n. R.G. 197/2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI ANCONA
SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del giudice NOME COGNOME ha emesso la seguente
SENTENZA N._1920_2024_- N._R.G._00000197_2023 DEL_11_11_2024 PUBBLICATA_IL_11_11_2024
nella causa civile iscritta al primo grado di merito al n. R.G. 197/2023 promossa dalla (C.F.: )
in persona dell’amministratore unico pro tempore e legale rappresentante, rappresentata e difesa, congiuntamente e disgiuntamente, dagli avv.ti NOME COGNOME ed NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso il loro studio, in virtù di procura ad litem rilasciata su foglio separato ex art. 83, terzo comma, terzo periodo, c.p.c., allegata alla comparsa in riassunzione ex art. 50 c.p.c. e 125 disp. di att. c.p.c. iscritta a ruolo il 12.01.2023 ATTORE IN RIASSUNZIONE contro (C.F.: ), rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati presso il loro studio, giusta procura ex art. 83, terzo comma, terzo periodo, c.p.c., allegata alla comparsa di costituzione e risposta depositata in data 21.04.2023 CONVENUTO e nei confronti di (C.F.: ), in qualità di amministratore unico, legale rappresentante e socio della (C.F.: ) , società cancellata dal registro delle imprese a far data dall’01.03.2021;
(C.F.: (C.F.: ) in qualità di socio della tutti rappresentati e difesi, congiuntamente e disgiuntamente, dagli avv.ti NOME COGNOME ed NOME COGNOME C.F. C.F. C.F. C.F. , in virtù di procura ad litem rilasciata su foglio separato ex art. 83, terzo comma, terzo periodo, c.p.c., allegata alla comparsa di costituzione e risposta depositata in data 11.05.2023 TERZI CHIAMATI IN CAUSA Oggetto: cessione di credito.
Conclusioni precisate all’udienza del 13.06.2024:
– PER PARTE ATTRICE, che si è riportata alle conclusioni di cui alla comparsa in riassunzione, si trascrivono le seguenti conclusioni:
“NEL MERITO:
– Riconoscere e dichiarare legittima, valida ed efficace la cessione di credito effettuata dalla in favore della per l’importo di € 644.439,15 s.e.o.
oltre IVA ex lege;
– Riconoscere e dichiarare che la cessione di credito effettuata venne ritualmente e legittimamente notificata alla debitrice in data 04.02.2021 come da copia allegata in atti (ind. doc. 9) ex art. 1260 c.c.;
– Riconoscere e dichiarare che il Sig. in relazione al contratto di appalto nonché alla sottoscrizione da parte sua dell’ATTO UNICO DI RELAZIONE, VERBALE DI VISITA, CERTIFICATO DI COLLAUDO E IMMISSIONE IN POSSESSO RELATIVO ALLE OPERE DI URBANIZZAZIONE PRIMARIE COMPARTO UNITARIO DI RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA ED URBANISTICA PIANO CCLESIA è l’unico contraente della cedente e conseguentemente della cessionaria del credito – Riconoscere e dichiarare che il Sig. nella qualità non ha adempiuto al pagamento del credito ceduto, pro-soluto, alla cessionaria – Che il debitore ceduto, unico committente, Sig. con la sottoscrizione dell’atto unico ha riconosciuto la sua obbligazione nei confronti della società appaltatrice e per essa nei confronti della cessionaria – non ha contestato minimamente le opere consegnate; – Il ha accettato e collaudato tutte le opere così come risulta dall’atto citato;
– Che, pertanto, è certo, liquido ed esigibile il credito indicato in ricorso di € 644.439,15 s.e.o.
oltre IVA come per Legge nonché gli interessi moratori maturati e maturandi ex lege a partire dalla data del 15.04.2021 fino alla data dell’effettivo soddisfo;
– emettere ordinanza di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva per € 644.439,15 s.e.o.
oltre IVA ex art. 642 c.p.c. co. 2 per pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, in considerazione della rilevanza del credito che ha inciso ed incide nella gestione societaria della creditrice ed in considerazione, soprattutto, che la ricorrente ha esibito sottoscritta dal debitore comprovante il diritto fatto valere ed evidenziandosi, parimenti, la vessatorietà della clausola di pagamento imposta nell’originario contratto di per sé stessa nulla;
– Condannare il resistente al rimborso delle spese e al pagamento delle competenze ed onorario del presente giudizio oltre oneri come per legge e spese generali;
– Emettere ogni altro provvedimento di giustizia che sarà ritenuto necessario”;
– PER PARTE CONVENUTA che si è riportata alla comparsa di risposta nella fase di riassunzione e, in via istruttoria, come da terza memoria istruttoria, si trascrivono le seguenti conclusioni:
“Piaccia al Tribunale Ill.mo di Ancona, contrariis reiectis e previa ogni e più occorrente declaratoria:
In Via preliminare dichiarare, per i motivi di cui in narrativa, il difetto di legittimazione attiva della e della legittimazione passiva del dr. e In INDIRIZZO principale e subordinatamente al rigetto delle superiori eccezioni respingere le domande tutte proposte dalla con l’atto introduttivo del presente giudizio perché inammissibili ed infondate in fatto e diritto ed In Via riconvenzionale in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dal Dr.
condannare, per i motivi di cui in narrativa, la e oggi, in seguito alla sua cancellazione dal Registro Imprese, i suoi ex soci, responsabili per l’adempimento delle obbligazioni sociali limitatamente all’ammontare dei loro conferimenti e a quanto ottenuto al termine della fase di liquidazione, nelle persone di al risarcimento dei danni di cui ai superiori punti B.5) B.6) e B.7) per complessivi € 1.624.805 (1.324.000 + 35.805 + 250.000 + 15.000) o diverso importo di giustizia e, conseguentemente, dichiarare la compensazione giudiziale, sino a parità di importi, tra credito, contestato e da accertarsi, della e quindi, oggi, degli ex soci e il credito per risarcimento danni del comparente dr. e condannare, infine, la stessa e, oggi, gli ex soci responsabili per l’adempimento delle obbligazioni sociali, limitatamente all’ammontare dei loro conferimenti e a quanto ottenuto al termine della fase di liquidazione, al pagamento in favore dello stesso dr. della eventuale eccedenza con rivalutazione monetaria ed interessi di legge ed in via gradata dichiarare legittimo ex art. 1460 c.c. il mancato rispetto di qualunque obbligo contrattuale da parte del comparente Dr. . In Via riconvenzionale subordinata nella denegata e non creduta ipotesi in cui si ritenga valida la cessione del credito tra la e la cosa fermamente contestata per le ragioni evidenziate in narrativa sub A.1) e sub B.3), si ripropongono le superiori domande riconvenzionali tutte di condanna anche in danno della cessionaria del credito oltre all’eccezione di compensazione, ex art. 1248 comma II c.c., e a quella di inadempimento ex art. 1460 c.c.”;
– PER I TERZI CHIAMATI IN CAUSA che si sono riportati alla comparsa di risposta [… “IN VIA PREGIUDIZIALE DI RITO:
1) Accertare e dichiarare la nullità dell’atto di chiamata in causa di terzo come notificato ai Signori dal dr. , in quanto privo del necessario ed espresso provvedimento autorizzativo da parte Autorità Giudicante ex art. 269 c.p.c. con la condanna del chiamante in causa alle spese di lite;
IN INDIRIZZO DI RITO:
1) Accertare e dichiarare, per le motivazioni di cui alla narrativa della presente comparsa di costituzione e risposta, la carenza di legittimazione passiva dell’ex Amministratore e degli ex soci della cancellata ed estinta società Signori quali terzi chiamati in causa, per non aver ricevuto alcun utile sociale in sede di riparto finale di liquidazione della cancellata ed estinta società con la condanna del chiamante in causa alle spese di lite;
2) In via gradata, accertare e dichiarare, per le motivazioni di cui alla narrativa della presente comparsa di costituzione e risposta, qualora fosse ammissibile configurare la legittimazione passiva dei chiamati in causa, Signori quali ex Amministratore e ex soci della cancellata società difetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. del dr. nei loro confronti sempre con la condanna del chiamante in causa alle spese di lite;
IN INDIRIZZO
1) Accertare e dichiarare la piena validità ed efficacia della cessione di credito intercorsa in data 20.01.2021 tra la società e la società sia inter partes che nei confronti del debitore ceduto, Dr.
2) Per l’effetto, attesa la regolare esigibilità del credito ceduto, accertare e dichiarare la legittimazione attiva e passiva della e del dr. 3) Per l’ulteriore effetto, chiede rigettarsi la chiamata in causa della società cedente e per essa dei signori IN INDIRIZZO MERITO:
– Accertare e dichiarare che la società ha regolarmente adempiuto alle obbligazioni contenute nella scrittura privata di appalto del 03.08.2010;
– Accertare e dichiarare che nessun tipo di ritardo o di inadempimento può essere addebitato alla società in ordine alla esecuzione delle opere e dei lavori di cui alla scrittura privata di appalto del 01.08.2010, che si impugna e contesta in quanto sfornito di alcun tipo di prova fattuale e documentale;
– Accertare e dichiarare l’ingiustificato inadempimento del committente dr. in ordine alla obbligazione ricadente suo carico in virtù della scrittura privata di appalto ovvero il mancato pagamento alla società del prezzo delle opere appaltate così come convenuto all’art. 3 del contratto o comunque nella diversa modalità pattuita della datio in solutum, di cui alla lettera B del contratto;
– Per l’effetto, accertare e dichiarare che il credito vantato dalla società nei confronti del committente dr. a partire dalla data del 25.11.2020 ammontava ad € 644.439,15 s.e.o., come documentato per tabulas;
– Accertare e dichiarare che il suddetto credito nella titolarità attiva della società è stato dunque dalla stessa legittimamente ceduto alla società in data 20.01.2021;
– Accertare e dichiarare che l’unica legittimata a ricevere il pagamento del credito da parte del committente, dr. , quale debitore ceduto, è la società ricorrente nella misura di € 644.439,15 s.e.o.
o in quella diversa, maggiore o minore, che dovesse essere accertata in corso di causa;
– Con vittoria delle spese di lite e dei compensi professionali, oltre accessori di legge da attribuirsi in favore dei sottoscritti procuratori antistatari”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con comparsa in riassunzione ex art. 50 c.p.c. e 125 disp. di att. al c.p.c., tempestivamente notificata, la cessionaria del credito della (società appaltatrice) in forza di scrittura privata del 20.01.2021, ha riassunto, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 38, comma 2, c.p.c., il giudizio a suo tempo dalla medesima incardinato (anche nei confronti dei terzi chiamati in causa signori rispettivamente quali amministratore e socio il primo e soci gli ultimi due della con ricorso ex articoli 702-bis e ss. c.p.c. (poi convertito da giudizio sommario in giudizio ordinario di cognizione) dinanzi al tribunale di Teramo iscritto al n. R.G. 2293/2021 contro (d’ora in poi anche “committente” o “committenza” o “appaltante”). La riassunzione si è resa necessaria in ragione dell’intervenuta declaratoria di incompetenza territoriale del tribunale di Teramo pronunciata con ordinanza del 19.10.2022 in favore di questo tribunale, cui è seguita la cancellazione della causa dal ruolo e la dichiarazione di estinzione del giudizio.
L’eccezione di incompetenza era stata sollevata in sede di costituzione dalla difesa del resistente e la ricorrente, unitamente ai chiamati in causa, vi ha prestato adesione in ragione della previsione, nel contratto di appalto oggetto di giudizio, scrittura privata del 03.08.2010, di espressa clausola derogativa della competenza (vedasi pag. 7 scrittura, lett. “C”
“Disposizioni finali” punto n. 3, doc. 3 ricorso).
ha convenuto dinanzi a questo tribunale D’Ecclesia per chiedere di accertare l’inadempimento di quest’ultimo, quale committente, rispetto alle obbligazioni scaturenti.
V.A., come per legge, oltre interessi moratori maturati e maturandi ex lege a partire dalla data del 15.04.2021 fino all’effettivo soddisfo.
In data 21.04.2023 si è costituto in giudizio – anche dinanzi a questo tribunale, come già dinanzi al tribunale di Teramo – D’Ecclesia mediante comparsa di risposta tempestivamente depositata ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 167 c.p.c. contenente contestuale domanda riconvenzionale.
Il convenuto ha contestato la cessione del credito asseritamente intervenuta tra la originaria contraente e la ha chiesto il rigetto della domanda attorea e, in via riconvenzionale, ha domandato condannarsi la e oggi, in luogo della stessa, in seguito alla sua cancellazione dal registro delle imprese, i suoi ex soci, nelle persone di limitatamente all’ammontare dei loro conferimenti e a quanto ottenuto al termine della fase di liquidazione, al pagamento della complessiva somma di € 1.624.805 di cui € 1.324.000 a titolo di penale dovuta per asserito ritardo nell’esecuzione delle opere di urbanizzazione commissionatele, € 35.805 quale spesa sostenuta per i premi assicurativi versati, in ottemperanza a quanto previsto dalla convenzione di lottizzazione, € 150.000 a compensazione del pregiudizio derivante dall’impossibilità di rivalersi, in caso di rovina delle opere ex art. 2053 c.c., sull’appaltante in quanto la società è stata cancellata, € 100.000 per l’impossibilità di far valere eventuali vizi e/o difetti presenti nelle opere appaltate ex art. 1667 c.c. ed € 15.000 a titolo di esborsi da sostenersi per ottenere le certificazioni di conformità mancanti. L’11.05.2023, dunque tardivamente rispetto alla possibilità di proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio ex art. 167 c.p.c., si sono costituiti in giudizio anche i soci della per chiedere di dichiarare la nullità dell’atto di chiamata in causa, per contestare la loro legittimazione passiva in quanto non destinatari di utili sociali in sede di riparto di liquidazione della cancellata ed estinta società e per sostenere la bontà delle ragioni tutte di parte ricorrente/attrice cui hanno prestato adesione. All’udienza di comparizione (differita dal 15.05.2023, data indicata in citazione, al 19.05.2023) tenutasi dinanzi a precedente giudice istruttore, è stato concesso il triplo termine ex art. 183 c.p.c. per il deposito delle memorie istruttorie e fissata udienza di discussione per l’ammissione degli stessi al 27.10.2023.
