N. R.G. 324/2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI FIRENZE
QUARTA SEZIONE CIVILE La Corte di Appello di Firenze, Sezione Quarta Civile, in persona dei magistrati:
Dott.ssa NOME COGNOME Estensore Dott.ssa NOME COGNOME Consigliere Dott. ssa NOME COGNOME Consigliere Ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A N._558_2025_- N._R.G._00000324_2023 DEL_24_03_2025 PUBBLICATA_IL_25_03_2025
nella causa civile di II Grado iscritta al n. r.g. 324/2023 promossa da:
(c.f. ), con il patrocinio dell’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata come da procura in atti COGNOME contro (c.f. ), contumace (c.f. ), in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, con il patrocinio dell’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata come da procura in atti COGNOME
CONCLUSIONI
Per parte appellante:
“Piaccia all’Ill.ma Corte d’Appello adita, disattesa e reietta ogni contraria altra istanza, per i motivi tutti di cui in narrativa, in totale riforma della sentenza a verbale numero C.F. C.F. P. recante il numero di R.G. 14982/2019, Giudice Dott.ssa COGNOME notificata a mezzo pec in data 3 febbraio 2023:
“disattesa e reietta ogni contraria altra istanza, per le ragioni tutte di cui in parte narrativa, accertata la condotta omissiva dell’Avv. e la connessa responsabilità professionale ad essa connessa nonché il connesso danno derivante dall’impossibilità per l’odierna attrice di veder processualmente accertati i propri diritti e le proprie ragioni di credito avverso l’impresa individuale , condannare il convenuto al risarcimento del danno emergente subito dall’odierna parte attrice e per l’effetto condannarlo al pagamento, in favore di parte attrice, di tutte le voci di danno per come indicate in parte narrativa (euro 46.852,00, oltre a rimborso spese, interessi, rivalutazione e quant’altro dovuto), per gli importi ivi quantificati o per la diversa somma, maggiore o minore che risulterà di Giustizia, il tutto anche in seguito all’espletanda istruttoria, oltre interessi e rivalutazione monetaria, laddove dovuti, dal dì del dovuto al dì dell’effettivo saldo e con espressa riserva di azione per eventuali altri danni connessi al medesimo inadempimento professionale e quindi con salvezza di diritti e senza rinuncia alcuna a diversi ed ulteriori crediti o richieste di risarcimento. Con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa, spese generali, iva e cap come per Legge per entrambe le fasi del giudizio e con revoca della condanna alle spese di cui alla sentenza di primo grado, corrisposte o in corso di corresponsione nelle more per compulsum e con ogni e più ampia riserva di gravame e ripetizione.
In via istruttoria, per tutte le ragioni esposte, questa difesa, reitera tutte le proprie istanze istruttorie per la parte non già ammessa nel corso del giudizio di primo grado e chiede che vengano ammesse tutte le richieste non già ammesse fra quelle infra trascritte:
si formula rispettosa istanza all’Ill.mo Giudice adito affinché lo stesso, laddove non ritenesse sufficiente ed esaustiva la documentazione peritale già in atti, voglia disporre idonea CTU medica volta a confermare il contenuto delle perizie versate in atti da parte attrice e determinare l’esistenza di un danno da mobbing in capo all’attrice riconducibile all’intercorso rapporto di lavoro con la ditta , quantificandolo ai fini liquidativi.
” Per parte appellata “ Contrariis rejectis;
previe le declaratorie del caso, contestato tutto quanto ex adverso dedotto, richiesto, domandato e prodotto sia in fatto che in diritto sia in punto an che in punto quantum, che la terza chiamata ha contraddittorio diretto solo con il proprio chiamante e che, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, fa espressamente riferimento anche alle difese di parte attrice.
In via preliminare: dichiarare che la contumacia dell’Avv. in secondo grado e, in particolare, il non avere egli riproposto e/o coltivato la domanda di garanzia e manleva comporta la rinuncia a tale domanda.
Dichiarare inammissibile e comunque rigettare l’appello avversario e confermare la sentenza di primo grado.
