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Busta paga, natura di confessione stragiudiziale

La busta paga ha natura di confessione stragiudiziale, ha piena efficacia di prova legale, vincolante quanto alle indicazioni ivi contenute.

Pubblicato il 03 July 2020 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI TERNI
SEZIONE LAVORO

Il giudice del lavoro, nella causa iscritta al numero 138 del ruolo generale dell’anno 2020 promossa

DA
XXX, in persona dell’omonimo titolare, con sede legale in, elettivamente domiciliata in, presso lo studio del procuratore Avv.to che la rappresenta e difende come da procura rilasciata in atti

OPPONENTE CONTRO

YYY, elettivamente domiciliato in, presso lo studio del procuratore Avv.to che lo rappresenta e difende come da procura rilasciata in calce al ricorso per decreto ingiuntivo

OPPOSTO

SENTENZA n. 286/2020 pubblicata il 02/07/2020

OGGETTO: opposizione a decreto ingiuntivo

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in opposizione depositato in data 26 febbraio 2020 la ditta individuale “XXX” in persona dell’omonimo titolare, premesso che con decreto ingiuntivo n. /2020 – n. RG /2019 emesso in data 15 -16 gennaio 2020 dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Terni, Dott.ssa, notificato in data 17 gennaio 2020, gli era stato ingiunto il pagamento in favore di YYY della somma di € 14.688,56, al lordo degli oneri contributivi e fiscali, oltre rivalutazione monetaria, interessi e spese legali, asseritamente dovuta a titolo di TFR, retribuzioni da agosto 2017 a febbraio 2018, rateo 13° mensilità, contestava sia l’”an” che il “quantum” della pretesa creditoria deducendo: – che l’ammontare della pretesa economica era stata calcolata al lordo delle ritenute fiscali e non al netto spettante al lavoratore, avendo la società opponente ed il lavoratore sottoscritto in data 6.02.2018 un piano di rateizzazione del pagamento della somma che prevedeva la corresponsione al ricorrente dell’importo al netto delle ritenute pari ad € 10.963,82; – che il riconoscimento di debito sotto forma di scrittura privata con piano di rimborso rateale non prevede alcuna risoluzione espressa in caso di mancato pagamento di quanto dovuto; – che i contributi relativi al mese di agosto 2017 dei dipendenti della ditta opponente sono stati oggetto di richiesta di rottamazione accolta dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione con pagamenti in regola mentre per i mesi da settembre 2017 a febbraio 2018 è stata chiesta una rateizzazione all’Agenzia delle Entrate – Riscossione; – di aver corrisposto, medio tempore, al ricorrente un acconto di € 1.500,00 tramite ricariche effettuate sulla Postepay intestata al lavoratore nell’anno 2018 da imputarsi a saldo della busta paga di agosto 2017, sottoscritta per quietanza, ed in acconto della mensilità di settembre 2017.

Concludeva chiedendo al Tribunale intestato di revocare e dichiarare privo di effetti il decreto ingiuntivo opposto e per l’effetto di accertare e dichiarare che la società opponente deve corrispondere al lavoratore la minore somma da accertarsi in corso di causa per le ragioni di cui all’opposizione, con vittoria delle spese di lite.

Si costituiva YYY contestando l’opposizione in quanto infondata ed insistendo, previa concessione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo, per il rigetto della stessa, opponendosi, altresì, all’ammissione dei mezzi istruttori articolati dalla parte opponente.

In particolare deduceva: – l’assenza di prova in merito al versamento delle ritenute dovute per legge da parte della ditta opponente sulle mensilità non percepite dal lavoratore, posto che i documenti depositati non consentirebbero di ritenere assolti gli obblighi di legge contributivi e fiscali nei confronti del YYY; – che la scrittura privata sottoscritta dalle parti altro non era che una dilazione di pagamento del dovuto e non una transazione; – che le ricariche poste pay erano state depositate solo nella minore somma di € 1.000,00 senza tuttavia indicare la causale; – che la sottoscrizione della busta paga di agosto 2017 non costituisce prova dell’intervenuto pagamento della retribuzione.

La causa veniva istruita con la sola produzione documentale, previo rigetto della richiesta di prova orale come da ordinanza istruttoria che qui si richiama.