A tale udienza il giudice ha ammesso tutte le prove per testi da assumersi nella forma della prova delegata dinanzi al tribunale di Teramo nel termine di 90 giorni, ha negato la concessione dell’ordinanza ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva avanzata da parte attrice ritendo non vi fossero i presupposti per provvedervi e ha fissato, per la precisazione delle la vertenza mediante consegna alla cessionaria di un lotto, da individuarsi più piccolo e diverso rispetto ai lotti convenuti nella scrittura del 03.08.2010 dalle originarie parti della stessa. Tale lotto, in sede di replica ex art. 190 c.p.c., in occasione della quale la proposta è stata ribadita, è stato identificato nel lotto n. 9.
La proposta è stata rifiutata da uno dei soci dell’ormai estinta presente all’udienza, il quale ha comunicato di non essere interessato ad altro lotto ma solo a quelli a suo tempo individuati e convenuti con il contratto del 03.08.2010 e ha aggiunto che un’eventuale definizione avrebbe dovuto comportare anche il pagamento di € 48.000 a titolo di importo residuo per i lavori extra e da effettuarsi contestualmente al momento della transazione, più un contributo alle spese legali di € 15.000, oltre accessori di legge. Nelle more il procedimento è stato assegnato allo scrivente giudice che con ordinanza resa fuori udienza in data 04.01.2024 ha revocato l’ordinanza istruttoria emessa dal precedente giudice, atteso che i capitoli di prova testimoniale articolati da parte attrice e dai terzi chiamati in causa erano inammissibili, in parte perché formulati genericamente e in parte perché aventi ad oggetto circostanze da provarsi documentalmente mediante il deposito dell’integrale documentazione di cantiere, a fronte delle specifiche contestazioni di parte convenuta e dei documenti da questa depositati con la terza memoria istruttoria. Con la stessa ordinanza è stata formulata alle parti proposta conciliativa ex art. 185-bis c.p.c. del seguente tenore:
“parte convenuta paga a parte attrice la somma di € 300.000, oltre € 10.00 (n.d.r. da intendersi chiaramente € 10.000), oltre accessori a titolo di spese processuali;
spese di lite compensate con i terzi chiamati in causa”.
Alle parti è stato assegnato termine fino al 30.04.2024 per depositare dichiarazione di adesione ovvero mancata adesione alla proposta conciliativa, con rinvio, per precisare le conclusioni, all’udienza del 13.06.2024.
Parte attrice – con il deposito delle note scritte del 30.04.2024 – ha dichiarato, senza con ciò nulla voler ammettere, riconoscere e/o concedere, di accettare la proposta a condizione che la stessa fosse integrata nel modo che segue:
“parte convenuta paghi a parte attrice la somma di € 300.000,00 (trecentomila/00) oltre € 10.000,00 (diecimila/00) oltre accessori e spese di lite compensate con i terzi chiamati in causa” con pagamento degli importi entro il termine di 30 giorni dalla data di sottoscrizione del verbale di conciliazione.
I terzi chiamati hanno dichiarato, per quanto di loro inerenza, di aderire alla proposta e di accettare quindi la compensazione delle spese processuali.
convenuta, invece, richiamandosi alle proprie argomentazioni difensive, ha dichiarato di non aderirvi e ha ribadito di essere disposta a definire la controversia in conformità alla soluzione transattiva già avanzata in sede di udienza del 27.10.2023.
All’udienza del 13.06.2024 le parti hanno precisato le conclusioni come in epigrafe riportate.
La difesa attorea ha eccepito l’eccessiva onerosità della clausola penale invocata, in via riconvenzionale, dalla convenuta e quest’ultima, a sua volta, ha eccepito la tardività della relativa contestazione in quanto mai sollevata prima d’ora.
Il giudice, rilevato che nel fascicolo telematico del giudizio non era presente il ricorso depositato dinanzi al tribunale di Teramo con i relativi allegati, ha invitato l’attore a rendersi parte diligente ai fini del deposito della documentazione mancante nel presente procedimento riassunto, con diritto, in capo alla convenuta, di verificare la corrispondenza tra quanto prodotto dinanzi al tribunale di Teramo e quanto depositato nel fascicolo telematico del presente giudizio.
A tal fine ha assegnato a parte attrice termine di 10 giorni per il deposito e a parte convenuta termine di ulteriori 10 giorni per l’esercizio del diritto di verifica.
Il procuratore attoreo ha ottemperato al deposito con nota del 17.06.2024.
Nulla ha osservato la difesa convenuta nel termine assegnatole.
Stante la mancata conciliazione, la causa è stata trattenuta in decisione con assegnazione dei termini massimi di cui all’art. 190 c.p.c. decorrenti dalla scadenza dei termini di cui sopra.
Entrambe le parti hanno provveduto al deposito delle comparse conclusionali e delle repliche.
2.
Come già accennato, la ha allegato che tra la stessa – in qualità di cessionaria – e la – in qualità di cedente – in data 20.01.2021 (cfr. doc. 8 ricorso)
è intercorso un contratto di cessione di credito pro soluto avente ad oggetto il credito di cui alla scrittura privata conclusa il 03.08.2010 (cfr. citato doc. 3 ricorso).
La scrittura del 2010 è intervenuta tra la da un lato e per sé e in nome e per conto della sorella nonché i signori dall’altro.
Con la stessa le parti hanno stipulato un contratto di appalto con il quale i committenti hanno affidato alla quale società che svolge attività edilizia di costruzione di immobili nonché lavori di movimento terra, sbancamenti e lavori stradali, le opere di urbanizzazione da compiersi su di un terreno oggetto di una convenzione di lottizzazione stipulata dai proprietari dei terreni stessi con il Comune di .
L’attrice ha esposto, in sintesi e per quanto di interesse in funzione della decisione, che:
– i signori , in base alla scrittura di regresso nei confronti di tutti gli altri soggetti della “Proprietà Lottizzante”.
Alla lettera f) della scrittura privata di appalto è stato dichiarato che “a regolazione del prezzo dei lavori di urbanizzazione di cui sopra, intendono cedere (n.d.r.:
il riferimento è ai signori ) sempre pro quota in ragione del 50% ciascuno e salvo quanto infra, alla i seguenti immobili tra quelli già descritti nei precedenti punti b) e c):
–
lotto di terreno edificabile censito al foglio 3, particella 1636 di mq. 1100;
– terreno agricolo censito al foglio 3, particella 979, 980, 26, di mq. 12.160”;
– la società appaltatrice ha chiesto e ottenuto dalla direzione lavori una cronistoria degli stessi alla data del 21.11.2018
(cfr. doc. 5 ricorso);
– la ha eseguito tutti i lavori appaltati e ha realizzato lavori extra contratto su ordine della direzione lavori, in quanto indispensabili e necessari per il completamento delle opere appaltate;
– il Comune di in data 25.11.2020 (cfr. doc. 6 ricorso:
certificato di collaudo e immissione in possesso relativo alle opere di urbanizzazione realizzate dalla accettato e collaudato tutti i lavori di urbanizzazione;
– i lavori sono stati accettati anche dalla proprietà lottizzante in persona di unico firmatario della scrittura del 03.08.2010 sia in proprio che per conto degli altri comproprietari lottizzanti, nonché unico firmatario del testé citato atto di collaudo del piano di lottizzazione denominato del 25.11.2020 (sottoscritto anche dal responsabile del servizio RAGIONE_SOCIALE , dal responsabile del procedimento RAGIONE_SOCIALE e dal direttore dei lavori nominato dalla committenza Ing. – in base alla scrittura privata del 03.08.2010 il prezzo è stato convenuto in € 565.000 oltre € 28.000 per I.V.A. e quindi in complessivi € 593.000, così come previsto al punto 2 del contratto, diventati € 596.302,15 oltre I.V.A. (vedasi computo metrico consuntivo) a cui devono aggiungersi i lavori extra contratto per € 48.137 e quindi per un totale di € 644.439,15 s.e.o., oltre I.V.A.; – infatti, all’importo vanno aggiunti € 48.137 come da computi metrici redatti dalla direzione lavori del 03.05.2016 per € 7.500, del 22.12.2016 per € 6.137, del 22.12.2016 per € 9.500 e del 07.07.2017 per € 25.000 e quindi per complessivi € 48.137 (cfr. doc. 7 ricorso) per lavori extra contratto;
– l’ammontare dei lavori extra così come ordinati dalla direzione lavori è stato pari a € 75.137:
la somma di € 27.000 è stata già corrisposta da pertanto, il credito residuo per lavori extra ammonta a € 48.137,00, oltre IVA;
– il credito maturato dalla nei confronti della committenza è stato ceduto dalla alla con il già richiamato atto di cessione del 20.01.2021;
– la cessione del credito in favore della (cessionaria) è stata formalmente comunicata dalla (cedente) ai signori (debitori ceduti) con raccomandata 1 del 04.02.2021 inviata, per conoscenza, anche alla cessionaria (cfr. doc. 9 ricorso);
– più volte la committenza, nella persona di interlocutore unico in forza del contenuto della scrittura del 03.08.2010, è stata sollecitata al pagamento di quanto sopra;
– tuttavia, il debitore ceduto ha comunicato al legale della cessionaria che non avrebbe pagato nulla in quanto il proprio consulente, riteneva illegittima la cessione di credito e riteneva che, in caso di pagamento, la committenza avrebbe potuto rischiare di essere coinvolta penalmente qualora la fosse stata dichiarata fallita;
– a fronte del netto rifiuto al pagamento mostrato da la cessionaria ha avviato la procedura di mediazione dinanzi all’organismo di mediazione presso la camera di commercio Gran Sasso d’Italia (n. 24/2021) – convocazione parti fissata per il 15.04.2021 – che si è conclusa con verbale di mediazione negativo in quanto la committenza, per il tramite del proprio legale dell’epoca, avv. NOME COGNOME ha comunicato “di non partecipare all’incontro informativo per non avere e non aver mai avuto alcun tipo di rapporto con la società istante, (cfr. docc. 11 e 12 ricorso);
– sussiste l’inadempimento della committenza nella persona del dott. in quanto dalla data del collaudo da parte del comune (25.11.2020) al 15.04.2021 (data della convocazione per la mediazione) è decorso il termine di 20 giorni per l’esigibilità del prezzo, come previsto al punto 3) della scrittura del 03.08.2010;
– la legittimazione passiva spetta unicamente a in quanto con la firma della scrittura del 03.08.2010 si è fatto carico, in proprio, del pagamento per conto di tutti i lottizzanti;
– stante il perdurare dell’inadempimento e l’esito negativo della mediazione, la cessionaria ha agito giudizialmente nei confronti del debitore ceduto e, a tal fine, ha adito il tribunale di Teramo;
– la committenza, costituitasi nel giudizio dinanzi al tribunale di Teramo con comparsa di costituzione e risposta del 27.01.2022, ha avanzato domanda riconvenzionale, ha eccepito l’incompetenza territoriale del tribunale di Teramo in virtù di specifica clausola contrattuale della competenza (vedasi citato doc. 3, pag. 7 scrittura, lett. “C” “Disposizioni finali” punto n. 3) e ha chiesto e ottenuto di essere autorizzata alla chiamata in causa della – tuttavia, la convenuta, anziché chiamare in causa la società già cancellata dal registro delle imprese e quindi estintasi prima ancora che venisse avanzata la richiesta di chiamata in causa, ha rivolto la chiamata in causa direttamente, senza previa formale autorizzazione giudiziale, nei confronti dei singoli soci della stessa:
signori (in qualità di amministratore unico, legale rappresentante e socio della cancellata società) in qualità di soci):
Sulla scorta delle superiori premesse fattuali e giuridiche, parte attrice ha chiesto, in sintesi, dichiararsi la validità e l’efficacia della cessione del credito del 20.01.2021;
dichiararsi l’intervenuta rituale e formale notifica della stessa al debitore ceduto ex art. 1260 c.c.;
dichiararsi la legittimazione passiva del solo dichiararsi che il comune ha accettato e collaudato le opere di urbanizzazione oggetto della scrittura privata di appalto del 03.08.2010;
dichiararsi che quest’ultimo, con la firma del verbale di collaudo del 25.11.2020, ha riconosciuto il debito gravante sul medesimo;
condannarsi il debitore ceduto al pagamento della somma di € 644.439,15 s.e.o. oltre I.V.A., come per legge nonché gli interessi moratori maturati e maturandi ex lege a partire dalla data del 15.04.2021 fino all’effettivo soddisfo.
3.
Il committente, nel costituirsi, ha evidenziato, riportandoli in sintesi, quali fossero a suo dire gli elementi principali del contratto di appalto:
“1) realizzazione chiavi in mano di tutto quanto necessario per dotare l’area delle reti di energia elettrica, gas, acqua, telefonia, fognatura, strade, parcheggi, verde attrezzato, ecc. a cui allacciare tutti gli erigendi fabbricati;
2) subentro integrale della ditta negli obblighi della Convenzione con riferimento ai suddetti lavori di urbanizzazione primaria;
3) prezzo chiavi in mano di € 565.000 oltre IVA di € 28.250;
4) eventuali varianti in corso d’opera concordate per iscritto;
5) divieto di subappalto;
6) datio in solutum a saldo del prezzo (€ 565.000) di un terreno edificabile di mq 1100 (Foglio 3 Particella 1036) e di un terreno agricolo di mq catastali 12.160 (Foglio 3 Particelle 26, 979 e 980);
7) esigibilità del credito a collaudo comunale positivo dell’Opera;
8) durata dell’Appalto 30 mesi, non indicata espressamente all’art. 4 ma deducibile dal punto D) del Contratto “RAGIONE_SOCIALE”;
9) penale di € 1.000 (mille) per ogni giorno di ritardo”.
Ha eccepito:
che il corrispettivo dell’appalto (non dovuto) avrebbe dovuto essere regolato esclusivamente mediante datio in solutum di immobili in favore della il difetto di legittimazione attiva della in uno con il difetto di legittimazione passiva del convenuto.