Rigettare le domande avversarie perché infondate e non provate in fatto ed in diritto, in punto an ed in punto quantum, e in ogni caso per le ragioni indicate.
In mero subordine e fatto salvo il diritto di impugnazione:
accertare il concorso del fatto colposo della sig.ra (e, in particolare, che il concorso del fatto colposo dell’attrice è ampiamente prevalente) e, per l’effetto, diminuire il risarcimento eventualmente dovuto in favore dell’attrice secondo la gravità della sua colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, limitando e contenendo di conseguenza il risarcimento eventualmente dovuto (nei limiti del giusto, dovuto e provato) dall’Avv. In ogni caso – e, per scrupolo (per la non creduta ipotesi che ciò venga ritenuto necessario), anche in via di impugnazione ex art. 333 c.p.c. e, comunque, per scrupolo, per l’ipotesi che la Corte vada a pronunciarsi sulla garanzia assicurativa – rigettare la domanda di garanzia proposta dall’Avv. nei confronti di dichiarando che la polizza non è operante e comunque che la garanzia non è dovuta – e, comunque, che nessun indennizzo è dovuto – ai sensi dell’art. 1892 c.c., per avere rilasciato l’Avv. dichiarazioni inesatte o, comunque, per essere egli stato reticente con dolo o quantomeno con colpa grave, relativamente a circostanze tali che se avesse conosciuto il vero stato delle cose, non avrebbe dato il suo consenso o non lo avrebbe dato alle medesime condizioni.
In ogni caso – e, per scrupolo (per la non creduta ipotesi che ciò venga ritenuto necessario), anche in via di impugnazione ex art. 333 c.p.c. e, comunque, per scrupolo, per l’ipotesi che la Corte vada a pronunciarsi sulla garanzia assicurativa – rigettare la domanda di garanzia del convenuto nei confronti di in presenza e, comunque, qualora venissero accertate condotte dolose (e/o di accertati danni dolosamente cagionati) da parte del convenuto, in quanto in tale ipotesi la garanzia assicurativa è esclusa e la polizza non opera. Fermo restando quanto sopra osservato, eccepito, concluso e richiesto, in mero essere accolte le eccezioni e conclusioni di nel caso in cui si decida di pronunciare sulla garanzia, tenere conto del concreto oggetto del contratto di assicurazione stipulato e in generale dei limiti del contratto e della garanzia prestata in base ad esso, contenendo la non creduta condanna di entro il massimale di € 350.000,00 e, quindi, entro la somma di € 350.000,00.
Nella fattispecie, si eccepisce in particolare che il contratto di assicurazione dell’Avv. prevede un massimale di € 350.000,00 per sinistro e che l’assicurazione è prestata previa applicazione di uno scoperto del 5% per ogni sinistro con il minimo assoluto per ogni terzo danneggiato non inferiore euro 500,00 di cui si chiede l’applicazione.
Assolvere in ogni caso da ogni avversaria domanda e pretesa ed emettere in ogni caso ogni più utile pronuncia per l’esclusione di ogni obbligazione a carico di Non si accetta il contraddittorio su fatti tardivamente allegati e su domande, eccezioni, istanze e conclusioni nuove o illegittimamente modificate.
Si richiamano tutte le istanze, richieste, eccezioni e conclusioni proposte e sollevate in corso di causa, nessuna esclusa, che non possono in nessun caso intendersi abbandonate e che anzi vengono riproposte anche ex art. 346 c.p.c. Ci si oppone alle istanze istruttorie di parte attrice, come dalla stessa formulate, per le ragioni indicate nella memoria ex art. 183 co. 6 n. 3 c.p.c. depositata, a cui si rinvia, e ci si oppone alle istanze istruttorie presenti nella memoria ex art. 183 co. 6 n. 3 c.p.c. di parte attrice innanzitutto perché tardive (non essendo a prova contraria – né peraltro controparte lo deduce) e comunque perché i fatti capitolati sono generici e non collocati univocamente nel tempo e nello spazio (cfr. Cass. 9547/2009). Considerato che ha per mero scrupolo (non essendo ciò necessario, per le ragioni già esposte e condivise dalla Corte) proposto appello incidentale condizionato, per ulteriore scrupolo chiede che venga concesso termine per notificare all’Avv. contumace in secondo grado, la comparsa di costituzione e risposta in appello contenente (come detto, per scrupolo) appello incidentale, e ciò ai sensi dell’art. 292 c.p.c. e/o di qualunque altra norma ritenuta applicabile.