Quindi sulle conclusioni indicate nelle note di trattazione scritta la causa veniva decisa con sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 83, comma 7, lettera h) del decreto legge n. 18/2020.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Venendo al merito si premette che su istanza di YYY il Tribunale di Terni in data 15.01.2020 ingiungeva alla ditta “XXX” datrice di lavoro il pagamento della somma di € 14.688,56, al lordo degli oneri contributivi e fiscali, a titolo di TFR, retribuzioni da agosto 2017 a febbraio 2018, 13° mensilità, oltre interessi e svalutazione monetaria, non ancora corrisposti nonostante la cessazione dello stesso, e oltre spese del procedimento monitorio.

In linea di diritto l’opposizione a decreto ingiuntivo, che si pone come fase ulteriore del procedimento già iniziato con il deposito del ricorso per ingiunzione, dà luogo ad un giudizio di cognizione – che si svolge secondo il rito ordinario in contraddittorio fra le parti – avente ad oggetto la domanda proposta dal creditore con il ricorso per ingiunzione e nel quale le parti, pur apparentemente invertite, conservano la loro posizione sostanziale, rimanendo così soggette ai rispettivi oneri probatori. In effetti, a seguito dell’opposizione, il giudizio, da sommario che era, si trasforma in giudizio a cognizione piena.

In sostanza, il giudice dell’opposizione non si limita ad esaminare se l’ingiunzione sia stata emessa legittimamente, ma procede all’esame del merito della controversia con poteri di cognizione piena, sulla base sia dei documenti prodotti nella fase monitoria che dei mezzi istruttori eventualmente ammessi ed assunti nel corso del giudizio.

Pertanto, il creditore (al quale compete la posizione sostanziale di attore, per aver richiesto l’emissione del decreto) ha, nella presente fase, l’onere di provare tutti i fatti costitutivi del diritto vantato (cfr., in proposito, Cass. 4.12.1997, n. 12311; id 14.4.1999, n. 3671; id 25.5.1999, n. 5055; id. 7.9.1977 n. 3902; id. 11.7.1983 n. 4689; id. 9.4.1975 n. 1304; id. 8.5.1976 n. 1629) e, in particolare, l’esistenza e la misura del credito azionato nelle forme della tutela monitoria.

Ed è noto che, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per l’adempimento della stessa deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto ad essere gravato dell’onere della prova dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi del credito, di tal che le difese con le quali l’opponente miri ad evidenziare l’inesistenza, l’invalidità o comunque la non azionabilità del credito vantato “ex adverso” non si collocano sul versante della domanda – che resta quella prospettata dal creditore nel ricorso per ingiunzione – ma configurano altrettante eccezioni (per tutte, Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533).

Vige il principio della presunzione di persistenza del diritto, desumibile ex art. 2697 c.c., per il quale, una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto, grava sul debitore l’onere di provare l’esistenza del fatto estintivo costituito dall’adempimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9351 del 19/04/2007 anche in motivazione).

Colui che agisce in giudizio per ottenere il pagamento di una somma di denaro, deve dare la prova del fatto costitutivo dell’asserito credito, contestato dal convenuto.

Il convenuto (nella specie l’opponente, convenuto in senso sostanziale rispetto alla avversa domanda monitoria: cfr. per tutte da ultimo Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8423 del 11/04/2006) ha- invece, com’è noto- l’onere della contestazione specifica dei fatti costitutivi della domanda attorea ( cfr. da ultimo Cass. N. 15107/2004; 6666/2004; Cass. N. 9285/2003).

Egli non può quindi limitarsi ad una generica contestazione dei medesimi ed in particolare dei conteggi allegati dall’opposto (attore in senso sostanziale) alla quantificazione del diritto (cfr. SU. Cass. sentenza n. 761 del 23 gennaio 2002; Cass. Sez. L, Sentenza n. 9285 del 2003).

La “non contestazione” – cui è processualmente equiparabile la contestazione generica – ha quindi valenza processuale di “comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7074 del 28/03/2006; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10031 del 25/05/2004).

Ne consegue che ad esempio la mancata o generica contestazione in primo grado – rappresentando, in positivo e di per sè, l’adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto – rende i conteggi accertati in via definitiva, vincolando in tal senso il giudice, e la contestazione successiva in grado di appello è tardiva ed inammissibile (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 9285 del 10/06/2003).