Ciò in quanto la prima è cessionaria del solo credito e non anche del contratto (mentre il pagamento del prezzo doveva avvenire mediante cessione di beni immobili quale modalità espressamente pattuita con il contratto) che sarebbe stata indispensabile affinché la potesse ritenersi legittimata ad causam e la seconda (la committente) non ha mai prestato alcun consenso né alla cessione dell’appalto né alla cessione della specifica pattuizione contrattuale di datio in solutum di cui al punto “B” del contratto stesso; che i lavori appaltati avrebbero dovuto essere completati in 30 mesi, mentre sono durati più di 10 anni, visto che il collaudo del comune è stato eseguito in data 25.11.2020;
che i pregressi tentativi della di far confluire il credito dalla stessa vantato nella dapprima con richiesta alla committenza di cedere il contratto d’appalto in essere con la alla successivamente con richiesta di risolvere consensualmente il contratto di appalto del 03.08.2010 e sottoscrivere un nuovo contratto direttamente con la sono state tutte rifiutate in quanto la committenza non intendeva in alcun modo prestarsi ad operazioni che avrebbero potuto risolversi in danno dei creditori del suo appaltatore; che, infatti, l’ultimo bilancio approvato e depositato dalla era quello relativo all’esercizio 2016 (cfr. doc. 7 comparsa) che evidenziava debiti per oltre € 2.500.000;
che, successivamente, la società, è stata messa in liquidazione e qualche mese prima dell’introduzione del presente giudizio è stata cancellata dal registro delle imprese con provvedimento dell’01.03.2021;
che l’atto di cessione del 20.01.2021 non è opponibile a in quanto sarebbe privo di data certa e quindi di valenza probatoria e che sembra configurarsi più come una donazione in quanto non è indicata la controprestazione che sarebbe stata resa a fronte dell’intervenuta cessione;
che, in ogni caso, la comunicazione datata 04.02.2021 deve ritenersi inutiliter data a causa dell’assoluta inesigibilità del presente credito in assenza della cessione parziale o totale del che nulla è dovuto in ordine al presunto credito per lavori extra contratto e ciò per un duplice ordine di ragioni:
in primo luogo, perché il prezzo dell’appalto era stato concordato in € 565.000 oltre I.V.A. di legge, chiavi in mano, il contratto prevedeva il subentro integrale dell’appaltatore negli obblighi della convenzione con riferimento ai lavori di urbanizzazione (punto “A” della scrittura del 03.08.2010) e gli asseriti lavori extra contratto non possono essere considerati tali in quanto rientrano tra le opere che l’art. 4 della L. 29.09.1964, n. 847 indica espressamente tra i lavori di urbanizzazione primaria con prezzo “chiavi in mano” (strade, parcheggi, condotti per la raccolta e scarico acque, rete idrica, energia elettrica, telefonia, spazi di verde attrezzato, etc…); in secondo luogo, perché qualora tali lavorazioni ulteriori fossero considerate alla stregua di varianti, in base all’art. 2 della scrittura, “unitamente ai necessari e relativi elaborati progettuali e titoli concessori, dovranno essere comunicati tempestivamente e per iscritto dai Committenti alla società appaltatrice.
Il relativo prezzo dovrà essere determinato dalle parti di comune accordo e per iscritto ad integrazione del presente contratto, applicando la franchigia del 10%.
Tuttavia, “nessun accordo formale del genere è mai intervenuto dopo la firma del contratto 03/08/2010” e comunque nessun accordo di tal fatta è stato prodotto dalla ricorrente/attrice, per cui nulla è dovuto a tale titolo;
che, sebbene l’apposito articolo 4 intitolato “Termine di ultimazione/Penale per il ritardo” abbia lasciato in bianco i campi relativi alla data di inizio e di fine lavori, il termine di conclusione dei lavori si ricaverebbe dal punto “D” del contratto di appalto del 03.08.2010 rubricato “Garanzie”.
Poiché contestualmente alla firma del contratto la avrebbe dovuto consegnare alla committenza “garanzia bancaria a prima richiesta dell’importo di € 30.000,00 (trentamila/00) della durata di mesi 30 (trenta) dall’inizio dei Lavori che i Committenti saranno autorizzati ad escutere, anche a titolo di penale” – per il verificarsi di tutta una serie di evenienze meglio specificate nel prosieguo della clausola – 30 mesi rappresenterebbe anche il termine di conclusione dei lavori, mentre il collaudo è stato eseguito il 25.11.2020 e quindi oltre 10 anni dopo la firma del contratto; che il contratto ha previsto una penale di € 1.000 giornalieri in caso di ritardo;
che la maggior durata dei lavori non può trovare giustificazione né nella condotta tenuta da uno dei lottizzanti, tale signor che, a causa della sua opposizione alla consegna dei propri terreni all’appaltatore, avrebbe impedito lo svolgimento dei lavori per il periodo che va dal 20.04.2012 all’11.07.2016, in quanto questi è proprietario dall’intera lottizzazione e che, per altro, sono ubicati all’estremo limite della lottizzazione stessa;
in ogni caso, anche volendo considerare (sebbene tale circostanza sia esclusa dalla difesa del il ritardo asseritamente provocato dal co-lottizzante tale ostacolo sarebbe stato rimosso sin dall’11.07.2016, residuerebbe dunque, pertanto, il ritardo accumulato per il periodo dall’11.07.2016 al 25.11.2020 (giorno del collaudo) che corrisponde a 1.598 giorni che si riducono a 698 considerando i 900 giorni ovvero i 30 mesi previsti in contratto per la fisiologica esecuzione dei lavori.
Ne discenderebbe il diritto in capo al convenuto ad una penale quanto meno pari a € 698.000 (€ 1.000 x 698 giorni).
A tale periodo dovrebbe poi aggiungersi quello ante sospensione lavori che va dal 03.08.2010 al 20.04.2012 che corrisponde a giorni 626 che, sommati ai 698 di cui sopra, portano il numero dei giorni di ritardo a 1.324, per un ammontare complessivo della penale pari a € 1.324.000;
che la committenza avrebbe diritto alla refusione della somma di € 35.805 per i premi assicurativi versati “tra ritardi e sospensioni (circa 5 anni e mezzo)” in ragione del fatto che la convenzione di lottizzazione “imponeva alla “proprietà lottizzante” (art. 7) il deposito di Polizza fideiussoria a garanzia della completa esecuzione del costo (di alcune centinaia di migliaia di euro) delle opere di urbanizzazione” (cfr. pag. 2 comparsa committenza);
che essendo la ormai estinta, viene meno la possibilità per la committenza di rivalersi nei confronti della stessa per eventuali responsabilità ex art. 2053 c.c. che dovessero verificarsi entro un arco temporale di 10 anni dalla data del collaudo.
In ragione di ciò il convenuto ha invocato il diritto ad una somma quantificata in via equitativa pari almeno a € 150.000 a causa della oggettiva impossibilità di veder soddisfatti eventuali obblighi di garanzia da parte della società appaltatrice in caso di rovine delle opere di urbanizzazione;
che almeno € 100.000 sono dovuti a titolo di perdita della possibilità di rivalersi nei confronti dell’impresa cessata ex art. 1667 c.c. in caso di eventuali danni dovuti a vizi, difetti e difformità delle opere di urbanizzazione;
che non sono state consegnate le obbligatorie certificazioni il che equivarrebbe alla mancata consegna dell’opera appaltata, questo implicherebbe, altresì, l’impossibilità di procedere alla vendita dei singoli lotti della lottizzazione e a tale titolo chiede un importo prudenzialmente quantificato in € 15.000, somma che sarebbe necessaria alla committenza per incaricare e pagare terzi per dotarsi delle certificazioni previste dalla luce di tutto quanto sopra, la difesa di ha avanzato domanda riconvenzionale per complessivi € 1.624.805 (€ 1.324.000 penale + € 35.805 spesa sostenuta per garanzia assicurativa + € 150.000 per l’impossibilità di rivalersi, in caso di rovina delle opere, sull’appaltante in quanto la società è stata estinta + € 100.000 quale somma dovuto per l’impossibilità di rivalersi nei confronti dell’impresa cancellata in caso del manifestarsi, ex art. 1667 c.c., di vizi e di difetti nelle opere appaltate + € 15.000 spesa da sostenersi per procurarsi le certificazioni mancanti). Il debitore ceduto ha eccepito l’inadempimento del cedente e, nella remota e subordinata ipotesi in cui la cessione del credito dovesse essere ritenuta valida, ha eccepito anche l’inadempimento della cessionaria e opposto la compensazione giudiziale dei crediti di cui sopra con eventuali crediti (la cui esistenza viene negata) che dovessero risultare in capo a parte ricorrente/attrice.
4.
I terzi chiamati in causa, in via pregiudiziale di rito, per quanto di loro precipuo interesse, hanno eccepito la nullità del notificato atto di chiamata in causa, per non essere stato preceduto dalla necessaria autorizzazione giudiziale.
In via subordinata e preliminare di rito hanno eccepito la loro carenza di legittimazione passiva e/o la mancanza di interesse ad agire nei loro confronti ex art. 100 c.p.c. (eccezione rispetto alla quale parte chiamante ha, a sua volta, eccepito la tardività per essersi i chiamati costituiti non tempestivamente ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 167, secondo comma, c.p.c., aspetto sul quale si tornerà infra) non avendo i medesimi ricevuto alcun utile sociale in sede di riparto finale all’atto della liquidazione societaria e hanno chiesto rigettarsi le domande formulate nei loro confronti, poiché infondate in fatto e in diritto. Nel merito, vi è sostanziale coincidenza tra la posizione difensiva per come delineata dai terzi chiamati nella comparsa di costituzione e risposta depositata nel giudizio di riassunzione e le difese di parte attrice nonché di quelle contenute nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., in replica alla comparsa di costituzione di parte attrice.
Entrambi hanno ribadito la validità e l’efficacia, ad ogni effetto di legge, della cessione del credito del 20.01.2021 nonché la piena opponibilità della stessa alla cessionaria (di qui la non fondatezza delle eccezioni preliminari di carenza di legittimazione attiva della e di carenza di legittimazione passiva di per come sollevate dal convenuto).
Hanno contestato la ricostruzione di parte convenuta secondo la quale la cessione del credito sarebbe inefficace in quanto in luogo del credito avrebbe dovuto essere ceduto il contratto in cessione di beni immobili e non mediante pagamento di somma di denaro.
Ciò in ragione del fatto che “per oggetto della cessione di credito non è da intendersi esclusivamente il diritto al conseguimento di una somma di denaro, ma ben può essere ceduto anche il credito di una qualunque prestazione di dare, fare o consegnare, per cui l’appaltatrice, al netto dell’inadempimento del committente, avrebbe comunque potuto disporre del credito sotto forma di datio in solutum a favore di terzi”.
Inoltre, hanno aggiunto che per effetto dell’inadempimento della committenza – che non ha provveduto alla cessione dei beni immobili né ha provveduto, nelle more, a divenirne proprietaria al fine di renderne possibile il trasferimento – è divenuta esigibile la diversa prestazione di corrispondere il prezzo mediante pagamento di una somma di denaro e quindi il problema di una cessione del credito che, secondo la prospettazione della difesa dei committenti, potrebbe avere ad oggetto solo la cessione di un credito inteso quale somma di denaro e non anche beni di altra natura, pur essendo in realtà un falso problema, in concreto, nel caso di specie, non si porrebbe neanche. Hanno evidenziato come, a fronte di lavori appaltati regolarmente completati dall’appaltatrice, collaudati dal Comune di e accettati dalla committenza, il rifiuto di quest’ultima di effettuare la controprestazione dovuta, per un valore di € 644.439,15, sia ingiustificato e immotivato in quanto basato unicamente “sul sospetto stato di decozione della appaltatrice” che, per altro, non trova riscontro alcuno, visto che non risultano procedure concorsuali né esecutive a carico della Hanno negato che sia stato pattuito un termine entro il quale i lavori avrebbero dovuto essere ultimati, in quanto l’art. 4 del contratto di appalto nulla dice sul punto. Hanno altresì contestato che il termine finale per l’esecuzione dei lavori possa desumersi, come vorrebbe, invece, la committenza, dalla durata, pari a 30 mesi, della polizza fideiussoria di cui alla lettera “D” della scrittura del 03.08.2010.
Semmai, secondo la prospettazione di parte attrice, tale termine deve eventualmente farsi decorrere, tutt’al più, dalla data di consegna dei lavori che risale al 02.09.2011 come si evince dal relativo verbale (cfr. doc. 1 allegato alla seconda memoria istruttoria di parte ricorrente/attrice) nel quale testualmente si legge che “… i lavori dovranno compiersi in 36 mesi consecutivi e si intendono decorrenti dalla data del presente verbale, salvo eventi non prevedibili” ovvero, quindi, entro settembre 2014.
Il tempo trascorso e dunque il mancato rispetto del termine di 36 mesi sarebbe dipeso da causa non imputabile alla ma da una serie di periodi di sospensione che sono stati ordinati alla società appaltatrice dalla proprietà e dalla sua direzione lavori nella persona dell’Ing. Tali sospensioni, sebbene allegate e dedotte anche nei precedenti scritti difensivi, separato e non anche in calce alla memoria stessa) solo con la seconda memoria istruttoria mediante produzione degli ordini di servizio protocollati e recanti la firma del direttore dei lavori con i quali è stata disposta, di volta in volta, la sospensione e la ripresa dei lavori: l’ordine di servizio numero 1 del 20.04.2012; l’ordine di servizio numero 2 del 03.05.2016; l’ordine di servizio numero 3 del 22.12.2016;
l’ordine di servizio numero 4 del 31.12.2026; l’ordine di servizio n. 5 del 07.07.2017;
l’ordine di servizio numero 6 del 14.07.2017 e, infine, l’ordine di servizio n. 7 del 02.08.2019.
Tali ordini, in quanto implicanti la sospensione dei lavori, avrebbero impedito la regolare prosecuzione degli stessi, consegnati di fatto il 25.11.2020 e cioè, al netto delle sospensioni, in meno di 31 mesi dalla sottoscrizione del verbale di inizio lavori del 02.09.2011 e tenuto conto anche della sospensione imposta, a livello nazionale, dell’esecuzione di tutti i lavori nei cantieri edili sul territorio italiano dal marzo al maggio 2020 a causa dell’emergenza pandemica da Covid 19.
