Cancellazione della società dal registro delle imprese, rinuncia implicita alle mere pretese da parte del liquidatore di società
L’estinzione della società.
Dopo la riforma di cui al Decreto Legislativo n. 6 del 2003, le società di capitali si estinguono per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, a norma del nuovo articolo 2495 c.c., salvi espressi casi di legge in contrario.
Com’è noto, la norma ha posto fine all’orientamento giurisprudenziale che – al fine, per vero, di razionalizzare la situazione esistente in presenza di sopravvenienze attive o passive reputava la società sempre in vita, purché esistessero ancora rapporti pendenti.
La sorte dei residui attivi: i precedenti.
Esclusa ogni possibilità di conservare tale visuale, a fronte di una lettera e di un fondamento inequivocamente contrari (v. l’incipit dell’articolo 2495 c.c., comma 2), plurime questioni poste dalle situazioni concrete sono, peraltro, rimaste aperte.
Fra queste, rileva qui solo il tema della sorte di un credito controverso, esistente al momento della cancellazione volontaria della società dal registro delle imprese.
Al riguardo, il primo spunto offerto dalla sentenza Cass. 16 luglio 2010, n. 16758, la quale riguardava propriamente non il tema delle sopravvivenze (beni o diritti preesistenti alla liquidazione, quali residui attivi non liquidati e trascurati) o delle sopravvenienze attive (perché non se ne conosceva l’esistenza), ma la mera “pretesa giudiziaria volta… a far accertare la simulazione di un negozio risolutivo di cui la società cancellata era parte”; e dove si era concluso che, se la società sarebbe stata legittimata all’esercizio di una simile azione, essa non l’aveva però mai intrapresa: e, “con la decisione di porsi in liquidazione e cancellarsi dal registro, ha evidentemente scelto di non farlo”. Con la conclusione che tale pregresso comportamento dimostra come la società abbia scelto di rinunciare proprio ad esperire l’azione.
Tale originario spunto, è stato poi ripreso dalle decisioni, rese a Sezioni unite, in cui si ebbe ad affermare come sia “ben possibile” che la scelta della società di cancellarsi dal registro delle imprese, nonostante una “pendenza non ancora definita”, ma ad essa nota, sia da intendere come “tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa”, essendo dato di “postularsi agevolmente” ciò, quando si tratti di “mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione” (Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070, ove pure si aggiungeva: “Ma quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata, e dunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sul regime di quei residui o di quelle sopravvenienze attive”).
Tale passaggio, pur ripreso in seguito da varie pronunce (in tema di società di capitali, Cass. 24 dicembre 2015, n. 25974; in tema di società di persone, Cass. 15 novembre 2016, n. 23269; Cass. 10 giugno 2014, n. 13017; Cass. 21 gennaio 2014, n. 1183; si arresta, invece, alla declaratoria di inammissibilità del ricorso Cass. 19 luglio 2018, n. 19302), ma disatteso nei fatti da altre (che hanno considerato legittimati gli ex soci nel diritto trasferito per successione: cfr. Cass. 11 giugno 2019, n. 15637; Cass. 4 luglio 2018, n. 17492), va ora meglio precisato.
La regola della successione in capo ai soci dei residui attivi e l’eccezione della non sopravvivenza delle “mere pretese”.
Una volta estinta la società, i diritti dalla medesima vantati, non liquidati nel bilancio finale di liquidazione (perché al momento non considerati, se ne ignorasse, o no, l’esistenza), transitano nella titolarità dei soci.
Questa è la portata decisoria del principio, fissato dalle Sezioni unite nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013, e non più smentito, il quale ha ricondotto la fattispecie ad un fenomeno successorio in capo ai soci, atteso che il primo soggetto si estingue e proseguono il processo i suoi successori a titolo universale: avendo, invero, ragionato tali sentenze nel senso che tale disposizione contempla, altresì, qualsiasi “altra causa” per la quale una parte venga meno, onde risulta idonea a ricomprendere anche l’ipotesi dell’estinzione dell’ente collettivo.