Si evidenzia allora, più in particolare, in relazione all’onere di specifica contestazione, che la nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c., come novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 14, non ha fatto altro che recepire un principio generale, quello di non contestazione, costantemente affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza e che ha avuto l’avallo anche delle Sezioni Unite fin dal precedente di Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 761 del 23/01/2002 che ha ritenuto la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti.

Pertanto, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal legislatore, rappresenta l’adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto, e quindi, rende inutile provarlo perché non controverso (così, in motivazione, Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 12065 del 29/05/2014, che evidenzia come la riforma dell’art. 115 c.p.c., disposta dalla L. n. 69 del 2009, ha interessato solo l’ampliamento del fenomeno, non distinguendo ai fini della applicazione del principio di non contestazione tra fatti “principali” e fatti “secondari”).

Premesso che non è oggetto di contestazione l’esistenza di un rapporto di lavoro tra le parti, la maturazione dell’importo di € 14.688,56, al lordo degli oneri contributivi e fiscali come emergenti dalle buste paga (documenti redatti e consegnati dal datore di lavoro al lavoratore e non contestati all.ti al fascicolo di parte opposta), e l’omissione da parte del datore di lavoro del pagamento delle spettanze come indicate, ad eccezione della somma di € 1.500,00 corrisposta con n.3 ricariche Postepay di importo pari ad € 500,00 prima del deposito del ricorso monitorio (cfr. doc.ti all.ti al fascicolo di parte opponente), la società opponente fonda la propria opposizione sull’erroneità dei conteggi per avere il lavoratore indicato le somme lorde in luogo di quelle nette, sulla inesigibilità del credito a fronte di un accordo sottoscritto dalle parti e sulla spettanza di una minor somma avendo riguardo al pagamento di un acconto intervenuto medio tempore.

Innanzitutto deve evidenziarsi che l’ingiunzione di pagamento è stata emessa sulla base delle buste paga emesse e consegnate dal datore di lavoro al lavoratore e non contestate con riferimento all’importo nelle stesse indicate (da agosto 2017 a febbraio 2018).

La parte opponente non ha smentito la documentazione dell’ingiungente, la quale si ha per tacitamente riconosciuta secondo il meccanismo ex art. 215 cpc (con conseguente utilizzabilità probatoria ed opponibilità alla parte datrice, ai fini corrispettivi dedotti in lite).

Ne deriva la fondatezza ed esigibilità della pretesa, in quanto supportata da atti e quantificazione di origine datoriale.

Come noto la busta paga ha natura di confessione stragiudiziale, sicché, giusta gli artt. 2734 e 2735 cod. civ., ha piena efficacia di prova legale, vincolante quanto alle indicazioni ivi contenute (cfr. Cass. Sez. L, Sent. n. 2239 del 30/01/2017; Cass. Sez. L, Sent. n. 12769 del 02/09/2003).

Peraltro non sussistono altri elementi per ritenere che le buste paga riportino dati erronei ovvero falsi.

Al riguardo è noto che la busta paga, quando sia chiara e non contraddittoria, ha valore di piena prova circa le indicazioni in essa contenute, salvo che il datore di lavoro denunci eventuali vizi di errore o violenza (Cass. 17 maggio 2006, n. 11536; Cass. 17 settembre 2012, n. 15523), vizi che nel caso di specie non sono stati sollevati.

Si aggiunga che le buste paga sono a loro volta basate sul contratto di lavoro subordinato intercorso tra le parti, e che, inoltre, la domanda attorea non attiene a pretese retributive diverse ed ulteriori rispetto a quello pattuito nel contratto, bensì a retribuzioni ed accessori comunque previsti nel contratto inter partes e nella documentazione, funditus le buste paga, rilasciate dal datore di lavoro al lavoratore.

Osserva, a questo punto, il giudice che la retribuzione del lavoratore è la somma di denaro che per contratto il datore di lavoro deve erogare in favore del lavoratore. La circostanza che lo stesso datore di lavoro, per legge, sulla retribuzione sia tenuto ad effettuare una trattenuta da versare all’Erario in qualità di sostituto di imposta, non incide in alcun modo sul calcolo della retribuzione che rimane pur sempre quella lorda, cioè l’intero compenso fissato dal contratto. Pertanto, il datore di lavoro obbligato al pagamento in favore del lavoratore di una somma di denaro (c.d. somma lorda) è tenuto sulla stessa ad operare in qualità di sostituto di imposta una trattenuta da versare all’erario, trattenuta che costituisce una componente della retribuzione, e a corrispondere le somme residue (c.d. somme nette) al lavoratore: ne consegue che correttamente le somme ingiunte sono state calcolate al lordo delle imposte in quanto sulle stesse il datore di lavoro dovrà operare le trattenute fiscali, ovvero qualora non vi provveda, il lavoratore sarà obbligato al versamento delle imposte.