Detta circostanza è stata a sua volta contestata da parte convenuta con la terza memoria istruttoria.
5. Prima di addentrarsi nell’esame del merito, occorre muovere dalle eccezioni preliminari di rito formulate da parte convenuta e cioè il difetto di legittimazione attiva in capo alla cui conseguirebbe il difetto di legittimazione passiva di Secondo la prospettazione di parte convenuta il difetto di legittimazione attiva della discenderebbe dall’inopponibilità della cessione del credito al debitore ceduto e prima ancora dal fatto che, essendo il pagamento previsto in forma di datio in solutum, la cessione del solo credito senza anche la cessione del contratto, non consentirebbe alla cessionaria di agire dal momento che la prestazione dedotta nel contratto ceduto consiste nella cessione di beni immobili e la sola cessione del credito non sarebbe idonea a rendere esigibile anche la cessione dei beni. In realtà, al fine di sgomberare il campo da equivoci, nel caso di specie non si è in presenza di una datio in solutum in quanto la cessione dei beni immobili in luogo del pagamento del prezzo è stata convenuta contestualmente alla sottoscrizione del contratto, mentre si ha datio in solutum solo quando l’accordo tra le parti per estinguere un’obbligazione già in essere, e quindi già a suo tempo assunta, con una prestazione diversa da quella inizialmente convenuta interviene in un momento successivo al sorgere dell’obbligazione originaria. L’ambito oggettivo della cessione abbraccia ogni situazione giuridica soggettiva suscettibile di costituire titolo per una prestazione.
A questa stregua, oggetto di cessione potrebbero essere non solo i diritti di credito, ma anche i diritti potestativi, quelli personali di godimento, anche l’aspettativa credito può anche essere non determinato nell’ammontare (come quello risarcitorio) o non esigibile, perché condizionato o a termine o futuro, con rinvio dell’effetto reale al momento in cui il credito verrà ad esistenza, avendo la cessione, prima di tale momento, efficacia solo obbligatoria inter partes.
Quando oggetto di cessione è un credito futuro (argomento ex art. 1348 c.c., cfr. Cass. 16.04.2021, n. 10211) non è più richiesto, come accadeva invece in passato, che – nel momento in cui si perfeziona il contratto di cessione – già esista il rapporto dal quale detti crediti deriveranno, ritenendosi sufficiente (e necessario) che il debito futuro sia determinato o determinabile (cfr. Cass. 10.12.2018 n. 31896).
Si esclude che possano essere ceduti i crediti “naturali” ex art. 2043 c.c. in quanto si tratterebbe di una pretesa non coercibile basata su doveri morali o sociali).
Inoltre, a differenza di quanto sostiene la difesa convenuta, è pacifico che la cessione del credito abbia ad oggetto – contrariamente a quanto si potrebbe essere portati a desumere sulla base della semplice formulazione letterale del sintagma utilizzato per la descrizione dell’istituto – non solo crediti, ma anche obbligazioni di dare, di facere e di non facere, perché oggetto della cessione è la prestazione in genere e perché il credito non si risolve necessariamente nel credito avente ad oggetto una somma di denaro ma l’accezione “credito” deve essere intesa in senso lato, comprensiva anche di prestazioni di dare, di fare e di non fare. Per credito si deve intendere il diritto ad avere una prestazione, il cui contenuto può essere il più vario.
L’oggetto della cessione del credito, però, non coincide con l’oggetto del rapporto obbligatorio o del contratto nel suo complesso.
In generale, l’ambito oggettivo della cessione del credito è ampio e comprende ogni situazione giuridica soggettiva suscettibile di costituire titolo per una prestazione.
Tale prestazione può consistere in un dare, come ad esempio il diritto a ricevere il pagamento di una somma di denaro, ma nulla esclude che il credito possa consistere nel diritto a ricevere la consegna di un altro bene specifico, non consistente in una somma di denaro.
Inoltre, non vi è ragione per escludere che il credito possa avere ad oggetto una prestazione di fare o non fare.
In questo senso la cessione del credito è stata utilizzata anche per realizzare la cessione del diritto di opzione o della prelazione, in quanto, siffatta figura può avere ad oggetto anche diritti potestativi.
Deve, quindi, ritenersi superata l’eccezione per la quale la cessione del credito attuata dalla non avrebbe comportato anche la cessione dell’obbligazione di cedere i beni immobili individuati nella scrittura privata del 03.08.2010 e non consentirebbe quindi alla presunta in quanto tale credito avrebbe ad oggetto non una somma di denaro bensì esclusivamente la cessione di beni immobili (asserita datio in solutum) che avrebbe potuto compiersi esclusivamente mediante cessione del contratto e non anche del solo credito. Lasciando per ora in disparte la problematica della prestazione in questa sede esigibile nei confronti della convenuta (cessione di beni immobili o somma di denaro) sulla quale si tornerà, funditus, nel prosieguo, deve essere affermata sin da ora l’idoneità della cessione attuata con scrittura del 20.01.2021 a trasferire in capo all’ il credito eventualmente vantato dalla cedente in forza della scrittura del 03.08.2010 a prescindere dalla sua natura, credito in senso stretto in quanto avente ad oggetto una somma di denaro o credito nell’accezione più ampia e lata del termine e in quanto tale comprensivo anche della prestazione di cedere beni immobili. Di cessione del credito si parla in due significati differenti:
da un lato – in modo descrittivo e improprio, poiché non si tratta, in realtà, di un autonomo tipo contrattuale – per indicare il contratto con il quale il creditore (cedente) pattuisce con un terzo (cessionario) il trasferimento in capo a quest’ultimo del suo diritto di credito nei confronti del debitore (ceduto);
da altro lato – più propriamente – per indicare l’effetto di tale contratto, cioè il trasferimento del credito in capo al cessionario.
Il contratto di cessione si perfeziona in forza di un accordo tra creditore (cedente) e terzo (cessionario) (cfr. Cass. 30.04.2021, n. 11436) per il quale non è, di regola, necessaria alcuna forma particolare (cfr. Cass. 13.12.2019, n. 32788).
Non è richiesta l’accettazione da parte del debitore (ceduto) il quale rimane, in ogni caso, estraneo all’accordo di cessione:
per quest’ultimo, infatti, è normalmente indifferente il fatto di dover pagare o eseguire la prestazione nei confronti del creditore originario o del terzo cessionario.
Mediante l’accordo tra creditore cedente e terzo cessionario si produce il mutamento dal lato attivo della titolarità del credito.
Si è dunque in presenza di un contratto ad effetti reali (art. 1376 c.c.) cui è del tutto estraneo il debitore ceduto:
trattasi, pertanto, di un contratto bilaterale e non già trilaterale.
Il credito è trasferito dal cedente al cessionario in forza del principio del così detto consenso traslativo (art. 1376 c.c.) nel momento stesso in cui si perfeziona l’accordo di cessione (cfr. Cass. 24.10.2022 n. 31407; cit. Cass. 30.04.2021 n. 11436).
Fa eccezione l’ipotesi di cessione di crediti futuri, nel qual caso il trasferimento si verifica al sorgere del credito, come già detto (cfr. Cass. 03.08.2017, n. 19341).
Affinché la cessione abbia efficacia nei confronti del debitore ceduto, occorre che a quest’ultimo la cessione venga notificata, non importa se dal cedente o dal cessionario (cfr. Cass. e Cass. 28.04.2021 n. 11199).
Notificazione e accettazione della cessione sono atti a forma libera (cfr. Cass. 13.05.2021 n. 12734).
La notificazione può anche esser contenuta nell’atto di citazione con cui il cessionario dovesse convenire in giudizio il ceduto per l’adempimento dell’obbligazione (C. 20143/2005; C. 14610/2004; C. 8387/1997; C. 10280/1990; C. 4077/1990; C. 7013/1988) e può essere fatta anche successivamente, nel corso del giudizio (C. 20143/2005; C. 14610/2004).
Non è necessario che la notificazione sia effettuata con l’osservanza delle prescrizioni previste dall’ordinamento per gli atti processuali e, in particolare, a mezzo di ufficiale giudiziario (C. 12616/2017; C. 1684/2012; C. 28300/2005; C. 20144/2005; C. 20143/2005; C. 9761/2005; C. 14610/2004; C. 981/2002; C. 10788/1999; C. 4774/1998; C. 8387/1997).
La notificazione della cessione ha natura giuridica di dichiarazione di scienza, recettizia, a forma libera anche in considerazione della equivalenza alla stessa notificazione della prova della conoscenza dell’avvenuta cessione.
La cessione del credito operata dalla originaria società appaltatrice contraente la scrittura privata/contratto di appalto del 03.08.2010, in favore della è perfettamente valida ed efficace in quanto avente ad oggetto un credito senz’altro cedibile, non incorrente in nessuna delle fattispecie rispetto alle quale la disciplina codicistica vieta il ricorso all’istituto della cessione e non risultando convenuto tra le parti dell’accordo originario un divieto di cessione (così detto pactum de non cedendo).
Nella fattispecie, infatti, non si versa in alcuna delle ipotesi in cui la cessione è vietata dalla legge (crediti aventi carattere strettamente personale, cfr. art. 447, comma 1, c.c., crediti alimentari;
crediti il cui trasferimento sia espressamente vietato dalla legge, cfr. art. 1261 c.c.;
crediti la cui cedibilità sia stata convenzionalmente esclusa dalle parti, patto di incedibilità che, per altro, non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione, cfr. art. 1260, secondo comma, c.c.).
Tale cessione, inoltre, è opponibile al debitore ceduto in quanto regolarmente a questi notificata a mezzo raccomandata del 04.02.2021 (cfr. doc. 8 di parte ricorrente/attrice) e perfezionatasi per effetto del buon esito della notifica stessa, senza alcuna necessità del consenso del ceduto (a differenza di quanto richiesto per la cessione del contratto che, invece, presuppone necessariamente il consenso del contraente ceduto).
È quindi irrilevante, contrariamente a quanto vorrebbe sostenere parte convenuta, che la cessione non sia stata accettata dalla committente o che la committenza fosse contraria alla cessione.
Non risponde al vero, poi, che la cessione non sarebbe valida perché priva di data certa.
Anche a non voler considerare certa la data stampigliata sul documento recante la cessione e cioè il 20.01.2021 (cfr. citato doc.
8 di parte attrice) la certezza della stessa è comunque conferita dalla data di invio e di ricezione della raccomandata.
La relativa eccezione si appalesa pertanto infondata, ultronea e meramente defatigatoria.
La data certa serve ai fini della opponibilità ai terzi.
L’art. 1256 c.c. richiede la notifica della cessione o l’accettazione da parte del debitore esclusivamente per risolvere il conflitto tra più cessionari del medesimo credito (cfr. Cass., Sez. III, sentenza n. 15981 del 07.06.2023) problematica che nel caso di specie non viene in considerazione né è stata dedotta.
L’eventuale assenza del corrispettivo della cessione non riveste alcun rilievo nel caso di specie e non inficia la validità della cessione.
Il dedotto stato di decozione, potenziale causa di fallimento della società cedente e asseritamente fonte di possibile responsabilità che ne sarebbero potute derivare in capo alla committenza qualora la stessa, dando seguito alla cessione, avesse eseguito pagamenti nei confronti della è anch’esso privo di rilevanza e non costituisce valida ragione per consentire alla committenza di svincolarsi dagli effetti della cessione che si sono comunque prodotti.
Agli atti non vi è prova di azioni esecutive intraprese nei confronti della inoltre, il fallimento della società che, contrariamente alle asserzioni di parte convenuta, ai sensi dell’art. 10 L.F. può essere dichiarato entro un anno dalla cancellazione, non è mai intervenuto.
Dalla validità ed efficacia della cessione del credito discende anche la legittimazione passiva anche quale rappresentante della sorella e quale accollantesi, unitamente a quest’ultima, l’intero importo dell’appalto (salvo regresso nei confronti di tutti gli altri soggetti della proprietà lottizzante) (cfr. lett. “f” scrittura del 03.08.2010).
Per altro, la legittimazione passiva è stata contestata dalla difesa di solo sotto il profilo dell’asserita invalidità e inopponibilità della cessione del credito e non anche in relazione al fatto di essere stato convenuto in giudizio il solo Deve affermarsi quindi la sussistenza della legittimazione passiva in capo a quest’ultimo, anche in ragione di quanto convenuto tra i proprietari dei terreni oggetto della lottizzazione con la scrittura del 03.08.2010 che vale a rendere quale unico “interlocutore legittimato” e, quindi, il giudizio è stato correttamente incardinato nei suoi confronti. 6.
Appurata la legittimità dell’intervenuta cessione del credito, l’opponibilità della stessa alla committenza e la legittimazione passiva del convenuto occorre innanzitutto procedere ad una corretta qualificazione giuridica del contratto in questione.
rammenta, in particolare, alla stregua dei principi costantemente affermati dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza, che ai fini dell’individuazione della sussistenza di un contratto di appalto/d’opera piuttosto che di un contratto di compravendita/permuta, per il caso in cui alla prestazione di dare (tipica della compravendita) si affianchi anche una prestazione di fare (tipica dell’appalto e/o del contratto d’opera) occorre valutare la prevalenza soggettiva della prestazione avente ad oggetto un facere rispetto a quella avente ad oggetto un dare. Ne consegue che “si avrà appalto (e/o un negozio atipico do ut facias) se la prestazione dell’appaltatore consistente in un facere (si tratta di un’obbligazione primaria cui farebbe fronte o l’ulteriore prestazione consistente nel pagamento del corrispettivo da parte dell’appaltante o (atipicamente) l’attribuzione traslativa del trasferimento del bene) assume, nell’assetto degli interessi, un rilievo primario” (cfr. Cass. 11234/2016; conforme Tribunale di Crotone, Sez. I, 12.07.2019, n. 902).
