In materia di attribuzione del cognome del figlio naturale la Suprema Corte ha espresso il principio che nella fattispecie in cui il padre, dopo aver legittimato il figlio naturale successivamente alla madre, chieda l’attribuzione del proprio cognome, ai fini della delibazione di una simile domanda ai sensi dell’art. Nell’operare la valutazione richiestagli dall’enunciato normativo, il giudice deve prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome, ma deve avere riguardo all’identità personale posseduta dal minore nell’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del riconoscimento da parte del padre.
In materia di attribuzione del cognome del figlio naturale la Suprema Corte ha espresso il principio che nella fattispecie in cui il padre, dopo aver legittimato il figlio naturale successivamente alla madre, chieda l’attribuzione del proprio cognome, ai fini della delibazione di una simile domanda ai sensi dell’art. 262 c.c., deve valutarsi l’interesse esclusivo del minore, avuto riguardo al di lui diritto alla propria identità personale fino a quel momento posseduta nell’ambiente in cui è vissuto, nonché a ogni altro elemento di valutazione suggerito dal caso concreto, esclusa qualsivoglia automaticità.
La Corte prosegue nel ribadire che il diritto al nome costituisce uno dei diritto fondamentali di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta.
Nell’operare la valutazione richiestagli dall’enunciato normativo, il giudice deve prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome, ma deve avere riguardo all’identità personale posseduta dal minore nell’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del riconoscimento da parte del padre.
A tutela dell’eguaglianza fra i genitori, il giudice non dovrà autorizzare l’assunzione del patronimico non soltanto ove ne possa derivare danno per il minore, ma anche allorquando il cognome materno si sia radicato nel contesto sociale in cui il minore si trova a vivere, giacché precludergli il diritto di mantenerlo si risolverebbe in un’ingiusta privazione di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il diritto “a essere se stessi”.
Il provvedimento deve, quindi, tutelare l’interesse del minore – non necessariamente coincidente con quello dell’uno o dell’altro genitore – alla propria identità. Il giudice può e deve ricercare di ufficio i dati informativi per conoscere l’interesse del minore; la relativa valutazione ha connotati di ampia discrezionalità, non trovando limitazione neppure nella volontà favorevole o contraria del minore medesimo.
Cassazione Civile, Prima Sezione, Sentenza n. 12641 del 26 maggio 2006
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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