita di fondamento era la richiesta di manleva, in quanto genericamente formulata.

Con atto di citazione notificato il 9/10 luglio 2014, proponeva appello YYY.

Decidendo sul gravame interposto, la Corte d’appello di Roma accoglieva, per quanto di ragione, l’appello e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava YYY al pagamento, in favore della XXX S.r.l., della somma di Euro 12.400,00, in luogo della maggiore somma liquidata per sorte capitale dal Tribunale, confermando, nel resto, le altre statuizioni adottate e compensando, per metà, le spese del doppio grado di giudizio tra la YYY e la XXX, con l’addebito della residua metà nei confronti della prima.

Avverso la sentenza d’appello ha proposto Ricorso per Cassazione, YYY.

Secondo la Cassazione, la pronuncia della Corte territoriale, dopo aver sostenuto che il diritto risarcitorio fondato sulla generale responsabilità dell’appaltatore per inadempimento, nel caso di mancato completamento dell’opera, non si sarebbe prescritto nel termine biennale stabilito dall’art. 1667 c.c., ha poi contraddittoriamente e incomprensibilmente ritenuto che la pretesa riparatoria si sarebbe giustificata solo alla stregua della previsione speciale sulla garanzia per i vizi, quale eccezione tesa a paralizzare la pretesa dell’assuntore di pagamento del compenso indennitario correlato al recesso. Cosicché ha proceduto, d’ufficio, a convertire la domanda riconvenzionale spiegata in mera eccezione, in spregio alle richieste della committente.

Ora, per un verso, quanto al rapporto tra recesso e risoluzione per inadempimento, il committente non può invocare la risoluzione giudiziale del contratto dopo l’esercizio del diritto di recesso, che importa lo scioglimento, con effetti ex nunc, dell’appalto.

Segnatamente il diritto potestativo riconosciuto al committente di risolvere unilateralmente l’appalto può essere esercitato ad nutum in qualunque momento posteriore alla conclusione del contratto (purché prima dell’ultimazione dell’opera) e può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti di inadempimento.

Ne consegue che, in caso di recesso, il contratto si scioglie per l’iniziativa unilaterale dell’appaltante, senza necessità di indagini sull’importanza e sulla gravità dell’inadempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5368 del 07/03/2018; Sez. 2, Sentenza n. 11028 del 26/07/2002; Sez. 2, Sentenza n. 6814 del 13/07/1998), le quali sono rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso.

Pertanto, al committente che manifesta la sua volontà di recedere è preclusa la proposizione della domanda di risoluzione per inadempimento dell’appaltatore, ivi compreso l’inadempimento riconducibile a difetti della parte di opera già ultimata, poiché il rapporto è ormai venuto meno per altro titolo, ossia a seguito del recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5237 del 29/07/1983; contra Sez. 1, Sentenza n. 1795 del 12 luglio 1943).

Simmetricamente, il committente che chiede la risoluzione non può poi invocare il recesso, avendo, con la domanda di risoluzione, innescato un procedimento di valutazione comparativa dei comportamenti delle parti non più arrestabile ad libitum mediante il recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7649 del 05/09/1994).

Nell’appalto, infatti, la domanda di risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento è diretta ad ottenere una pronuncia di carattere costitutivo, idonea a far retroagire la cessazione degli effetti al momento della stipulazione del contratto e fondata sulla commissione di un “illecito” negoziale.

È principio consolidato, in proposito, che – fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche – l’appalto non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica, non sottraendosi pertanto alla regola generale, dettata dall’art. 1458 c.c., della piena retroattività degli effetti della risoluzione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 22065 del 12/07/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 4225 del 09/02/2022; Sez. 2, Sentenza n. 15705 del 21/06/2013; Sez. 2, Sentenza n. 8247 del 06/04/2009).

Si tratta, dunque, non già di un contratto di durata in senso tecnico ma a mera esecuzione prolungata (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21230 del 19/07/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 35403 del 01/12/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 24314 del 05/08/2022).

Per converso, il recesso rappresenta l’esercizio di una facoltà consentita dalla legge, che determina lo scioglimento del negozio solo dal momento di esternazione di detta facoltà.

Con il corollario che l’accoglimento della risoluzione inibisce l’esame delle altre cause di scioglimento del medesimo rapporto contrattuale.