Nel caso di specie, in ossequio ai canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., appare evidente che la comune intenzione delle parti fosse quella di dare prevalenza alla prestazione avente ad oggetto un facere (rappresentata dalla realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione relative alla convenzione di lottizzazione) costituendo la prestazione di dare (rappresentata dal trasferimento a parte appaltatrice della proprietà di un lotto di terreno edificabile e di un lotto di terreno agricolo) il mero corrispettivo (sostitutivo di quello pecuniario) delle opere eseguite. Ne consegue la riconducibilità del contratto di cui alla scrittura privata del 03.08.2010 allo schema legale dell’appalto.
7. Andando ad esaminare più nello specifico le prestazioni dedotte in contratto, non vi è alcun dubbio che l’obbligo gravante in capo all’appaltatrice era quello di realizzare le opere di urbanizzazione appaltate dalla committenza sul terreno oggetto di lottizzazione.
Più complessa si presenta, invece, la decodificazione della scrittura in relazione all’obbligazione gravante su parte committente.
I contraenti, nella premessa della scrittura, costituente “parte integrante e sostanziale” della stessa, hanno previsto che il corrispettivo dell’appalto sarebbe stato onorato mediante cessione di beni immobili, così letteralmente la scrittura al punto “f” della stessa:
“… ed a regolazione del prezzo dei lavori di urbanizzazione di cui sopra, intendono cedere (n.d.r. il riferimento è alla proprietà lottizzante e quindi ai committenti), sempre pro quota in ragione del 50% ciascuno e salvo quanto infra, alla “ seguenti immobili tra quelli già descritti nei precedenti punti b) e c):
–
lotto di terreno edificabile censito al foglio 3, particella 1636 di mq. 1100;
– terreno agricolo censito al foglio 3, particella 979, 980, 26, di mq. 12.160”.
’art. 3 della lettera “A” – contenente la disciplina del contratto di appalto delle opere di urbanizzazione – le parti hanno poi regolato “Prezzo e momento di esigibilità” prevedendo quanto segue:
“Le parti, di comune accordo, stabiliscono il prezzo a corpo e chiavi in mano in Euro 565.000,00 (cinquecentosessantacinquemila), oltre IVA per € 28.250,00 (ventottomiladuecentocinqunata/00), restando il supero dell’IVA onere a carico dell’Appaltatore di cui si è tenuto conto nella determinazione del compenso imponibile, salvo le eventuali detrazioni e maggiorazioni per varianti previste al precedente punto 2).
Il prezzo pattuito diverrà esigibile al termine dei lavori e comunque entro 20 (venti) giorni dal dì in cui l’Ente (Comune di ) avrà accettato e collaudato positivamente tutti i lavori di urbanizzazione previsti dal presente contratto e sue eventuali varianti …”.
Alla lettera “B” dedicata al “Pagamento del prezzo delle opere in appalto mediante cessione della proprietà di terreni” le parti si sono di nuovo soffermate sul pagamento del prezzo e hanno stabilito che:
“Quanto al pagamento del prezzo delle opere di cui al precedente paragrafo “A” i Sigg.ri promettono di definirlo anche per conto e nell’interesse dei signori , salvo rimborso pro quota, che con la sottoscrizione della presente prestano espresso consenso al riguardo, mediante cessione di immobili alla “ , che promette di accettare ritenendo congrua la controprestazione, i seguenti immobili siti nel Comune di (TE):
– lotto di terreno edificabile censito in Catasto terreni al foglio 3, particella 1636 di mq. 1100 valutato in Euro 480.000,00 (quattrocento-ottantamila/00);
– terreno agricolo censito in Catasto terreni al foglio 3, particella 979, 980, 26, di mq. 12.160 catastali valutato in Euro 85.000,00 (ottantacinquemila/00);
così come meglio evidenziato nella piantina “Allegato A” sottoscritta dalle parti.
È però in facoltà dei signori evitare la cessione degli immobili con natura e destinazione agricola, versando in danaro l’importo sopra indicato di € 85.000,00 (ottantacinquemila/00)”.
La lettera della clausola contenuta al punto “B” del contratto è chiara:
– con riguardo al lotto di terreno edificabile la prestazione dedotta in detto articolo è una sola ed è quella di cedere il bene immobile terreno edificabile e l’adempimento dovrà avvenire mediante cessione dello stesso.
Pertanto l’obbligazione per come voluta dalle parti corrisponde ad un’obbligazione così detta “semplice”;
– con riguardo, invece, al lotto di terreno agricolo, avendo le parti previsto che “in alternativa” alla cessione degli immobili con natura e destinazione agricola potrà essere versato il corrispondente valore del bene, stimato in € 85.000, in tal caso l’obbligazione dedotta in contratto ha natura di obbligazione “facoltativa” intendendosi per tale quell’obbligazione che, pur essendo e restando unica, attribuisce al debitore la facoltà di liberarsi eseguendone un’altra.
lettura combinata dei punti A e B quindi emerge che le parti hanno in primo luogo stabilito esattamente il prezzo in danaro, a corpo dell’intero appalto, e il termine per il pagamento.
In seconda battuta, hanno stabilito che il pagamento del corrispettivo dell’appalto avverrà mediante cessione di beni immobili;
in relazione a detta cessione, le parti hanno anche stabilito in relazione al terreno agricolo la possibilità, rimessa alla libera scelta della parte committente debitrice, di adempiere indifferentemente mediante versamento di una somma di denaro o mediante la cessione del terreno.
Condizione presupposta per l’adempimento mediante cessione dei terreni (sia quello edificabile che quello agricolo) è l’intervenuto acquisto della proprietà degli stessi da parte del committente, al momento della scadenza del termine stabilito per l’adempimento.
È pacifico che la abbia completato le opere di urbanizzazione di sua spettanza (il contrasto è limitato all’avvenuta consegna delle certificazioni di conformità previste dalla legge) ed è altrettanto pacifico che la committenza, ad oggi, non abbia corrisposto alcunché per tali opere in quanto nessuno dei lotti promessi in pagamento è stato ceduto all’appaltatrice.
È pacifico anche che i lavori sono iniziati il 02.09.2011 (data cui risale il verbale di consegna degli stessi) e che sono stati ultimati il 25.11.2020 (data cui risale il collaudo).
La cessione del credito è dunque intervenuta ad esecuzione del contratto di appalto ormai avvenuta.
È pacifico, ancora, non essendo stata fornita prova contraria sul punto, che in data antecedente alla cessione del credito (20.01.2021) ma anche in data successiva e durante tutto l’arco temporale che va dall’inizio dei lavori al collaudo, non sono state sollevate contestazioni di sorta da parte della committenza né in relazione alle tempistiche di esecuzione delle opere, né in relazione all’esistenza di vizi e/o difetti, né in relazione a possibili pregiudizi patrimoniali.
L’impresa cedente ha pertanto adempiuto alla propria prestazione (salvo esaminare nel prosieguo la diversa e ulteriore questione della configurabilità o meno, nella fattispecie, di un ritardo nell’adempimento).
A fronte di una prestazione a carico della committente che, in sede di accordi pattizi è stata convenuta, in luogo di una somma di denaro, nella cessione di beni di valore corrispondente all’entità delle opere da realizzarsi, parte attrice ha domandato non la condanna di parte convenuta al trasferimento dei beni immobili indicati nella scrittura del 03.08.2010, ma la condanna al pagamento dell’equivalente corrispettivo in denaro per come determinato dalle parti medesime.
8. Si pone, pertanto, il problema di comprendere se, alla luce delle illustrate pattuizioni contrattuali, parte istante sia legittimata o meno ad esigere una somma di denaro in luogo della clausola con la quale è stato convenuto di adempiere al pagamento dell’appalto mediante cessione di beni immobili non è vessatoria e non è quindi nulla.
Pur volendo tacere il fatto che tale vessatorietà è stata solo genericamente invocata, senza essere meglio specificata, la vessatorietà non ricorre in quanto è evidente che la scrittura del 03.08.2010 è il risultato della contrattazione tra le parti e questo non solo perché così dichiarato dalle parti stesse (vedasi il punto 4 della lettera “C” della scrittura rubricato “Disposizioni finali”) ma anche perché l’intervenuta contrattazione emerge dal contenuto e dal tenore delle singole clausole, il che – oltre ad escludere l’esigenza di una specifica approvazione delle stesse ex art. 1342 c.c. – esclude anche che si possano ravvisare clausole dal contenuto vessatorio. A ciò si aggiunga che tra i due contraenti, a trovarsi in posizione di forza era senz’altro l’impresa appaltatrice, certamente non riconducibile alla categoria del contraente debole che giammai, in un rapporto tra impresa e privato può essere individuato nell’impresa ma, semmai, è rappresentato dal privato, così che una clausola non è idonea a divenire vessatoria per il solo fatto di essere più favorevole a quest’ultimo.
La cessione del contratto, nel comportare una modifica del soggetto dal lato attivo del rapporto obbligatorio, mantiene inalterato l’oggetto dell’obbligazione (cfr. Cass. 23.06.2022 n. 20315; Cass. S.U. 10.10.2021 n. 33002) nonché la necessità dell’adempimento della stessa da parte del debitore ceduto.
Gli immobili a valere quale corrispettivo dell’appalto non erano di proprietà, se non in parte, dei promittenti cedenti , con delega di quest’ultima al fratello, i quali, con la firma della scrittura del 03.08.2010 hanno garantito che al momento del rogito gli stessi sarebbero stati di loro proprietà.
L’interpretazione complessiva delle clausole contrattuali sopra citate deve essere effettuata sia tenendo conto delle espressioni letterali (e pertanto dei plurimi riferimenti all’equivalente valore monetario degli immobili di cui è stata promessa la cessione), sia tenendo conto della chiara intenzione dei contraenti di garantire il mantenimento del sinallagma contrattuale e pertanto l’equilibrio tra, da un lato, la prestazione dell’appaltatore e, dall’altro, la prestazione del committente, esigibili in momenti distinti. Deve quindi ritenersi che le parti abbiano voluto configurare in capo al committente due distinte prestazioni, in rapporto di subordinazione l’una con l’altra:
la prestazione configurata in via preferenziale è stata quella di pagamento del corrispettivo mediante vendita dei due terreni altrui;
nell’evenienza in cui, al momento dell’esigibilità della prestazione convenuta, il committente non fosse riuscito ad ottenere la proprietà dei terreni promessi in vendita, la prestazione subordinata La configurazione siffatta dell’oggetto del contratto è del tutto legittima, essendo lecita, possibile e anche determinata, in quanto la condizione sospensiva al cui verificarsi è stata collegata l’esigibilità della prestazione configurata come principale (e, dall’altro lato, al cui mancato verificarsi è stata collegata l’esigibilità della prestazione configurata come subordinata), seppure implicita, è chiaramente evincibile in via interpretativa dal contratto. Di fatto, quindi, l’adempimento dell’obbligazione di pagamento del prezzo mediante cessione di terreni è stata sospensivamente condizionata al fatto che i promittenti cedenti ne fossero divenuti proprietari.
La condizione non si è avverata, circostanza questa pacifica tra le parti.
Il complesso delle pattuizioni intervenute tra le parti implica che, divenuto impossibile l’adempimento mediante cessione di terreni, l’adempimento dovrà avvenire mediante pagamento della corrispondente somma di denaro, stabilita dalle parti come di valore equivalente al valore dei terreni.
Conduce a tale soluzione l’aver comunque previsto, all’art. 3 della scrittura, anche l’ordinaria modalità di pagamento tipica del contratto di appalto e cioè il versamento di una somma di denaro, unitamente al fatto di aver stabilito anche la perfetta equivalenza tra il prezzo indicato sotto forma di somma di denaro e il valore dei beni immobili da cedersi per un ammontare che, in entrambi i casi, conduce al valore complessivo di € 565.000.
Da ciò si desume che le parti hanno già inteso, concordemente, regolare l’ipotesi di mancato avveramento della condizione sospensiva (acquisto della proprietà dei terreni da parte del committente), mediante la configurazione dell’obbligazione pecuniaria sostitutiva, in quanto di valore equivalente.
Venuta meno la possibilità di cedere gli immobili per mancata acquisizione della proprietà degli stessi da parte del committente obbligato, residua pertanto l’obbligazione equivalente, consistente nel pagamento del prezzo, già stabilito dalle parti.
E ciò a prescindere da una valutazione circa l’imputabilità o meno del mancato avveramento della condizione.
Ad abundantiam si rileva che comunque la cedente ha adempiuto alla propria prestazione mentre la committente ceduta non ha mai trasferito la proprietà degli immobili, con un’evidente alterazione del sinallagma contrattuale previsto dalle parti, in danno dell’impresa cessionaria.
Ad oggi non risulta che i promittenti cedenti si siano resi parti diligenti, non solo al fine di acquisire la proprietà in capo ai medesimi, ma neanche al fine di favorire il trasferimento dei beni direttamente da parte dei singoli proprietari pro quota.
A ciò si aggiunga che, sempre i promittenti cedenti hanno tenuto un comportamento ma anche perché la loro volontà di non adempiere è confermata dalla proposta formulata in via transattiva in sede di udienza del 27.10.2023 – e ribadita anche con gli scritti defensionali conclusivi depositati nel presente giudizio – dichiarando di essere disposti a trasferire un immobile diverso e di dimensioni inferiori rispetto a quanto a suo tempo convenuto.
Il che da un lato equivale, senz’altro, ad una conferma della volontà di non adempiere, dall’altro lato la formulata proposta integra essa stessa un inadempimento perché al debitore non è data la possibilità di adempiere – salvo accordo tra le parti che non si rinviene nel caso di specie – eseguendo una prestazione diversa rispetto a quella dedotta in contratto.
Dichiarare di voler adempiere eseguendo una prestazione diversa per oggetto e per quantità, equivale a non adempiere.
Questo vale per quella parte dell’obbligazione di pagamento da assolversi mediante trasferimento del terreno edificabile.
Quanto al pagamento da effettuarsi mediante cessione del terreno agricolo, già nella titolarità del promittenti cedenti, era in facoltà del debitore, come detto, scegliere se adempiere in natura o in denaro.
Tuttavia, il debitore non si è avvalso di tale facoltà e non ha offerto di adempiere né in natura né in denaro.