Con vittoria di spese e compensi di lite, oltre rimborso spese generali, cpa ed iva, anche del secondo grado di giudizio.
” OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 216/2023 del Tribunale di Firenze, in materia di responsabilità professionale dell’avvocato.
convenuto innanzi al Tribunale di Firenze l’Avv. al fine di ottenere la condanna del predetto al pagamento della somma di euro 46.852,00, oltre accessori, a titolo risarcitorio, previo accertamento della responsabilità del predetto professionista per le inadempienze asseritamente commesse nello svolgimento dell’incarico professionale da lei conferitogli nel 2005, in una vertenza di lavoro contro l’allora parte datoriale della , titolare della ditta – diretta ad ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza di condotte mobbizzanti perpetrate dal datore di lavoro, come da richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. in data 22 aprile 2006. In particolare, la sig.ra aveva imputato al professionista onerato della proposizione del ricorso ex art. 414 cpc, di non avere provveduto al deposito di tale atto – nonostante l’invio alla cliente della bozza della “parte in fatto”, che aveva ingenerato in lei il legittimo affidamento della proposizione della causa – lasciando prescrivere i diritti della cliente e rendendo vana l’attività anche di valutazione medico-legale dalla stessa sostenuta nella fase di istruttoria preprocessuale.
Aveva specificato che, non avendo ricevuto riscontro alle sue numerose comunicazioni, essa in data 30 gennaio 2018 aveva provveduto a revocare formalmente il mandato al professionista e, incaricato nuovo legale, aveva scoperto da controlli di cancelleria che nessun giudizio fra la stessa e la ditta era in essere innanzi ai Tribunali di Prato o di Firenze, e che mai nessun procedimento era stato iscritto a ruolo fra le suddette parti, ed appreso che, essendo il rapporto di lavoro cessato in data 30 novembre 2005, e non risultando esistenti validi atti interruttivi della prescrizione successivi alla proposizione della domanda di conciliazione, il suo diritto non poteva più essere utilmente esercitato. L’avv. si era costituito, contestando ogni responsabilità, ed in particolare esponendo che la alla quale lui aveva chiarito che si sarebbe trattato di un giudizio difficile, e che non era possibile portarlo avanti senza avere una solida base probatoria, non aveva mai provveduto a fornire una descrizione puntuale dei fatti di mobbing e a indicargli il nominativo dei testimoni che avrebbero dovuto confermare davanti al giudice tali fatti;
aveva anche rilevato che mancava la prova che, se proposta, la causa sarebbe stata ragionevolmente vinta, anche considerato che le cause di mobbing sono di difficile accoglimento;
comunque, aveva chiamato in causa il suo assicuratore per la responsabilità civile, La compagnia assicuratrice s’era costituita, aderendo alle ragioni del professionista verso la cliente, ma anche eccependo il difetto di copertura assicurativa ex art. 1892 c.c. , necessari per poter dar prova della fondatezza della domanda, mentre essa non aveva provveduto a comunicarglieli, che comunque mancava la prova che la causa, ove tempestivamente proposta, avrebbe avuto esito favorevole all’attrice, non essendo peraltro ammissibili le prove da lei dedotte su circostanze non oggetto di preventiva tempestiva allegazione, e che infine la aveva chiesto notizie sulla vertenza di cui alla bozza di ricorso inviatale nel 2010 soltanto nel 2016, con colpevole ritardo. ha impugnato tale sentenza, facendo valere i seguenti motivi (che si vanno a numerare e schematizzare per una migliore comprensione):
1) Era errata l’affermazione del primo giudice che essa non avesse provato i fatti costitutivi della sua domanda:
sin dalla citazione aveva allegato il conferimento dell’incarico professionale e il suo contenuto, producendo la bozza del ricorso introduttivo e la documentazione medica attestante le conseguenze dannose da lei patite in conseguenza delle condotte mobbizzanti;