Ma, se questa è la regola ormai fissata, ogni eccezione alla stessa ed al conseguente passaggio in titolarità dei soci delle situazioni attive già facenti capo alla società – sia quanto alle cd. sopravvivenze attive, sia quanto alle cd. sopravvenienze attive deve essere adeguatamente allegata e dimostrata da chi intenda farla valere.
La remissione del debito.
La rinuncia costituisce un atto negoziale abdicativo unilaterale ricettizio, onde di tale categoria ha tutti i requisiti: la volontarietà dell’atto e dei suoi effetti (negozio giuridico, inteso come dichiarazione di volontà, diretta a realizzare effetti giuridici), la modalità espressiva idonea a trasmettere il contenuto e la comunicazione a destinatario determinato, ossia, ove si tratti di diritto relativo, il titolare del lato passivo del rapporto.
Nel rapporto obbligatorio, l’atto estintivo dell’obbligazione per rinuncia del creditore assume tipicamente il nome di remissione del debito.
Essa è regolata dall’articolo 1236 c.c., il quale dispone che la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore (salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare).
Analizzando tali elementi, può dirsi quanto segue.
a) Quale atto abdicativo di natura negoziale, la remissione del debito anzitutto “esige e postula che il diritto di credito si estingua conformemente alla volontà remissoria e nei limiti da questa fissati, ossia che l’estinzione si verifichi solo se ed in quanto voluta dal creditore con la conseguenza che la volontà di remissione presuppone anche, e in primo luogo, la consapevolezza, nel creditore, dell’esistenza del debito; peraltro, pur non potendosi presumere, la remissione del debito può ricavarsi anche da una manifestazione tacita di volontà, ma in tal caso è indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito” (Cass. 14 luglio 2006, n. 16125; Cass. 4 ottobre 2000, n. 13169; Cass. 21 dicembre 1998, n. 12765).
b) In secondo luogo, quanto alla forma o alla modalità espressiva della volontà di rinuncia, essa deve essere idonea a veicolarne il contenuto. La remissione del debito non è soggetta a particolari requisiti di forma. Pertanto, ben può ammettersi una remissione tacita anche attraverso un comportamento concludente, dato che la remissione del debito non richiede una forma solenne: tuttavia, è in tal caso indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze significative ed inequivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito.
La necessità di una manifestazione inequivoca di volontà remissoria, da valutare con particolare rigore, è stata più volte affermata in sede di legittimità (Cass. 14 luglio 2006, n. 16125; Cass. 18 maggio 2006, n. 11749; Cass. 7 giugno 2000, n. 7717; Cass. 7 aprile 1999, n. 3333; Cass. 21 dicembre 1998, n. 12765; Cass. 10 giugno 1994, n. 5646; Cass. 27 giugno 1991 n. 7215; 18 giugno 1990 n. 6116; 12 giugno 1987 n. 5148), in quanto occorre la non equivoca manifestazione di volontà del creditore volta alla rinuncia della prestazione, ovvero l’univoco comportamento del titolare assolutamente incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto (cfr. Cass. 20 giugno 2017, n. 15313; Cass. 29 maggio 2015, n. 11179; Cass. 2 luglio 2010, n. 15737; Cass. 10 ottobre 2003, n. 15180).
E’ comunque necessario, altresì, che i caratteri della univocità e concludenza – da riscontrare nel comportamento del soggetto, affinché da esso possa desumersi l’intento remissorio del creditore definitivo ed irrevocabile – siano valutati con estremo rigore e cautela: sicché, nel caso di dubbio sulla loro effettiva sussistenza, dev’essere esclusa la volontà di rimettere di debito (Cass. 4 ottobre 2000, n. 13169 e 21 dicembre 1998, n. 12765; Cass. 10 giugno 1994, n. 5646; Cass. 6 gennaio 1982, n. 4).
c) La remissione, in terzo luogo, sarà diretta a destinatario determinato, come prevede la stessa disposizione dell’articolo 1236 c.c..