La modalità di pagamento mediante cessione di beni immobili può dirsi senz’altro pattuita a vantaggio della committenza che ha così potuto ottenere la realizzazione dei lavori appaltati senza dover ricorrere ad alcun esborso iniziale e senza versare acconti in corso d’opera.
In entrambi i casi il termine per l’adempimento è scaduto, in quanto il credito è divenuto esigibile dal momento che le parti hanno convenuto che “Il prezzo pattuito diverrà esigibile al termine dei lavori e comunque entro 20 (venti) giorni dal dì in cui l’Ente (Comune di ) avrà accettato e collaudato positivamente tutti i lavori di urbanizzazione previsti dal presente contratto e sue eventuali varianti” e che il collaudo, svoltosi con esito positivo, vi è stato in data 25.11.2020 (così il già richiamato art. 3 della scrittura). Pertanto, può affermarsi che la prestazione di cedere il bene immobile lotto di terreno edificabile è venuta meno per fatto imputabile alla committente, la possibilità della committente di adempiere mediante cessione del terreno agricolo è venuta meno per non essersi la medesima avvalsa della facoltà di scelta che le era stata concessa, sempre nel proprio interesse, trovandosi la parte creditrice, rispetto a tale scelta unilaterale, in una posizione di mera soggezione, a fronte dell’esercizio di un diritto potestativo riconosciuto a esclusivo beneficio della debitrice. Pertanto, tenuto conto della volontà delle parti del contratto, in caso di inadempimento del committente all’obbligazione di corrispondere il prezzo dell’appalto mediante cessione di beni prestazione a carico della committente va determinato in relazione all’ammontare del corrispettivo originariamente pattuito e sulla cui base l’appaltatrice si è determinata a concludere il contratto.
9. Parte attrice ha chiesto anche la condanna al pagamento delle ulteriori opere eseguite dalla propria dante causa in aggiunta a quanto inizialmente previsto in contratto.
Tali opere ammonterebbero a complessivi € 75.137, di cui € 27.000 già onorati, per un residuo avere di € 48.137, oltre I.V.A., come da computi metrici redatti dalla direzione lavori del 03.05.2016 per € 7.500, del 22.12.2016 per € 6.137, del 22.12.2016 per € 9.500 e del 07.07.2017 per € 25.000 e quindi per complessivi € 48.137 (cfr. doc. 7 ricorso e per un riepilogo delle stesse vedasi doc. 2 allegato alla comparsa in riassunzione, pag. 35) genericamente e per lo più qualificati dall’istante come lavori extracontrattuali o anche, se più sporadicamente, come varianti in corso d’opera.
Occorre, tuttavia, soffermarsi sulla natura effettiva di queste prestazioni in ragione del diverso regime giuridico riservato dal legislatore alle variazioni e ai lavori extracontrattuali.
Di recente, la seconda sezione civile della Corte di cassazione ha avuto modo di tornare, funditus, sul tema con l’ordinanza n. 16222 dell’08.06.2023 e ha tracciato le distinzioni tra variazioni e lavori extracontrattuali.
La Corte di legittimità ha affermato che le nuove opere richieste dal committente costituiscono varianti in corso d’opera ove, pur non comprese nel progetto originario, siano necessarie per l’esecuzione migliore ovvero a regola d’arte dell’appalto o, comunque, rientrino nel piano dell’opera stessa.
Sono, invece, lavori extracontrattuali quelli che sono in possesso di un’individualità distinta da quella dell’opera originaria, pur se ad essa connessi, ovvero ne integrino una variazione quantitativa o qualitativa oltre i limiti di legge.
Sicché, nel primo caso, l’appaltatore è, in linea di principio, obbligato ad eseguirle, mentre, nel secondo, le opere debbono costituire oggetto di un nuovo appalto (Cass. civ., sez. I, 15 gennaio 2020, n. 727; Cass. civ., sez. II, 12 maggio 2016, n. 9767; Cass. civ., sez. I, 1° agosto 2013, n. 18438; Cass. civ., sez. I, 7 luglio 2004, n. 12416; Cass. civ., sez. I, 14 giugno 2000, n. 8094; Cass. civ., sez. I, 19 maggio 1972, n. 1531).
Ebbene, quando, nel corso o al termine dell’esecuzione del contratto d’appalto, l’appaltatore abbia realizzato lavori extracontrattuali, non si ricade nell’ambito dei patti aggiunti o contrari al contenuto dell’appalto, per i quali operi la limitazione probatoria sulla testimonianza di cui all’art. 2723 c.c., avendo tale pattuizione la valenza di nuovo e autonomo contratto, avente ad oggetto lavori ulteriori rispetto all’originaria opera, che non ne costituiscono un completamento o uno sviluppo, ma integrano un’opera a sé stante, ovvero quelli che comportano radicali modifiche alla natura dell’opera originaria. Si tratta, dunque, di un appalto separato e indipendente dal primo (Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2023, n. 347; Cass. civ., sez. VI-2, 3 ottobre 2022, n. 28622; Cass. civ., sez. II, 5 agosto 2022, n. 24314; Cass. civ., sez. II, 25 maggio 1991, n. 5935; Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 1963, n. 473; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 1958, n. 2384).
Ed invero, ricadono nell’ambito dei lavori extracontrattuali le seguenti tre categorie di interventi:
a) i lavori richiesti dal committente, che non abbiano alcuna relazione con l’originaria opera appaltata, non costituendone un suo completamento o un suo sviluppo o una sua sostituzione, ma una mera aggiunta;
b) i lavori che incidono in modo così radicale sull’opera commissionata, tanto da modificarne la natura, cioè l’essenza, a cui fa riferimento l’art. 1661, comma 2, c.c.;
c) le opere modificative richieste, allorquando l’opera appaltata sia stata già ultimata e accettata.
Dalla ricostruzione dei fatti, per come operata dalle parti, si evince che nel caso di specie si è in presenza, nonostante la terminologia adottata in modo improprio, di variazioni e non di lavori extra contratto.
Si evince, altresì, anche tenuto conto della natura, della complessità e dell’entità delle opere da eseguirsi, costituite da opere di urbanizzazione strumentali alla successiva realizzazione di fabbricati destinati alla civile abitazione e indispensabili quindi per consentire il sorgere in loco di un insediamento urbano, che si è trattato di variazioni necessarie ex art. 1660, primo comma, c.c., dovute a fatti nuovi, a situazione impreviste e imprevedibili, che come tali non potevano essere prese in considerazione al momento della conclusione del contratto, non conosciute né prevedibili utilizzando l’ordinaria diligenza, opere delle quali la committenza era al corrente in quanto sono state ordinate dal direttore dei lavori ing. espressione della committenza, e rispetto la cui necessità non sono insorti contrasti tra le parti. In tema di appalto, la giurisprudenza, costante nel corso del tempo, ha chiarito che il regime probatorio delle variazioni dell’opera muta a seconda che queste ultime siano dovute all’iniziativa dell’appaltatore o a quella del committente.
Nel primo caso l’art. 1659 c.c. richiede che le stesse siano autorizzate dal committente e che l’autorizzazione risulti da atto scritto “ad substantiam”;
nel secondo, invece, l’art. 1661 c.c. consente, secondo i principi generali, all’appaltatore di provare, con tutti i mezzi consentiti, ivi comprese le presunzioni, che le variazioni sono state richieste dal committente (cfr. Cass., Sez. II, sentenza n. 7242 del 28.05.2001;
Cass., Sez. II, sentenza n. 19099 del 19.09.2011; Cass., Sez. II, ordinanza n. 40122 del 15.12.2021; Cass., Sez. II, sentenza n. 24246 del 09.08.2023).
Nel caso di specie le variazioni sono state ordinate dalla committenza per il tramite del direttore dei lavori.
Pertanto, trova applicazione l’art. 1661, primo comma, c.c., ai sensi del quale “Il ”.
L’importo dei lavori eseguiti, inizialmente non previsti nel computo metrico allegato al contratto di appalto originario del 03.08.2010, ammonta a € 75.137, importo non specificamente contestato da parte convenuta.
Di detta somma, € 27.000 sono stati già pagati, per un residuo avere di € 48.137, oltre I.V.A. e quindi, ammontando l’appalto, al netto delle varianti, a € 565.000, tali lavori “extra” non superano un sesto del prezzo complessivo.
Lo stesso articolo prosegue prevedendo che, in tal caso:
“L’appaltatore ha diritto al compenso per i maggiori lavori eseguiti, anche se il prezzo dell’opera era stato determinato globalmente”.
Pertanto, pur essendo il prezzo, nel caso di specie, determinato globalmente, sussistono i presupposti fattuali e giuridici per riconoscere alla società appaltatrice e per essa alla quale attuale cessionaria del relativo credito, la somma di € 43.323,90 ( € 48.137- 10 % di franchigia come previsto dall’art. 2 del contratto), oltre I.V.A. a titolo di corrispettivo per le varianti resesi necessarie ed eseguite in corso d’opera, rispetto alla cui esecuzione a regola d’arte non sono state sollevate contestazioni. 10. Acclarato il diritto dell’attrice a vedersi riconosciuto il prezzo dell’appalto e delle opere eseguite quali varianti, si passa all’esame della domanda riconvenzionale avanzata da parte convenuta che ha sollevato eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e formulato plurime richieste di condanna, a vario titolo, nei confronti della ed eccepito, in subordine, la compensazione con quanto eventualmente dovuto a quest’ultima.
L’eccezione destinata ad incidere maggiormente in punto di quantum è quella relativa all’applicazione di una penale di € 1.000 giornalieri per il ritardo nell’adempimento, a tale titolo, infatti, sono stati domandati € 1.324.000.
Il contratto non ha espressamente previsto né un termine iniziale, entro il quale i lavori avrebbero dovuto iniziare, né un termine finale, entro il quale gli stessi avrebbero dovuto essere conclusi.
A tal proposito è indicativo il fatto che all’art. 4 del punto “A” del contratto di appalto i campi relativi alla data di inizio e al termine dei lavori sono stati lasciati in bianco.
Lo stesso articolo prevede una penale di € 1.000 per ogni giorno di ritardo ingiustificato nella consegna dei lavori, rispetto alla scadenza contrattuale.
In mancanza dell’indicazione di una scadenza contrattuale, l’astratta previsione di una clausola penale finisce per perdere di significato ed è suscettibile di rimanere lettera morta, tamquam non esset, stante l’assenza del presupposto indefettibile per la sua operatività consistente nella previsione di un termine che, come detto, nel caso di specie, manca totalmente.
L’esistenza di un termine non sembra potersi ricavare neanche dal complesso delle intitola “Garanzie” e che prevede, appunto, la prestazione di una garanzia di natura fideiussoria da parte dell’impresa appaltatrice in favore della committenza dell’importo di € 30.000 per una durata di 30 mesi.
Al contrario di quanto deduce parte convenuta, non è possibile ancorare la durata del contratto alla durata di tale garanzia.
Mancano, infatti, elementi idonei a giustificare un qualsiasi collegamento tra i due aspetti che, in assenza di indizi in senso contrario, sono destinati a rimanere distinti.
Resta da verificare se un termine sia evincibile aliunde sulla base della documentazione complessiva versata in atti.
Da questo punto di vista potrebbe venire in considerazione il processo verbale di consegna dei lavori.
Nel documento in questione si legge che in data 02.09.2011, l’Ing. direttore dei lavori “Ha proceduto alla consegna dei lavori che dovranno compiersi in 36 mesi consecutivi e si intendono decorrenti dalla data del presente verbale, salvo eventi non prevedibili alla data della presente e comunque dovranno essere ultimati entro il periodo di validità della convenzione stipulata dalla proprietà con la l’Amministrazione Comunale di ”.
Dallo stesso si ricava che le parti hanno indicato in 36 mesi consecutivi il termine di ultimazione dei lavori, i quali dovranno essere comunque completati entro il periodo di validità della convenzione di lottizzazione, che, in base all’art. 3 della convenzione stessa (cfr. doc. 3 comparsa resistente/convenuto) è pari a 10 anni decorrenti dalla data di stipula, rinnovabile in base a giustificati motivi.
Nel verbale di consegna, pur facendosi riferimento ad un termine, non è stata riproposta e tanto meno richiamata la penale di cui all’art. 4 della lettera “A” del contratto, non è pertanto possibile ritenere che quest’ultima possa trovare applicazione nel caso di specie, in cui, di fatto, considerato quanto sopra, nessuna penale è stata pattuita dalle parti.
Alla luce di ciò, in assenza di prova di danno, diverrebbe finanche superfluo addentarsi nel merito dell’incidenza che potrebbero aver avuto sulla durata di esecuzione del contratto di appalto gli eventuali periodi di sospensione invocati da parte attrice per giustificare i tempi di esecuzione e contestati da parte convenuta.
Ad abundantiam, in ordine agli stessi va detto che sono stati versati in atti da parte attrice gli ordini di servizio numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7. Con il primo ordine del 20.04.2012 si dà atto dell’impossibilità di procedere con i lavori in quanto l’area sulla quale gli stessi devono eseguirsi non è libera da persone e cose e che lo stato attuale è tale da impedire la prosecuzione dei lavori e i lavori vengono sospesi fino a nuovo ordine (cfr. doc. 2);
con il secondo ordine del 03.05.2016 viene ordinato all’impresa di riprende i lavori (cfr. doc. 5);
con il terzo ordine del 22.12.2016 il direttore dei lavori autorizza la realizzazione delle opere come da computo metrico allegato (che, tuttavia, non figura nel relativo documento e quindi non è dato comprendere con esattezza a quali opere si lavori “vista la mancanza di autorizzazioni e di progetti esecutivi di RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e (cfr. doc. 9);
con il quinto ordine del 07.07.2017 si “autorizza l’impresa alla realizzazione della fognatura linea acque bianche come da computo allegato” (che, tuttavia, non è presente in calce al documento) e le si ordina di realizzare i lavori (cfr. doc. 10);
con il sesto ordine del 14.07.2017 “Visto il protrarsi delle autorizzazioni e di progetti esecutivi RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e si ordina all’impresa di sospendere i lavori (cfr. doc. 12) e con il settimo e ultimo ordine del 02.08.2019 “Visto le autorizzazioni e i progetti esecutivi di RAGIONE_SOCIALE e si ordina all’impresa di riprendere i lavori (cfr. doc. 12).