le prove orali da lei richieste, e non ammesse, aventi ad oggetto i contegni illeciti del datore di lavoro, poi, non erano affatto inammissibili perché aventi ad oggetto circostanze non previamente allegate, posto che a tal fine si doveva avere riguardo non solo al contenuto della citazione, ma anche agli allegati versati in atti;
2) Il dire che non vi era prova del fatto che, se proposto, il ricorso sarebbe stato accolto era parimenti incongruo, visto che l’istruttoria da lei richiesta e non ammessa avrebbe appunto dimostrato la fondatezza della sua pretesa verso il datore di lavoro;
3) Era errata anche l’affermazione del tribunale che la dichiarazione del teste , secondo cui essa attrice aveva fornito al legale i nominativi dei testimoni da indicare, era incompatibile con quanto da lei dichiarato in sede di interrogatorio formale, secondo cui non era noto alla stessa che il nominativo dei testimoni doveva essere indicato in ricorso a pena di decadenza, trattandosi invece di affermazioni compatibili tra loro;
4) Aveva inoltre errato il tribunale nell’attribuirle una sorta di concorso di colpa, per non aver vigilato sul professionista e aver atteso il 2016 per chiedere notizie del contenzioso:
essa già con mail del 2014 aveva infatti chiesto ragguagli al legale, senza ottenere risposta;
5) Era censurabile l’affermazione contenuta nella sentenza appellata secondo cui la bozza di ricorso era carente non solo dell’indicazione dei testi, ma anche di ulteriori dati inerenti a fatti ivi dedotti, tanto che la mera indicazione dei testi non la moglie aveva consegnato all’avvocato anche un cd, e “Se si parla di un CD probabilmente si parla di diverse centinaia (se non migliaia) di pagine di documenti, altrimenti ben avrebbe potuto la Sig.ra consegnare delle fotocopie o un floppy disc”;
6) Infine, era ingiusta la condanna a rifondere le spese di lite dell’assicuratore, posto che questi aveva contestato la copertura assicurativa e, ove la chiamata in causa della compagnia assicuratrice da parte del convenuto fosse risultata infondata, le spese avrebbero dovuto essere poste a carico del chiamante, di talché il tribunale avrebbe dovuto previamente valutare l’eccezione di costituita, chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato (nelle conclusioni ne ha eccepito anche l’inammissibilità, ma senza nulla dedurre a supporto di tale eccezione), opponendosi alle prove chieste dalla e comunque, anche in via di impugnazione ex art. 333 c.p.c., domandando il rigetto della domanda di garanzia proposta dall’Avv. ex art. 1892 c.c. seppur ritualmente citato non s’è costituito e, dunque, non ha riproposto la propria domanda verso l’assicuratore, tanto che con ordinanza del 20.2.2024 questa Corte, nel dichiararne la contumacia, ha ritenuto superflua la notifica al medesimo dell’appello incidentale del suo assicuratore, essendo il rapporto assicurativo ormai estraneo all’appello (fermo restando che, essendo la domanda dell’assicurato rimasta assorbita in primo grado, alcun appello incidentale sarebbe stato necessario per la riproposizione da parte di delle proprie difese in punto di difetto di copertura assicurativa). La causa è stata trattenuta in decisione con ordinanza in data 13.1.2025, a seguito di trattazione scritta dell’udienza di precisazione delle conclusioni del 7.1.2025, ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c. 2. Il perimetro del presente giudizio.
Preliminarmente, appare opportuno ribadire che la mancata riproposizione da parte dell’Avv. – contumace in questo grado – della domanda di manleva nei confronti rimasta assorbita in primo grado, comporta la rinuncia a tale domanda, ex art. 346 c.p.c. La controversia verte dunque unicamente sulla domanda risarcitoria della nei confronti del – nei limiti dei motivi d’appello.
In ordine a tale domanda risarcitoria, per converso, la contumacia del non ha alcun rilievo, di talché va disattesa la deduzione avanzata dall’appellante nella propria ed accolte dal convenuto principale”:
benvero, nel nostro ordinamento la contumacia non ha il valore di una ficta confessio e il principio di non contestazione non opera in danno della parte contumace, né in primo né tantomeno in secondo grado.
