A norma dell’articolo 49 t.u.i.r., “sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri…”.
Con tale definizione di reddito di lavoro dipendente, il citato articolo 49, pur non richiamandolo espressamente, ha inteso mutuare il contenuto dell’articolo 2094 c.c., per cui la prestazione di lavoro dipendente, anche sul piano fiscale, è caratterizzata dal vincolo di subordinazione, in forza del quale si realizza l’assoggettamento gerarchico del lavoratore, il potere di imporre direttive non solo generali da parte del datore di lavoro e l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa in modo continuativo e sistematico, sotto la costante vigilanza del datore di lavoro.
Secondo la giurisprudenza consolidata, deve escludersi la cumulabilità delle qualità di amministratore unico di società di capitali e di lavoratore “dipendente” della medesima società, non potendo, in tal caso, ricorrere l’effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri, che si configura come requisito tipico della subordinazione (Cass., sez. L, 5/09/2003, n. 13009; Cass., sez. 5, 13/11/2006, n. 24188; Cass., sez. 5, 18/04/2019, n. 10909), e ciò per il contenuto sostanzialmente imprenditoriale dell’attività gestoria svolta dall’amministratore unico in relazione alla quale non è individuabile la formazione di una volontà imprenditoriale distinta (Cass., sez. L, 14/02/2000, n. 1662).
La riconosciuta equiparazione tra l’attività gestoria svolta dall’amministratore unico di società e quella svolta dall’imprenditore impone, quindi, di ritenere che la carica di amministratore unico, essendo questi titolare del potere di esprimere la volontà propria dell’ente sociale, come anche dei poteri di controllo e di comando, sia del tutto incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato, stante l’assenza di una relazione suscettibile – almeno astrattamente – di una distinzione tra la posizione del lavoratore in qualità di organo direttivo della società e quella del lavoratore come soggetto esecutore delle prestazioni lavorative personali, che, di fatto, dipendono dallo stesso organo direttivo.
La configurabilità del rapporto di lavoro subordinato è, parimenti, da escludere con riferimento all’unico socio, giacché la concentrazione della proprietà delle azioni nelle mani di una sola persona esclude – nonostante l’esistenza della società come distinto soggetto giuridico – l’effettiva soggezione del socio unico alle direttive di un organo societario, non potendosi ricollegare ad una volontà “sociale” distinta la costituzione e gestione del rapporto di lavoro (Cass., sez. L, 17/11/2004, n. 21759).
Una diversa valutazione si impone, invece, nella ipotesi in cui il si discuta del rapporto di lavoro instauratosi fra un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali e la società stessa, non potendo, in tal caso, in astratto escludersi la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato, quando in tale rapporto sussistano le caratteristiche dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione dell’ente.
In tal caso, è, tuttavia, necessario che colui che intende far valere tale tipo di rapporto fornisca la prova della sussistenza del vincolo di subordinazione, nonostante la qualità di membro del consiglio di amministrazione, al potere direttivo dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso (Cass., sez. 1, 6/11/2013, n. 24972; Cass., sez. 3/05/2013, n. 10396; Cass., sez. 5, 22/10/2014, n. 22403).
Fermo restando che l’accertamento della compatibilità dei diritti e dei doveri nascenti da un rapporto di lavoro subordinato con le funzioni di amministratore costituiscono un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da vizi logici (Cass., sez. L, 13/06/1996, n. 5418; Cass., sez. L, 8/02/1999, n. 1081; Cass., sez. 1, 22/09/2000, n. 12546; Cass., sez. L, 28/06/2004, n. 11978).
Pertanto, ritenuta la astratta possibilità di instaurazione, tra la società e la persona fisica che la gestisce, di un autonomo e parallelo diverso rapporto che può assumere le caratteristiche del lavoro subordinato, deve accertarsi in concreto l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, tali da configurare due prestazioni ontologicamente differenti (Cass., sez. L, 12/01/2002, n. 329), e occorre altresì dimostrare che le attività svolte siano contraddistinte dai caratteri tipici della subordinazione ex articolo 2094 c.c..