Alla produzione documentale di cui sopra parte convenuta ha replicato, con la terza memoria istruttoria, che il comportamento del co-lottizzante non può aver determinato una sospensione dei lavori per un periodo di più di 4 anni, pari a 1474 giorni, in quanto l’ostruzionismo del medesimo si è risolto nell’opporsi allo spostamento di una recinzione per un costo dei lavori pari a € 7.500 (area interessata mq 1.090 per una superficie complessiva interessata dalla lottizzazione di mq 30.763 rispetto alla quale il terreno del incideva solo nella misura del 3%) circostanza che, per altro, sarebbe smentita per tabulas dalla stessa documentazione prodotta da parte ricorrente/attrice il cui documento 11 attesterebbe che già in data 03.02.2015 aveva autorizzato la demolizione della recinzione insistente sul lotto di sua proprietà che era di ostacolo alla costruzione delle strade previste dalla lottizzazione. Si deve, tuttavia, osservare che se è vero che nel secondo ordine di servizio si fa riferimento e si afferma che è venuto meno l’ostacolo dal medesimo in precedenza rappresentato per svolgere i lavori, è altrettanto vero che tale ordine è stato emanano il 03.05.2016 e quindi a distanza di più di quattro anni dal primo (il che contrasta con quanto parte convenuta vorrebbe far discendere dal documento 11 in atti di cui sopra) e che, in base al tenore letterale degli ordini di servizio non è possibile stabilire una relazione certa tra la sola condotta di e il primo e il secondo ordine di servizio. Il primo ordine, infatti, non contiene alcun riferimento a invoca una ragione di sospensione di più ampio respiro lasciando intendere che l’area interessata dalle opere di urbanizzazione (mancando una delimitazione della stessa si deve presumere che la sospensione interessasse l’intera area e non una parte di essa) non fosse fruibile per la presenza di persone e cose.
In merito all’ulteriore periodo di sospensione che va dal 31.12.2016 al 02.08.2019 imputabile, secondo la ricostruzione di parte attrice a Enel, , parte convenuta ha prodotto, sempre con la terza memoria, i documenti 12, 13, 14 e 15.
Dal documento 12 si ricava che , come indicato nella missiva, il 07.03.2017 (quindi ben 2 anni dopo) il che ha valenza confermativa del contenuto degli ordini di servizio, ciò a prescindere dal fatto che quella stessa occasione ha lamentato di non poter procedere con quanto di competenza per mancata ultimazione di lavori di spettanza della proprietà lottizzante, perché rimane fermo il dato fattuale della stasi determinatasi per un biennio a causa del mancato sopralluogo di.
Il documento 13, sempre di del 16.06.2016 è una mera evasione di una richiesta di preventivo avanzata in data 12.05.2016;
il documento 14 della del 19.05.2017 è una presa d’atto dell’accettazione del preventivo del 19.10.2016 con il quale si sollecita anche la predisposizione dei lavori necessari e il documento 15 del 21.12.2017 dell ha un contenuto neutro rispetto alla questione ivi esaminata;
per altro, tutti i documenti sono indirizzati ai committenti e non all’impresa.
Nel complesso, dalla documentazione prodotta con la terza memoria 183 c.p.c., tenuto conto che la condanna al pagamento della penale per ritardo è stata avanzata da parte convenuta in via riconvenzionale e che l’onere della prova (di dimostrare che i periodi di sospensione siano imputabili a fatto, colpa e/o inerzia dell’impresa appaltatrice) grava su parte convenuta, non può dirsi assolto.
Nella prassi negoziale vengono generalmente in considerazione due tipologie di penali:
la penale dovuta all’inadempimento e la penale dovuta ad un ritardo nell’adempimento.
La penale ha la funzione di predeterminare, in modo preventivo e forfetario, il risarcimento del danno, persino in assenza di un danno.
In mancanza di una clausola penale, il diritto al risarcimento del danno da ritardo sorge solo previa prova dello stesso e previa ulteriore prova dell’imputabilità del ritardo alla colpa del soggetto debitore.
Premesso che la penale invocata dalla committenza è riferita non all’inadempimento tout court ma a quella particolare forma di inadempimento che si sostanzia in un ritardo nello stesso, in assenza della previsione di una clausola penale l’eventuale danno da ritardo soggiace alle ordinarie regole di liquidazione, occorre quindi dapprima fornire la prova dell’an del danno (compresa quella relativa all’imputabilità) e quindi del quantum.
Nel caso di specie non è stata fornita né la prova di un danno da ritardo né la prova di danni ulteriori e diversi da quelli asseritamente derivanti dal presunto ritardo.
La domanda volta ad ottenere la condanna al pagamento della penale deve pertanto essere rigettata non solo per la già dirimente ragione della mancata previsione di un termine contrattuale, ma anche per non essere stata fornita la prova di un danno da ritardo.
Può dirsi dunque assorbita la domanda avanzata da parte attrice, sia pur solo in sede di l’operatività, rispetto alla quale la difesa di parte convenuta ha sollevato eccezione di tardività, trattandosi di inammissibile domanda nuova.
Per altro e ad abundantiam, l’eccezione di tardività non è fondata in quanto la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “In tema di clausola penale, la relativa domanda di riduzione può essere proposta per la prima volta in appello, potendo anzi il giudice provvedervi anche d’ufficio, sempre che siano state dedotte e dimostrate dalle parti le circostanze rilevanti al fine di formulare un giudizio di manifesta eccessività della penale stessa” (cfr. Cass., Sez. I, ordinanza n. 19320 del 19.07.2018 e Cass., Sez. III, sentenza n. 21297 del 14.10.2011). 11. Parte convenuta oltre ad invocare la penale da ritardo, che come detto non è dovuta, ha invocato altresì ulteriori presunte voci di danno correlate ad altrettanti presunti inadempimenti di parte attrice, rectius, della sua dante causa società cedente e, segnatamente, come già detto:
€ 35.805 quale spesa sostenuta per i premi assicurativi versati, in ottemperanza a quanto previsto dalla convenzione di lottizzazione, € 150.000 a compensazione del pregiudizio derivante dall’impossibilità di rivalersi, in caso di rovina delle opere ex art. 2053 c.c., sull’appaltante in quanto la società è stata cancellata, € 100.000 per l’impossibilità di far valere eventuali vizi e/o difetti presenti nelle opere appaltate ex art. 1667 c.c. ed € 15.000 a titolo di esborsi da sostenersi per ottenere le certificazioni di conformità mancanti. 11.1.
Per quanto riguarda il costo complessivo di € 35.805 sostenuto dalla committenza per premi assicurativi in quanto la convenzione di lottizzazione imponeva garanzia fideiussoria, la domanda di refusione dello stesso, essendo correlata al presunto ritardo e ai costi assicurativi che si sarebbe reso necessario sostenere inutilmente anche durante i periodi di inattività, deve essere rigettata.
Si è già detto che nella fattispecie non è configurabile un vero e proprio ritardo in senso tecnico giuridico, pertanto, non è possibile ammettere a risarcimento esborsi che sarebbero dipesi da ritardo.
11.2.
Viene poi invocato una sorta di “danno temuto sui generis” riferito all’impossibilità della committente di rivalersi nei confronti dell’appaltante, in caso di danni cagionati a terzi dalla rovina – ex art. 2053 c.c. – delle opere di urbanizzazione o all’impossibilità di agire direttamente nei confronti dell’appaltante per far valere la garanzia di cui all’art. 1667 c.c. qualora nei due anni successivi alla consegna dell’opera (consegna non ancora verificatasi secondo la prospettazione di parte convenuta in quanto non sarebbero state consegnate le certificazioni e quindi non potrebbe ancora dirsi decorrente il dies a quo di cui all’art. 1667 c.c.) dovessero verificarsi difformità e vizi. Ciò in ragione del fatto che la società appaltante, è stata cancellata dal registro delle imprese con conseguente estinzione, è venuto quindi meno il soggetto giuridico nei confronti del quale rivolgere eventuali pretese di cui sopra.
Tale presunto danno è stato quantificato, in via equitativa, rispettivamente in € 150.000 ex art. 2053 c.c. e in € 100.000 ex art. 1667 c.c.
Le relative pretese, allo stato, si appalesano generiche, non dimostrate, oltre che carenti del presupposto dell’attualità.
Il danno lamentato è meramente ipotetico e il suo possibile verificarsi non è suffragato dal benché minimo elemento indiziario che ne lasci presagire il concretizzarsi, difettano, dunque, i presupposti per l’accoglimento di tali domande.
A ciò si aggiunga che, non potendosi aderire, per le ragioni che si andranno ad esplicitare nel prosieguo, alla tesi difensiva che vorrebbe ancora non consegnate le certificazioni di conformità previste per legge, quanto meno con riferimento all’art. 1667 c.c. i due anni della garanzia, considerando come termine di decorrenza la data del collaudo (25.11.2020) sono ormai ampiamente decorsi e lo erano già nel momento in cui è stato riassunto il presente giudizio dinanzi al tribunale di Ancona in data 12.01.2023. 11.3. Parte convenuta lamenta, in particolare, la mancata consegna delle obbligatorie certificazioni da parte della cedente che equipara alla mancata consegna dell’opera.
Così prospettata, la mancata consegna delle certificazioni finisce per rilevare sotto un duplice profilo:
il primo inerente, ancora una volta, al ritardo nella consegna dell’opera;
il secondo inerente ai maggiori oneri che graveranno sulla committenza per sopperire a tale mancanza e quindi per incaricare e pagare terzi per ottenere le certificazioni previste dalla legge.
Il pregiudizio economico è stato quantificato in € 15.000.
Tuttavia, è da ritenere, sulla base della documentazione in atti (dichiarazioni di conformità sono state prodotte con il documento n. 18 allegato alla seconda memoria ex art. 183 c.p.c. dell’attrice) che non possa dirsi raggiunta la prova della mancata consegna di tali documenti.
Al contrario, gli elementi a disposizione portano ad affermare che vi sia stata la consegna dell’opus “chiavi in mano” come previsto dal contratto e che quindi siano state consegnate anche le certificazioni necessarie.
Suffraga tale conclusione il collaudo delle opere regolarmente effettuato in contraddittorio tra tutte le parti e il fatto che l’opera deve ritenersi accettata sia perché non risulta che siano state formulate riserve sia in virtù del comportamento concludente tenuto da parte convenuta.
Di tale avviso è la giurisprudenza di legittimità per la quale l’accettazione si configura quale negozio giuridico unilaterale recettizio non formale che può anche desumersi, come sovente avviene, da un comportamento concludente, quale ricevere la consegna senza riserve o rilasciare la dichiarazione di avvenuto collaudo con esito positivo (cfr. Cass. 10314/1996).
A tal fine si deve attribuire rilievo mai stata mossa né in termini di inadempimento, né in termini di ritardo nell’adempimento, né in termini di mancata consegna delle certificazioni prima della proposizione del presente giudizio, né in termini di vizi e/o difetti dell’opera.
Le contestazioni sono state sollevate per la prima volta solo davanti al tribunale, il che ne mette in evidenza la palese strumentalità.
Sia la mancata consegna delle certificazioni da parte della società appaltatrice sia la conseguenza che dalla stessa ne sarebbe derivata, e cioè l’impossibilità di alienare i singoli lotti, sono state solo genericamente allegate.
A fronte della generica allegazione per la quale la mancanza di certificazioni avrebbe impedito la vendita dei singoli lotti, non vi è prova della relativa circostanza e anche la quantificazione del “danno da mancata certificazione” è stata effettuata in modo apodittico senza ancorarla a parametri di riferimento e/o ad un preventivo.
A fronte dei presunti inadempimenti lamentati, la committenza, pur avendone la possibilità di farlo, non ha né escusso né tentato di escutere la garanzia bancaria del valore di € 30.000 prestata dall’impresa in conformità alla già richiamata previsione di cui alla lettera “D” del contratto di appalto (la stessa cui la medesima ha ritenuto riferirsi per dimostrare l’esistenza di un termine per l’esecuzione del contratto).
Resta il fatto che, come già evidenziato, prima che venisse incardinato il presente giudizio e quindi prima che parte attrice rivendicasse formalmente l’adempimento da parte della committenza, quest’ultima non ha mai sollevato rimostranze di sorta.
Pertanto, l’eccezione di inadempimento sollevata in questa sede per la prima volta, oltre che non provata risulta contraria a buona fede e correttezza.
In ogni caso, l’eventuale mancata consegna delle certificazioni di conformità, anche in ragione del fatto che – per stessa ammissione di parte convenuta – inciderebbe per € 15.000 su un contratto di appalto del valore di circa € 600.000, non può dirsi equivalente alla mancata consegna dell’opera;
anche in assenza delle certificazioni di conformità, l’avvenuta consegna e l’avvenuto completamento delle opere non possono essere negate, il che comporta anche la mancata incidenza di tale eventuale inadempimento su di un possibile danno da ritardo sub specie di penale.
In ragione di quanto sopra, le domande avanzate da parte convenuta in via riconvenzionale devono essere tutte rigettate.
12.
Si passa ora ad esaminare la posizione dei terzi chiamati in causa muovendo, in via preliminare, dall’eccezione di nullità della relativa citazione sollevata dalla difesa dei medesimi chiamati.
La vocatio in ius dei signori rispettivamente amministratore e socio il primo e soci i secondi della sarebbe nulla in quanto mai autorizzata dal giudice ex art. 269 c.p.c. La chiamata in causa dei soci non è nulla, in primo luogo, perché la è stata cancellata dal registro delle imprese, si è quindi estinta, non esiste più quale soggetto giuridico per l’ordinamento;
una notifica effettuata nei confronti di quest’ultima sarebbe non solo nulla ma anche inesistente, tamquam non esset.
In secondo luogo, perché, giocoforza, venuta meno la società come soggetto giuridico, la notifica deve essere effettuata nei confronti dei soci e quindi in capo al giudice non residuerebbe alcun margine di discrezionalità.