3.
Il terzo motivo d’appello:
la colpa del professionista.
Il primo giudice ha così motivato il rigetto della domanda:
“Venendo al caso di specie, va rilevato che non vi è stato disconoscimento dell’incarico professionale per cui è causa, avendo il convenuto Avv. eccepito che invero l’incarico sarebbe venuto meno, data l’impossibilità di concluderlo per fatto della che non avrebbe fornito il necessario supporto, anche di carattere probatorio per la proposizione della vertenza di lavoro per mobbing.
Dal canto proprio la parte attrice ha affermato di non essere stata edotta dal legale convenuto della necessarietà dei dati richiesti e di aver invece confidato nella proposizione della vertenza, che suo malgrado apprendeva come mai proposta soltanto molti anno dopo.
Le prove assunte nel corso del giudizio, hanno consentito di riscontrare che era stata cura del convenuto, chiedere alla l’indicazione dei nominativi dei testimoni, necessari per poter dar prova della fondatezza della domanda.
Il teste , ha affermato che il legale convenuto era stato notiziato dalla cliente attrice anche dei nominativi da indicare, sebbene, va osservato che è circostanza incompatibile con quanto dichiarato in sede di interrogatorio formale da parte della secondo cui non era noto alla stessa che il nominativo dei testimoni doveva essere indicato in ricorso a pena di decadenza.
Il contenuto della bozza di ricorso, va osservato essere carente, non solo dell’indicazione dei testi, ma anche di ulteriori dati inerenti a fatti ivi dedotti, tanto che è da ritenere che, la mera indicazione dei testi non sarebbe stata sufficiente a rendere più probabile che non l’accoglimento del ricorso.
E, non erra la terza chiamata, a rilevare che la parte attrice ha totalmente omesso di affrontare la questione concernente il nesso di causalità, limitandosi ad insistere sul profilo relativo all’asserito errore professionale dell’assicurato, senza poi spiegare sulla base di quali elementi e di quale supporto probatorio la domanda nei confronti dell’ex datore di lavoro avrebbe avuto ragionevoli probabilità di essere accolta.
Nell’atto introduttivo del giudizio, la pretesa risarcitoria attorea, sia in punto an che in punto quantum, viene sostenuta esclusivamente sulla base delle risultanze del test per la valutazione dello stress e disadattamento lavorativo e sulla relazione di visita medico-legale di parte del Dott. (docc. 2-3), senza dedurre in ordine a quanto i testi avrebbero potuto dichiarare in ordine alle condotte mobbizzanti del terzo.
Né la stessa parte attrice ha ragione di dolersi della mancata ammissione dei capitoli di prova diretta a dimostrare , quand’anche la avesse confidato nella proposizione della vertenza, va osservato che era certamente tenuta non solo a consentire al legale di approntare la miglior difesa possibile, ma anche di curarsi di verificare l’attività del professionista, richiedendosi difatti una sua attività di vigilanza e controllo (cfr. C. Cass.12409/2021), che, nella fattispecie si evince non essere stata esercitata, considerato che la parte attrice ha documentato di aver richiesto notizie sulla vertenza di cui alla bozza di ricorso inviatale nel 2010, soltanto nel 2016. La domanda attrice merita pertanto reiezione in quanto non sorretta da utile supporto probatorio ai fini del relativo accoglimento, dato che, come sopra argomentato, non sono stati provati i relativi fatti costitutivi.
A questo decidente è stata difatti preclusa in radice la possibilità di valutare l’utilità, per la parte attrice della proposizione della vertenza, ove tempestivamente proposta.
La responsabilità del convenuto infatti non può sic et simpliciter essere desunta dal fatto che la non ha potuto “giocare le proprie carte in un processo”, giacchè si sarebbe dovuto piuttosto allegare, prima ancora che provare, che la causa di lavoro poteva essere utilmente e proficuamente istruita e che, con più probabilità che non, la domanda sarebbe stata accolta”.