E’ stato infatti da tempo chiarito (Cass. 22 febbraio 1995, n. 2021) che, nell’ambito dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, mentre l’accordo remissorio, diretto ad estinguere il debito verso il pagamento, da parte del debitore, di una quota di esso, costituendo un tipico negozio a struttura bilaterale (o plurilaterale), si perfeziona con il consenso manifestato da entrambe le parti, la remissione del debito, ai sensi dell’articolo 1236 c.c., è strutturata quale negozio unilaterale recettizio relativamente al quale la dichiarazione a parte creditoris si presume accettata dal debitore, e diventa pertanto operativa dei suoi tipici effetti estintivi dal momento in cui la comunicazione perviene a conoscenza della persona alla quale è destinata (articolo 1334 c.c.), a meno che questa, avuto conoscenza della manifesta volontà remissiva, non dichiari entro un congruo termine di ricusarla e, quindi, di non volerne profittare.
In definitiva, sia la volontà del creditore di non avvalersi del credito, sia la manifestazione inequivoca di tale volontà, sia la destinazione della dichiarazione allo specifico creditore costituiscono requisiti della fattispecie.
Verifica dei presupposti con riguardo alla cancellazione dal registro delle imprese.
La presenza di tali requisiti va verificata con riguardo alla domanda di iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese, in particolare con riferimento al credito da ripetizione di somme indebite pagate dalla società alla sua controparte contrattuale.
Deve essere anzitutto precisato che la domanda di restituzione dell’indebito ex articolo 2033 c.c., è un vero e proprio diritto di credito, che sorge nel patrimonio del relativo titolare per effetto dell’integrazione degli elementi della fattispecie (il pagamento senza causa).
Va, altresì, ricordato come i requisiti della univocità e della concludenza – che devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese, al fine di individuarvi anche la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati – devono essere valutati con particolare rigore e cautela, come esposto: pertanto, ove difettino indici univoci sulla volontà remissoria deve essere esclusa la volontà di remissione del debito.
Sarebbe, dunque, errato presumere sempre, in presenza di una cancellazione richiesta dal liquidatore della società ed operata in corso di causa, una rinuncia della stessa al diritto azionato.
Né questo era, si noti, il portato della più volte citate decisioni delle Sezioni unite (Cass. nn. 6070-6072 del 2013), le quali avevano piuttosto evidenziato una delle varie evenienze solo “possibili”.
Perché, dunque, si possano ravvisare i ricordati presupposti, in presenza di una domanda della cancellazione della società dal registro delle imprese, non è sufficiente – pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze – che la cancellazione sia domandata ed eseguita: ciò, pur quando la società, nella persona dell’organo e legale rappresentante (di regola il liquidatore) abbia conosciuto l’esistenza del credito, onde neppure ne potesse avere la certezza.
Infatti, la cancellazione potrebbe essere stata, ad esempio, decisa dalla società, perché ritenuto in quel momento più conveniente (risparmio di ulteriori costi, difficoltà organizzative, ecc., anche in presenza di eventi radicali, come es. la scadenza del termine di durata, il raggiungimento dell’oggetto sociale o l’impossibilità di conseguirlo, i dissidi insanabili fra i soci o la continuata inattività dell’assemblea ex articoli 2272 e 2484 c.c.), nell’inesistenza di una disposizione che vieti la cancellazione in presenza di crediti in contesa: senza che ciò possa significare, di per sé solo, anche rinuncia al credito.
All’opposto, la mancata dichiarazione del difensore, ai fini della interruzione del processo e la prosecuzione del medesimo, pur dopo l’avvenuta cancellazione della società (come l’eventuale prosecuzione del processo da parte dei soci, successori a titolo universale, senza previa interruzione del giudizio: evenienza del tutto lecita), costituisce un elemento in senso contrario rispetto ad un’ipotizzata volontà abdicativa: essendo ragionevolmente presumibile, piuttosto, in generale che il difensore, mandatario della società, avesse in tal senso concordato con la stessa la linea difensiva da tenere, anche nell’interesse dei soci, il cui sostrato personale riemerge proprio nel momento della cancellazione del soggetto collettivo.
Costituisce giudizio di diritto escludere che la mera cancellazione dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua invincibile equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne una volontà abdicativa.
In definitiva, l’estinzione della società nel corso del primo grado del giudizio non può essere automaticamente ritenuta causa di estinzione per rinuncia della pretesa in esso azionata.
Corte di Cassazione, Sezione Prima, Sentenza n. 9464 del 22 maggio 2020
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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