Il che rende inutile, superfluo, ultroneo, ridondante e antieconomico sia effettuare comunque una notifica al soggetto inesistente – al fine di precostituirsi il presupposto per adire nuovamente il giudice al quale chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa, in luogo del soggetto estinto, i soci – sia perché contrasterebbe con l’esigenza di contenere e di concentrare la durata dei procedimenti che con quella di evitare di ingolfare la giustizia, risorsa, per sua natura, costosa e limitata, con istanze inutili. In terzo luogo, perché l’avvenuta costituzione dei soci vale, di per sé, indipendentemente da quale sia in proposito la loro volontà, a sanare l’eventuale nullità della citazione per avvenuto raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c. Principio questo enunciato dalla giurisprudenza con specifico riferimento al rapporto tra società incorporata e incorporante ma suscettibile, mutatis mutandis, di applicazione in via analogica anche nel caso di cancellazione della società per estinzione (cfr. Cass., Sez. I, ordinanza n. 29.05.2020; Cass., Sez. III, sentenza n. 6202 del 18.03.2014; Cass., Sez. I, sentenza n. 14066 del 28.05.2008).
In quarto e ultimo luogo, perché la possibilità di ricorrere alla citazione diretta dei soci può ricavarsi, in via interpretativa, dall’art. 2495, terzo comma, c.c., ai sensi del quale, la domanda avanzata nei confronti dei soci, in caso di estinzione della società, “se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”.
Dal che è possibile inferire che dopo la cancellazione la domanda si propone direttamente nei confronti dei soci.
12.1.
La cancellazione della società dal registro delle imprese, pur provocando, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d. lgs. 17.01.2003, n. 6, l’estinzione della società, non determina l’estinzione dei debiti insoddisfatti nei confronti dei terzi, verificandosi un fenomeno di tipo successorio “sui generis”, in cui la responsabilità dei soci è limitata alla parte di ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio di liquidazione (cfr. Cass., Sez. V, via subordinata e preliminare di rito i chiamati hanno eccepito la loro carenza di legittimazione passiva e/o la mancanza di interesse ad agire nei loro confronti ex art. 100 c.p.c. (eccezione rispetto alla quale parte chiamante ha, a sua volta, opposto la tardività per essersi i chiamati costituiti non tempestivamente ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 167, secondo comma, c.p.c., aspetto sul quale si tornerà) non avendo i medesimi ricevuto alcun utile sociale in sede di riparto finale all’atto della liquidazione societaria e hanno chiesto rigettarsi le domande formulate nei loro confronti, poiché infondate in fatto e in diritto. Nel caso di specie, in ragione delle conclusioni di cui sopra, il rigetto delle domande riconvenzionali rende ultroneo, anche in ossequio al principio della ragione più liquida, addentrarsi nel merito della questione dal momento che non ravvisandosi un’esposizione creditoria della convenuta nei confronti dei terzi chiamati viene meno anche la necessità di approfondire la loro posizione sia processuale che sostanziale.
Ad abundantiam si osserva quanto segue.
A seguito della nuova formulazione dell’art. 2495, comma secondo, c.c., introdotta dalla riforma delle società del 2003, la cancellazione delle società (sia di capitali che di persone) ha efficacia costitutiva, idonea a determinare la totale estinzione della stessa.
I contrasti interpretativi sulla norma sono stati risolti dalla Cassazione a Sezioni Unite – a cui si è conformata la successiva giurisprudenza – la quale, con tre sentenze emesse nel 2010 (Cass. 22.02.2010 nn. 4060, 4061 e 4062) ha confermato che l’estinzione della società (sia di capitali che di persone) si produce al momento dell’iscrizione della cancellazione della stessa nel registro delle imprese.
Anche qualora vi siano creditori sociali insoddisfatti e rapporti giuridici non ancora definiti, la società viene comunque meno e gli eventuali rapporti residui dovranno essere regolati direttamente fra i creditori sociali e i soci.
Con la cancellazione, l’ente diviene totalmente inesistente ed è, pertanto, privo di legittimazione sostanziale e processuale.
I soci limitatamente responsabili (ovvero i soci di società di capitali:
s.p.a.) rispondono invece delle obbligazioni sociali soltanto nei limiti delle azioni o quote sottoscritte e, comunque, fino all’ammontare delle somme da essi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.
Qualora dunque esistano ancora crediti sociali dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, i creditori non possono più agire nei confronti della società, che ormai si è estinta, ma possono invece agire nei confronti degli ex soci, nei limiti delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, compresi gli eventuali acconti da questi ricevuti ai sensi dell’art. 2492, comma 2, c.c. A questa regola fanno eccezione unicamente i debiti tributari rispetto ai quali la legittimazione ad agire nei confronti soci esiste anche nell’ipotesi in cui questi ultimi non abbiano percepito utili dalla liquidazione societaria in base al bilancio finale (cfr. Cass., Sez. V, sentenza n. 22692 del 26.07.2023). Dopo l’estinzione della società, ciascun socio risponde per tutto il credito vantato dal creditore sociale insoddisfatto, solidalmente con gli altri soci.
I creditori possono quindi rifarsi nei confronti di tutti i soci chiedendo a ciascuno di essi di pagare per intero il debito e il socio che ha pagato l’intero ha azione di regresso nei confronti degli altri per le quote di loro spettanza.
L’onere della prova dell’avvenuta distribuzione dell’attivo e la conseguente riscossione di una quota di esso da parte del socio in base al bilancio finale di liquidazione, in caso di credito non soddisfatto verso la società di capitali cancellata dal registro delle imprese, grava sul creditore sociale nei cui confronti il socio viene chiamato a rispondere.
Grava, invece, sul socio convenuto, che voglia contrastare la pretesa creditoria azionata nei propri confronti, l’onere della prova di aver effettivamente utilizzato le somme ricevute in base al bilancio finale di liquidazione per il pagamento dei debiti della società (cfr. Cass., Sez. II, sentenza n. 10752 del 21.04.2023; cit. Cass., Sez. V, sentenza n. 13259 del 26.06.2015; Cass., Sez. II, sentenza n. 15474 del 22.06.2017; Cass., Sez. V, sentenza n. 13259 del 26.06.2015; Cass., Sez. III, sentenza n. 11967 del 17.05.2010; Cass., Sez. V, sentenza n. 10275 del 21.04.2008 e Cass., Sez. V, sentenza n. 19732 del 10.10.2005).
Nel caso di specie, stante le regole di riparto dell’onere della prova per come delineate in materia dall’unanime giurisprudenza della Cassazione, è irrilevante che i terzi chiamati si siano costituiti tardivamente rispetto alla possibilità di sollevare eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio o che abbiano tardivamente prodotto documentazione volta a provare di non aver riscosso utili.
Come detto, infatti, l’onere di provare l’avvenuta riscossione di utili sarebbe spettato a parte convenuta che non vi ha assolto.
Pertanto, seppure legittimati passivamente a contraddire alla domanda riconvenzionale svolta da parte convenuta, tuttavia nel merito non residuerebbe comunque una responsabilità risarcitoria dei soci della società cedente estinta.
In ragione di tutto quanto sopra, la domanda di parte attrice va accolta quanto ai lavori commissionati con contratto di appalto del 03.08.2010 per € 565.000 oltre I.V.A. pari a € 28.250 restando il supero dell’I.V.A. onere a carico dell’appaltatore, come previsto dalla parti al punto 3 della lettera “A”, per un totale pari a € 593.250 e quanto alle varianti limitatamente all’importo di € 43.323,90 oltre I.V.A. Difettano, invece, i presupposti per l’accoglimento delle domande formulate in via riconvenzionale da parte convenuta che vanno, pertanto, rigettate. 13. Parte attrice ha tempestivamente riassunto la causa davanti al giudice dichiarato competente, il processo iniziato dinanzi al tribunale di Teramo, pertanto, è continuato dinanzi al così detto istituto giuridico della translatio iudicii, previsto dalla legge sulla base della struttura unitaria del processo e del principio di unità della giurisdizione, per effetto del quale mantengono piena validità l’intero procedimento e i relativi atti (anche quelli istruttori) non potendo di per sé sola l’incompetenza del giudice primariamente adito, che li abbia disposti, avere sugli stessi alcun effetto invalidante. In virtù dell’adesione all’eccezione di incompetenza territoriale proposta dalla controparte, ai sensi dell’art. 38, secondo comma c.p.c., viene meno ogni potere del giudice inizialmente adito, nel caso di specie del tribunale di Teramo – come correttamente statuito dal giudice dichiaratosi incompetente con ordinanza del 19.10.2022 – di decidere sulla competenza, risultando essa già risolta dall’accordo formatosi nel processo, e conseguentemente di pronunciare sulle spese processuali relative alla fase svoltasi davanti a lui, dovendo provvedervi lo scrivente giudice, quale giudice al quale è rimessa la causa (cfr. Cass., Sez. III, sentenza n. 6106 del 20.03.2006; Cass., Sez. VI – I, ordinanza n. 25180 dell’08.11.2013; Cass., Sez. VI – III, sentenza n. 25180 dell’08.11.2013; Cass., Sez. VI – III, ordinanza n. 15017 dell’11.05.2022 e Cass., Sez. II, sentenza n. 21300 del 30.07.2024; a differenza dell’ipotesi di incompetenza territoriale inderogabile ex art. 28 c.p.c. e di irrilevanza pertanto di un eventuale accordo delle parti sul punto, con la conseguenza che in questo caso l’ordinanza di incompetenza deve statuire sulle spese, avendo sempre natura decisoria, cfr. Cass. n. 15699 del 2024; Cass. n. 20153 del 2023; Cass. n. 17187 del 2019; Cass. n. 11764 del 2016).
Le spese di lite, trattandosi di un unico giudizio, vanno quindi liquidate in modo unitario e in applicazione del principio della soccombenza, ex art. 91 c.p.c. La liquidazione – in assenza di deposito di nota spese – viene operata tenuto conto dell’esito complessivo della lite e dell’intero svolgimento delle vicende processuali, ivi incluse le attività svolte dalle parti davanti al giudice dichiaratosi incompetente.
In applicazione del d.m. 55/2014 e s.m.i. , scaglione compreso tra € 520.001 ed € 1.000.000 (valore determinato in base al decisum) si ritiene di dover liquidare la fase di studio, la fase introduttiva (senza che vi siano i presupposti per una duplicazione e/o una maggiorazione della stessa a seguito dell’intervenuta riassunzione in ragione del fatto che parte attrice è risultata soccombente sulla questione di competenza) la fase istruttoria e la fase decisionale e di dover fare applicazione dei parametri medi dello scaglione di riferimento per le prime due fasi e dei parametri minimi per le ultime due fasi. Ciò in quanto la fase istruttoria è consistita nel deposito delle sole memorie ex art. 171-ter c.p.c. senza svolgimento di attività istruttoria ulteriore e la seconda è stata caratterizzata dal deposito, da parte della difesa di parte attrice di una comparsa conclusionale e di una memoria di replica confezionate in modo “sui generis” (come peraltro ammesso dallo stesso avvocato che le ha sottoscritte, pag. 6 e 7 della comparsa conclusionale).
Sulla scorta delle superiori premesse, le spese di lite sono poste integralmente a carico di e si liquidano in favore dell’ in complessivi € 18.420 (di cui € 4.607 per la fase di studio, € 3.039 per la fase introduttiva, € 6.767 per la fase di trattazione ed € 4.007 per la fase decisoria) oltre spese esenti ex art. 15 d.P.R. n. 633 del 1972 pari a complessivi € 1.713 (di cui € 1.686 per contributo unificato, € 27 per la marca per l’iscrizione a ruolo e € 3 per commissioni costo transazione relativi versamenti) nonché oltre accessori di legge, contributo spese generali ex art. 13, comma 10, L. 247/2012 nella misura del 15%, C.P.A. 4% e I.V.A. 22% o nella diversa misura dovuta per legge al momento del pagamento, se e in quanto dovuta, nonché spese di registrazione e successive occorrende e in favore dei terzi chiamati in complessivi € 18.420 (di cui € 4.607 per la fase di studio, € 3.039 per la fase introduttiva, € 6.767 per la fase di trattazione ed € 4.007 per la fase decisoria) nonché oltre accessori di legge, contributo spese generali ex art. 13, comma 10, L. 247/2012 nella misura del 15%, C.P.A. 4% e I.V.A. 22% o nella diversa misura dovuta per legge al momento del pagamento, se e in quanto dovuta, nonché spese di registrazione e successive occorrende
1) accoglie la domanda della nei limiti e per le causali di cui alla parte motiva e per l’effetto condanna a pagare, in favore della prima, la somma di € 593.250
(I.V.A. compresa), oltre € 43.323,90 oltre I.V.A. (a titolo di corrispettivo per le varianti), oltre interessi legali ex art. 1284, primo comma, c.c., dal dovuto (15.04.2021) alla data di proposizione della domanda giudiziale, nonché oltre interessi ex art. 1284, quarto e ultimo comma, c.c.;
2) rigetta le domande riconvenzionali avanzate da nei confronti della e nei confronti dei signori 3) condanna a pagare le spese del presente giudizio in favore dell’ che liquida in complessivi € 18.420, oltre spese esenti ex art. 15 D.P.R. n. 633 del 1972 pari a complessivi € 1.713, nonché oltre accessori di legge, contributo spese generali ex art. 13, comma 10, L. 247/2012 nella misura del 15%, C.P.A. 4% e I.V.A. 22% o nella diversa misura dovuta per legge al momento del pagamento, se e in quanto dovuta, nonché spese di registrazione e successive occorrende; )
condanna a pagare le spese del presente giudizio in favore dei terzi chiamati in complessivi € 18.420, nonché oltre accessori di legge, contributo spese generali ex art. 13, comma 10, L. 247/2012 nella misura del 15%, C.P.A. 4% e I.V.A. 22% o nella diversa misura dovuta per legge al momento del pagamento, se e in quanto dovuta, nonché spese di registrazione e successive occorrende.
Ordina al cancelliere la comunicazione della sentenza alle parti.
Ancona, 11 novembre 2024.
Il giudice NOME COGNOME
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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