I primi cinque motivi d’impugnazione della sono tutti volti ad ottenere la condanna del per responsabilità professionale, in parte attingendo la negata sussistenza di un nesso causale tra l’operato del professionista e il dedotto danno – anche passando attraverso la reiterazione delle istanze istruttorie – ed in parte attingendo la negazione di un inadempimento da parte del Il terzo, in particolare, attenendo al profilo della negligenza del professionista per non aver proposto il ricorso al giudice del lavoro, merita di essere esaminato in via preliminare, avendo portata dirimente. Come correttamente dedotto in primo grado dal le cause per “mobbing” necessitano un’adeguata istruttoria:
particolare, secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato al tempo del mandato (e anche ben oltre, fino al 2020), ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing” non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (solo negli ultimissimi anni si sta invero assistendo ad un progressivo abbandono di una nozione fondata sull’’intenzione datoriale, in favore dell’obiettiva sussistenza di un ambiente lavorativo logorante e “stressogeno” per il dipendente, comunque da provare anch’esso). potessero confermare, da indicare come testimoni;
specificamente, ex artt. 414 e 420 c.p.c., la richiesta di prova testimoniale doveva essere avanzata a pena di decadenza col ricorso introduttivo e, dunque, il professionista doveva avere aver acquisito sia una compiuta conoscenza dei fatti che il nominativo dei testi prima di depositare tale ricorso.
Tanto premesso, la tesi fatta valere dalla in primo grado è sempre stata quella secondo cui essa non aveva fornito al il nominativo dei testi perché questi non le aveva evidenziato la necessità di indicare fin dal ricorso tali nominativi, né le aveva prospettato la necessità di agire entro il termine prescrizionale.
Entrambi tali profili di inadempimento sono da escludere.
Partendo dal secondo, esso è documentalmente smentito dalla mail del 7.6.2016 (v. doc. , in cui la rivolgendosi al (di cui era buona conoscente) gli dice, con tono polemico:
così evidenziando di ben conoscere la sussistenza del termine prescrizionale, evidentemente rappresentatole dal professionista.
Si deve infatti sottolineare che, per deduzione della stessa essa si rivolgerà ad un altro legale solo all’inizio del 2018, quindi la consapevolezza, o quantomeno il sospetto, nel giugno 2016, dell’essere maturato il termine prescrizionale è sintomatico del fatto che essa aveva affrontato tale argomento col Peraltro, nel 2010, quando si svolsero tra le parti gli incontri per discutere di come impostare la causa di mobbing, la questione del possibile decorso del termine decennale di prescrizione non appariva neppure un problema concreto ed attuale (posto che tale termine non sarebbe decorso prima del 2016, stante la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione dell’aprile 2006: v. doc. 1 , di talché, quand’anche a tale epoca il legale si fosse limitato a chiedere alla cliente di dettagliare i contegni vessatori del datore di lavoro e d’indicargli persone che potessero confermare tali contegni, non per questo sarebbe stato negligente.
Il problema della prescrizione sorgerà infatti solo molti anni dopo, al termine di un periodo in cui, per stessa ammissione della essa non aveva più ricevuto alcuna notizia dal professionista.
Ma, appunto, dal tenore della suddetta mail si deve ritenere che verosimilmente il già nel 2010 (se non prima) avesse informato la cliente della sussistenza del termine decennale di prescrizione.
Tale mail, inoltre, lascia intendere che la avesse ben chiaro che l’azione per suo conto non era stata intrapresa e dunque rende scarsamente credibile l’affermazione della la ditta Peraltro, che essa potesse realmente (e ragionevolmente) pensare che fosse stato depositato un ricorso giudiziale contrasta anche con la circostanza, pacifica, che la lavoratrice non aveva rilasciato alcuna procura alle liti al legale, posto che anche il quisque de populo intuisce che la proposizione di una causa richiede un atto scritto da parte del cliente. Occorre dunque passare all’esame del primo profilo, ovvero stabilire se effettivamente l’avv. avrebbe dovuto depositare il ricorso giudiziale contro il datore di lavoro della e nel rispondere a tale domanda appare cruciale l’esito dell’istruttoria svolta in primo grado:
invero, il fatto che il professionista non avesse chiarito alla cliente che per proporre il ricorso occorreva che essa fornisse il nominativo dei testimoni è stato radicalmente smentito dall’espletamento della prova testimoniale, come correttamente evidenziato dal tribunale.