La Suprema Corte sul punto ha affermato che l’accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive, e quindi anche per il trattamento di fine rapporto, debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, poiché il meccanismo della determinazione di questi ultimi inerisce ad un momento successivo a quello dell’accertamento e della liquidazione delle spettanze retributive e si pone in relazione al distinto rapporto d’imposta, sul quale il giudice chiamato all’accertamento e alla liquidazione predetti non ha il potere di interferire, rientrando il relativo accertamento nella giurisdizione esclusiva delle commissioni tributarie (cfr. Cass. Sez. Lav. 7 luglio 2008, n. 18584; Cass. Sez. Lav. 18 aprile 2003, n. 6337 da ultimo Cass. Sez. Lav. n.21010/2013).

In sostanza “l’accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo e non al netto delle ritenute fiscali (e previdenziali) gravanti sul lavoratore’; e ciò per il caso di mancato spontaneo adempimento da parte del datore di lavoro dell’obbligo retributivo: ‘infatti .. al datore di lavoro è consentito di procedere alla ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo ai sensi dell’art. 19 L. 218/52;’ mentre ‘per quanto concerne invece le ritenute fiscali esse non possono essere detratte dal debito per differenze retributive, giacché la determinazione di esse non attiene al rapporto civilistico tra datore di lavoro e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario e dovranno essere pagate dal lavoratore solo dopo che esso abbia percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli” (v. Cass. n. 12566 del 29.5.2014 e Cass. n. 19790 del 28.9.2011).

Nel caso in cui il datore di lavoro non adempia, spontaneamente ed alla scadenza, ai propri obblighi di pagamento di quanto spettante al lavoratore, perde, infatti, come chiarito dalla Suprema Corte, la propria funzione di sostituto d’imposta; il lavoratore, quindi, che agisca in executivis per il mancato spontaneo adempimento del datore di lavoro, ha diritto a conseguire l’intera disponibilità del suo credito di lavoro, facendo a lui capo ogni obbligazione verso il fisco.

Dalla documentazione depositata dall’opponente si evince esclusivamente l’intervenuta rottamazione dei debiti contributivi e fiscali ed altro maturati dall’opponente nei confronti dell’erario ed un accoglimento di istanza di rateizzazione, documentazione che non attesta, stante anche la genericità che la caratterizza, l’effettivo pagamento degli oneri fiscali e previdenziali afferenti la posizione del lavoratore YYY per il periodo di interesse, a fronte, peraltro, della omessa produzione in giudizio di qualsiasi documentazione attestante l’intervenuto pagamento delle rate già scadute (ad es. modelli F24). Sotto altro profilo parte opponente sostiene l’inesigibilità della somma di cui all’accordo siglato tra le parti nel febbraio 2018 di rateizzazione del pagamento della somma dovuta dall’opponente al YYY, stante la mancata previsione, in favore del creditore – lavoratore, del potere di risolvere la pattuizione nel caso di mancato pagamento da parte del debitore – odierno opponente.

La tesi suggestiva non coglie nel segno, atteso che, ad avviso di chi scrive, la previsione del beneficio del termine in favore del debitore attraverso il piano di rateizzazione non preclude al creditore di agire giudizialmente per ottenere il pagamento del credito nel caso di inadempimento da parte dell’obbligato alle scadenze stabilite ed anche oltre.

L’art. 1186 c.c. (Decadenza dal termine) dispone espressamente che: “Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse”.

Sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, ha statuito che “Ai fini dell’operatività della decadenza dal beneficio del termine, l’interruzione dei pagamenti rateali non integra le condizioni previste dall’art. 1186 c.c., essendo necessario che ricorra l’insolvenza o la diminuzione o il mancato conferimento delle garanzie date dal debitore” (Cass. civ. sez. lav., 11 novembre 2016, n. 23093).