La Suprema Corte (Cass., sez. L, 2/09/2000, n. 11502; Cass., sez. L, 20/06/2001, n. 8407), con specifico riferimento al requisito della subordinazione ex articolo 2094 c.c., ha avuto modo di osservare che in relazione alla configurabilità, da un lato, di una nozione giuridica di subordinazione nella prestazione di lavoro (che dà rilievo alla messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie a favore del datore di lavoro, con l’assoggettamento al suo potere direttivo e disciplinare), e, dall’altro, di elementi sintomatici della situazione di subordinazione (quali la continuità dello svolgimento delle mansioni, il versamento a cadenze periodiche del relativo compenso, la presenza di direttive tecniche e di poteri di controllo e disciplinari, il coordinamento dell’attività lavorativa rispetto all’assetto organizzativo aziendale, l’esecuzione del lavoro all’interno della struttura dell’impresa con materiali ed attrezzature proprie della stessa, l’osservanza di un vincolo di orario, l’assenza di rischio economico), il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto, come subordinato o autonomo, ha carattere sintetico (nel senso che, rilevati alcuni indici significativi, li valuta nel loro assieme, in relazione alle peculiarità del caso concreto) e integra un giudizio di fatto censurabile, in sede di legittimità, solo per ciò che riguarda la individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, mentre è insindacabile, se sorretta da adeguata motivazione, la scelta degli elementi di fatto cui attribuire, da soli o in varia combinazione tra loro, rilevanza qualificatoria sia la riconduzione o meno degli stessi allo schema contrattuale del lavoro subordinato.
Si è, in particolare, spiegato che, ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del lavoro del dirigente – quando questi sia titolare di cariche sociali (perché preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), goda di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesti non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico – è necessario verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all’interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata (cd. subordinazione attenuata), alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale (Cass., sez. L, 1/08/2013, n. 18414; Cass., sez. 1, 10/05/2016, n. 9463; Cass., sez. L, 19/11/2018, n. 29761).
In tal caso la subordinazione dovrà essere confermata dalla caratterizzazione delle mansioni (diverse dalle funzioni proprie della carica rivestita) allo stesso affidate (Cass., sez. L, 10/08/1999, n. 8574).
Peraltro, poiché il vincolo della subordinazione può diversamente atteggiarsi in relazione alla natura delle prestazioni lavorative (intellettuali, professionali, o dirigenziali) che non si prestino ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro o con una continuità regolare anche negli orari, la Cassazione ha ulteriormente precisato che, “quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa delle peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, il parametro distintivo della subordinazione deve essere valutato o escluso facendo riferimento a criteri cd. complementari e sussidiari, come, ad esempio, quelli della collaborazione, della periodicità e predeterminazione della retribuzione, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale e dell’assenza di rischio in capo al lavoratore, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere esaminati globalmente (Cass., sez. L, 28/03/2003, n. 4770; Cass., sez. L, 13/06/2003, n. 9492; Cass., sez. L, 13/04/2012, n. 5886; Cass., sez. L, 1/08/2013, n. 18414).
Tanto premesso in linea generale, in materia di determinazione del compenso all’amministratore, sono intervenute le Sezioni Unite, con la sentenza n. 21933 del 29 agosto 2008, affermando il principio secondo cui “con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’articolo 2389 c.c., comma 1, qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa la natura imperativa ed inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come diritto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea…”.
Ne discende che l’effettivo svolgimento dell’attività gestoria non può giustificare da solo la deducibilità dei relativi costi, a prescindere dalla sussistenza dei tali necessari presupposti (preventiva delibera assembleare per il compenso) indispensabili per conferire certezza alla spesa dedotta (Cass., sez. 5, 7/03/2014, n. 534).
In conclusione, in tema di redditi d’impresa, con principio estendibile anche quanto all’IVA, ai fini della deducibilità della spesa sostenuta da una società di capitali per compenso agli amministratori, ove questo non sia stabilito dallo statuto, è necessaria la preventiva ed esplicita delibera assembleare, non essendo sufficiente l’effettivo svolgimento dell’attività gestoria a conferire certezza alla spesa dedotta, stante la natura inderogabile della disciplina del funzionamento della società.
Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, Ordinanza n. 37809 del 27 dicembre 2022
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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