Gli stessi testi indicati dall’attrice, (figlio della (marito della , infatti, escussi all’udienza del 16.3.2022, alla domanda rivolta loro se fosse vero che “l’Avv. aveva espressamente richiesto alla Sig.ra comunicazione dei nominativi dei testimoni utili per l’istruttoria processuale, precisando che senza tale indicazione non avrebbe potuto completare e depositare il ricorso inviato in bozza”, hanno concordemente risposto:
“Sì, è vero”.
, sua sponte, ha poi aggiunto che la moglie aveva allora comunicato al legale due nominativi, quelli nome del ragioniere della ditta dove lavorava e quello della moglie del titolare della ditta, ma come correttamente rilevato dal primo giudice tale affermazione contrasta con quella, effettuata dalla ricorrente nel corso del proprio interpello, che essa non sapeva di dover comunicare tali nominativi.
Non solo:
quand’anche volesse ipotizzarsi un’astratta compatibilità tra le due affermazioni (come sostiene l’appellante), il fatto che la avrebbe indicato al professionista il nome di due testimoni contrasta anche con tutte le deduzioni effettuate in primo grado dalla medesima.
Essa, in particolare, nella propria memoria ex art. 183 comma sesto n. 1, ha sostenuto che:
“Sicuramente se la cliente avesse ricevuto una precisa scadenza entro cui comunicare eventuali dati mancanti lo avrebbe fatto in maniera tempestiva per evitare di decadere dalla possibilità di azionare un proprio diritto e dalla possibilità quindi di essere risarcita di un danno ingiustamente patito.
Poca forza ha quindi l’eccezione di controparte di non aver potuto depositare il ricorso per la mancata indicazione da parte della Sig.ra dei nominativi dei testimoni da inserire nell’atto introduttivo del anche all’epoca dei fatti.
Manca sul punto ogni e qualsivoglia forma di comunicazione da parte dell’Avv. in ordine alla necessità di predisporre una lista testimoniale sin dal primo atto processuale e manca la comunicazione di una tempistica per ricevere detta lista testi”.
Tali deduzioni presuppongono infatti in modo univoco che alcuna indicazione dei testi fosse stata effettuata dalla cliente.
Dunque, se entrambi i congiunti dell’appellante avevano ben compreso la necessità di indicare al legale il nominativo dei testimoni, e se gli anni passarono senza che tale nominativo fosse comunicato, non si vede come si possa addebitare all’avv. mancata proposizione del ricorso.
Peraltro, la non ha imputato al legale di non averla più contattata per rinnovarle la richiesta del nominativo dei testimoni, ma anche se lo avesse fatto si dovrebbe dubitare che la diligenza del professionista dovesse spingersi fino a sollecitare la cliente, una volta che le aveva chiarito i termini della questione e di essere in attesa dell’indicazione dei testi.
Non solo: la circostanza, pacifica, già evidenziata, che la non avesse rilasciato alcuna procura alle liti colora la complessiva vicenda in modo significativo anche dal lato del professionista, che ben può aver pensato che la lavoratrice, consapevole della difficoltà di vincere una causa per mobbing, avesse desistito, o che si fosse rivolta ad altro legale.
Neppure potrebbe, d’altro canto, ipotizzarsi una responsabilità del per non aver riscontrato la mail del 31.7.2014 (doc. 6) con cui la gli chiedeva informazioni principalmente per una vicenda relativa ad un sinistro stradale, ma in coda anche relativamente alla controversia contro per l’assorbente ragione che mai (né in primo grado, né in questa fase) l’appellante ha ricollegato la responsabilità del professionista a tale silenzio (tanto che, non avendo mai assunto questo profilo un qualche rilievo in causa, non ha preso alcuna posizione su tale mail, che potrebbe anche non aver mai letto). Dunque, si deve confermare l’assenza del dedotto inadempimento professionale, ciò che rende superfluo l’esame degli ulteriori motivi d’impugnazione relativi al nesso causale tra il contegno del e il danno lamentato dall’appellante.