Inoltre, è stato anche precisato che ai fini dell’art. 1186 c.c. “la possibilità per il creditore di esigere immediatamente la prestazione, non postula il conseguimento di una preventiva pronuncia giudiziale né la formulazione di un’espressa domanda, potendo essere il diritto al pagamento immediato virtualmente dedotto con la domanda o il ricorso per ingiunzione di pagamento del debito non ancora scaduto, in quanto la sentenza o il decreto che tale domanda accolgano devono ritenersi contenere un implicito accertamento positivo delle condizioni per l’applicabilità della citata norma” (Cass. 18 novembre 2011, n. 24330, in motivazione).

Osserva il Tribunale che nella fattispecie al vaglio con la scrittura privata del febbraio 2018 le parti hanno previsto in favore del debitore un piano di rateizzazione con decorrenza dal marzo 2018 ed avente scadenza ad agosto 2019 (ultima rata), tuttavia parte opponente – debitrice, ad eccezione di quanto si dirà appresso per una minima parte del debito, non ha ottemperato alle pattuizioni ivi previsti risultando inadempiente per la quasi totalità del debito con conseguente diritto del lavoratore del lavoratore di richiedere giudizialmente l’adempimento per l’intera somma, ivi compresi gli oneri fiscali e previdenziali, peraltro derivanti dalla legge.

Anche in parte qua l’opposizione non può trovare accoglimento.

Residua la circostanza dell’intervenuto pagamento di un acconto pari ad € 1.500,00 sul maggior dovuto mediante ricarica Poste pay asseritamente avvenuta in tre tranches ciascuna di € 500,00.

La circostanza è in parte fondata, avendo l’opponente depositato n.2 ricevute attestanti il versamento in due momenti diversi (mese di giugno 2018) di € 500,00 sulla Poste Pay intestata a YYY, circostanza che oltre ad essere documentalmente provata non è stata contestata dall’opponente, il quale non ha negato né la titolarità della carta, né l’intervenuto versamento della somma di € 1.000,00 limitandosi a eccepire genericamente l’assenza di causale che ad avviso di chi scrive, non risultando la sussistenza di altri rapporti inter partes o causali di credito ulteriori non dedotte e/o prospettate, neppure genericamente, dall’opposto, deve necessariamente ricondursi all’adempimento dell’accordo di rateizzazione stipulato nel febbraio 2018 che prevede appunto ogni rata dell’importo di € 500,00.

Alla luce delle considerazioni di cui sopra il pagamento della somma di € 1.000,00 determina la revoca dell’opposizione e la condanna della parte opponente al pagamento in favore di YYY della somma di € 13.688,56, al lordo degli oneri contributivi e fiscali, oltre rivalutazione monetaria, interessi e spese legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo.

L’accoglimento solo in minima parte dell’opposizione giustifica la compensazione delle spese di lite nei limiti di ¼; parte opponente, comunque soccombente, deve essere condannata al pagamento in favore dell’opposto YYY dei 3/4 delle spese di lite, ivi comprese quelle del monitorio, come liquidate in dispositivo, considerati i valori medi del compenso, tuttavia esclusa la fase istruttoria, non espletata, e quella decisoria (le note d’udienza sono una semplice ripetizione delle conclusioni della memoria di costituzione) e tenuto conto della semplicità delle questioni giuridiche affrontate.

P.Q.M.

disattesa ogni diversa istanza, eccezione o deduzione, il Tribunale di Terni, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:

– In accoglimento parziale dell’opposizione, per le ragioni di cui alla parte motiva, revoca il decreto ingiuntivo n.6/2020 emesso dal Tribunale di Terni in data 15 -16 gennaio 2020 e notificato in data 17 gennaio 2020 e per l’effetto condanna la ditta individuale “XXX”, in persona dell’omonimo titolare, al pagamento in favore di YYY della somma di € 13.688,56, al lordo degli oneri contributivi e fiscali, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla pubblicazione della sentenza al saldo;

– compensa tra le parti le spese di lite nella misura di ¼;

– condanna la ditta individuale “XXX”, in persona dell’omonimo titolare, al pagamento in favore di YYY delle spese del presente giudizio e di quelle della fase monitoria nella misura di 3/4 che si liquidano in complessivi € 2.400,00 per compensi professionali, oltre spese forfettarie, IVA e CPA come per legge.

Terni, il 2 luglio 2020

Il giudice

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