Ne consegue, ulteriormente, che tra dette domande non vi è rapporto di continenza, sicché possono essere proposte nello stesso giudizio in via subordinata, dovendo il giudice, in caso di rigetto della domanda di risoluzione, esaminare se sia fondata quella con cui si invoca la declaratoria di accertamento del legittimo esercizio del diritto di recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7878 del 06/04/2011; Sez. 3, Sentenza n. 13079 del 14/07/2004).

Nondimeno, per altro verso, benché l’esercizio del recesso impedisca al committente di invocare, in seconda battuta, la risoluzione per inadempimento dell’appalto, la circostanza che l’appaltante si sia avvalso dello ius poenitendi non impedisce di esercitare, in favore dello stesso appaltante, il diritto alla restituzione degli acconti versati e al risarcimento dei danni che sono derivati dall’inadempimento dell’assuntore.

La formulazione di un’istanza di restituzione dell’acconto versato e la riserva di chiedere spese e danni non sono, infatti, incompatibili con la domanda di recesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6972 del 27/03/2006; Sez. 2, Sentenza n. 11642 del 29/07/2003; Sez. 2, Sentenza n. 77 del 08/01/2003; Sez. 2, Sentenza n. 2236 del 30/03/1985; Sez. 2, Sentenza n. 2055 del 28/03/1980).

Piuttosto, dei danni subiti dall’appaltante per pregresse inadempienze dell’appaltatore si può tenere conto in sede di liquidazione dell’indennizzo spettante all’assuntore, all’esito del recesso esercitato dall’appaltante.

In specie, il committente può fare valere tali danni allo scopo di ottenere una proporzionale riduzione dell’indennizzo da questi dovuto, anche se li conosceva al momento del recesso.

Aderendo a tale impostazione, la Suprema Corte ha sostenuto che l’esercizio del diritto di recesso riservato al committente non priva il recedente del diritto di richiedere il risarcimento per l’inadempimento in cui l’appaltatore sia già incorso al momento del recesso, anche ove esso sia imputabile a difformità o vizi dell’opera (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1491 del 18/04/1975; Sez. 1, Sentenza n. 1279 del 07/05/1974; Sez. 3, Sentenza n. 3666 del 16/12/1971; Sez. 1, Sentenza n. 1766 del 10/06/1959).

Sicché il rigetto definitivo della domanda di risoluzione – come accaduto nel caso di specie, in difetto di alcuna contestazione, in sede di gravame, della sentenza del Tribunale che aveva disatteso detta impugnativa -, all’esito dell’accertamento dell’intervenuto scioglimento dell’appalto in conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo di recesso ex art. 1671 c.c., non vietava affatto al committente di far valere le correlate domande restitutorie e risarcitorie, in ragione del contestato inadempimento dell’appaltatore.

E, in aggiunta, la proponibilità della domanda di risarcimento danni da parte del committente, in caso di inadempimento dell’appaltatore in corso d’opera, non è ostacolata dal mancato esperimento dello speciale rimedio previsto dall’art. 1662, secondo comma, c.c., in ordine alle obbligazioni dell’appaltatore in corso di attuazione.

Tale norma, infatti, prevede non già un onere, ma una facoltà, il cui esercizio è esclusivamente finalizzato a provocare l’automatica risoluzione del rapporto conseguente all’inutile decorso del termine fissato con la diffida a regolarizzare le opere già eseguite (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9064 del 27/08/1993; Sez. 2, Sentenza n. 109 del 09/01/1979; Sez. 2, Sentenza n. 5726 del 05/12/1978).

Ne discende che il mancato esercizio di tale facoltà non impedisce, una volta operato il recesso, la proposizione della domanda risarcitoria per l’inadempimento già verificatosi (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11642 del 29/07/2003).

Orbene, e in secondo luogo, tali domande restitutorie e risarcitorie – contrariamente all’assunto della pronuncia impugnata – non sottostanno alla disciplina speciale sulla garanzia per i vizi e al conseguente regime decadenziale e prescrizionale ex art. 1667 c.c..

Infatti, la responsabilità speciale per difformità o vizi, come disciplinata dal legislatore, non è invocabile – ed è invocabile piuttosto la generale responsabilità per inadempimento contrattuale ex art. 1453 c.c. – nel caso di mancata ultimazione dei lavori, anche se l’opera, per la parte eseguita, risulti difforme o viziata, o di rifiuto della consegna o di ritardo nella consegna rispetto al termine pattuito.