4. Il sesto motivo d’appello:
la condanna alle spese dell’assicuratore.
Col sesto motivo d’impugnazione la ha dedotto che era ingiusta la sua condanna a rifondere le spese di lite dell’assicuratore, posto che questi aveva contestato la copertura assicurativa e, ove la chiamata in causa della compagnia assicuratrice da parte del , di talché il tribunale avrebbe dovuto previamente valutare l’eccezione di Anche tale motivo è infondato.
Invero, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte (cfr. Cass. 17/09/2019 n. 23123; 01/07/2021 n. 18710; 8/04/2023 n. 10364), Le spese di giudizio sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in garanzia, trovando tale statuizione adeguata giustificazione nel principio di causalità, che governa la regolamentazione delle spese di lite, anche se l’attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo, salvo che l’iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria. Ebbene, nel caso in esame la chiamata appariva tutt’altro che palesemente arbitraria:
tra il professionista e era infatti stata stipulata una polizza per la responsabilità professionale astrattamente applicabile ai fatti di causa, per contenuto e vigenza temporale;
solo, l’assicuratore aveva eccepito, ex art. 1892 c.c., che l’assicurato non gli avesse comunicato al momento della stipula il rischio che la sig. facesse valere una sua responsabilità, ma considerato il lunghissimo lasso di tempo intercorso tra il conferimento del mandato (e gli ultimi fattivi contatti tra le parti, nel 2010) e la prima richiesta risarcitoria della cliente, dell’ottobre 2018, non vi sono elementi per affermare che nel rinnovare la polizza con le abbia dolosamente o anche solo con colpa grave taciuto alcunché.
5.
Le spese di lite.
Stante la contumacia del nulla dev’essere statuito sulle spese di lite tra il medesimo e l’appellante.
Quanto, invece, alle spese dell’assicuratore, è vero che una volta emersa la situazione di contumacia dell’assicurato l’assicuratore non aveva più alcun interesse a difendersi dalla di lui pretesa (rinunciata), è però è vero anche che:
che non si sarebbe costituito l’ha scoperto solo dopo essersi costituita, ciò che era onerata di fare tempestivamente, ex art. 346
c.p.c., di talché certamente le spettano le fasi di studio e introduttiva;
b) più in generale, e dunque anche per quanto riguarda le spese della fase decisoria (quella istruttoria-di trattazione non è stata espletata), l’assicuratore aveva interesse a che l’appello venisse respinto, posto che in caso di accoglimento le spese del primo grado, anche dell’assicuratore, avrebbero dovuto essere (pur in mancanza della domanda di manleva del professionista) tali spese non sarebbero state poste a carico del che era validamente assicurato.
Dunque, l’appellante dev’essere condannata a rifondere a le spese dell’appello, ma secondo i valori minimi, posto che l’assicuratore s’è limitato a reiterare gli argomenti spesi in primo grado;
allora, sulla base del D.M. 55/14 come modificato dal D.M. 147/22, applicato lo scaglione a 26.001 a 52.000, si deve liquidare la somma di euro 3.473,00.
La Corte di Appello di Firenze, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da avverso la sentenza n. 216/2023 del Tribunale di Firenze, ogni altra domanda, istanza, eccezione, deduzione disattesa od assorbita, così provvede:
respinge l’appello;
condanna l’appellante a corrispondere all’appellata le spese dell’appello, che liquida nella somma di euro 3.473,00.
Dà atto che, per effetto della odierna decisione, sussistono i presupposti di cui all’art. 13 comma 1-quater d.P.R. 115/2002 per il versamento, ove dovuto, da parte appellante dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’articolo stesso.
Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 21.3.2025.
Il Presidente estensore dott.ssa NOME COGNOME La divulgazione del presente provvedimento, al di fuori dell’ambito strettamente processuale, è condizionata all’eliminazione di tutti i dati sensibili in esso contenuti ai sensi della normativa sulla privacy ex D. Lgs 30 giugno 2003 n. 196 e successive modificazioni e integrazioni.
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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