In base a tale ricostruzione, nel caso in cui l’appaltatore non abbia portato a termine l’esecuzione dell’opera commissionata, restando inadempiente all’obbligazione assunta con il contratto, la disciplina applicabile nei suoi confronti è quella generale in materia di inadempimento contrattuale, mentre la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione nella diversa ipotesi in cui l’opera sia stata portata a termine, ma presenti dei difetti (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7041 del 09/03/2023; Sez. 2, Sentenza n. 35520 del 02/12/2022; Sez. 1, Ordinanza n. 4511 del 14/02/2019; Sez. 3, Ordinanza n. 9198 del 13/04/2018; Sez. 2, Sentenza n. 1186 del 22/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 13983 del 24/06/2011; Sez. 3, Sentenza n. 8103 del 06/04/2006; Sez. 2, Sentenza n. 3302 del 15/02/2006; Sez. 2, Sentenza n. 9849 del 19/06/2003; Sez. 2, Sentenza n. 9863 del 27/07/2000; Sez. 3, Sentenza n. 14239 del 17/12/1999; Sez. 2, Sentenza n. 446 del 19/01/1999; Sez. 2, Sentenza n. 10255 del 16/10/1998; Sez. 2, Sentenza n. 7364 del 09/08/1996; Sez. 2, Sentenza n. 10772 del 16/10/1995; Sez. 2, Sentenza n. 11950 del 15/12/1990; Sez. 2, Sentenza n. 49 del 11/01/1988; Sez. 2, Sentenza n. 2573 del 12/04/1983).

Da ciò deriva che, anche ove il rapporto si sia sciolto sulla scorta dello ius poenitendi attuato dal committente, la pretesa di quest’ultimo di ottenere la riparazione dei danni conseguenti a fatti di inadempimento addebitati all’assuntore e accaduti in corso d’opera, prima che fosse fatto valere il recesso, ricade nella cornice normativa generale di cui all’art. 1453 c.c., sicché non trova applicazione la disciplina speciale sulla garanzia per le difformità e i vizi, anche con riferimento ai termini di decadenza e prescrizione.

Ed invero, ontologicamente l’integrativa garanzia speciale per le difformità e i vizi della “opera” appaltata postula la definitività della distonia rispetto alle prescrizioni pattuite o alle regole tecniche cui essa avrebbe dovuto conformarsi, ossia la realizzazione e consegna dell’opera commissionata, mentre, a fronte di “difformità” o “vizi” rilevati in corso d’opera, quali mere lacune in procedendo – ossia non ancora definitive e, quindi, astrattamente sanabili nell’ipotetico prosieguo dell’esecuzione -, il committente può avvalersi delle facoltà di cui all’art. 1662, secondo comma, c.c. e, ove si cristallizzi la definitiva interruzione dell’appalto, indipendentemente dall’imputazione al committente o all’assuntore di detta interruzione, può essere invocata la tutela riparatoria secondo il regime ordinario (Sez. 2, Sentenza n. 6931 del 22/03/2007; Sez. 2, Sentenza n. 3239 del 27/03/1998).

Tanto perché, ove l’appaltatore non proceda secondo le prescrizioni contrattuali e le regole dell’arte, a fronte di un’opera ancora in itinere e di lavori ancora in progress, non può essere effettuata, in quel momento storico, alcuna prognosi sul completamento e sulla perfetta realizzazione alla scadenza contrattuale, salvo che, a causa dell’inadempimento dell’appaltatore, il compimento dell’appalto venga ritenuto irrimediabilmente compromesso e, dunque, siano integrati irregolarità o inconvenienti in corso d’opera ai quali l’artefice non possa più rimediare, attesa la loro irreparabilità e definitività, potendo, in tal caso, invocarsi, non già il regime della garanzia speciale per le difformità e i vizi, ma il regime ordinario della risoluzione per inadempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5828 del 14/06/1990; Sez. 2, Sentenza n. 3465 del 18/05/1988; Sez. 2, Sentenza n. 2236 del 30/03/1985; Sez. 3, Sentenza n. 936 del 02/04/1974; Sez. 1, Sentenza n. 275 del 05/02/1971).

Quindi, venuto meno il rapporto fiduciario tra le parti dell’appalto, per effetto dell’esercizio del diritto potestativo di recesso dell’appaltante, nessuna equiparazione può essere disposta tra completamento dell’opera e definitiva interruzione dei lavori, cui non si applica la disciplina speciale sulla garanzia per i vizi in ordine agli inadempimenti contestati dal committente per fatti verificatisi prima dell’attuazione dello ius poenitendi.

Corte di Cassazione, Sezione Seconda, Sentenza n. 421 del 8 gennaio 2024

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