REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI ROMA SEZIONE QUARTA
CIVILE Riunita in camera di consiglio e così composta dr.ssa NOME COGNOME presidente dr.ssa NOME COGNOME consigliere rel. dr. NOME COGNOME consigliere ha pronunciato la seguente
SENTENZA N._679_2025_- N._R.G._00000196_2020 DEL_31_01_2025 PUBBLICATA_IL_31_01_2025
nella causa civile in grado d’appello iscritta al numero 196 del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 2020, trattenuta in decisione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. all’udienza del 31 gennaio 2025 e vertente TRA (c.f. e p.iva ) in persona del legale rappresentante p.t. rappresentato e difeso dall’avv.to NOME COGNOME in virtù di procura a margine dell’atto di citazione del 28 gennaio 2013 ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO – APPELLANTE P.(c.f.) rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura in calce alla comparsa di costituzione in grado d’appello ed elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo in Roma, INDIRIZZO
APPELLATO- APPELLANTE INCIDENTALE
OGGETTO: appello contro la sentenza n. 22824/2019 del Tribunale di Roma pubblicata in data 27/11/2019.
FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA § 1 — La vicenda che ha dato origine alla lite è stata così narrata nella sentenza impugnata:
«Con atto di citazione e contestuale domanda inibitoria notificato in data 31 gennaio 2013, la premesso che svolgeva attività di bar-ristorante-tavola calda per la preparazione, la vendita e la somministrazione di alimenti e bevande nei locali di INDIRIZZO nel proprio esercizio denominato “RAGIONE_SOCIALE” come da apposta insegna, ha esposto che la ditta individuale del signor a partire dall’aprile 2012 aveva a sua volta esercitato un’attività per la somministrazione di alimenti e bevande in locali vicini e in modo non conforme ai principi di lealtà e della correttezza tra imprenditore e in violazione dell’art. 2598 comma 3 c.c., avendo operato senza avere i requisiti prescritti per ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative; ha aggiunto che, in conseguenza dello svolgimento di questa attività non corretta, la convenuta aveva causato una rilevante diminuzione della clientela dell’attrice, a proprio vantaggio, con conseguente forte danno economico.
Per cui ha chiesto la condanna della ditta individuale a risarcirle i danni subiti e subendi per la sua concorrenza sleale, nonché l’inibitoria alla prosecuzione dell’attività, con pubblicazione della sentenza C.F. resistendo alle domande attrici, obiettando la carenza di giurisdizione del Tribunale Ordinario essendo contestato il possesso delle autorizzazioni amministrative nonché, nel merito, rilevando di avere regolare autorizzazione per l’attività svolta e di non aver compiuto atti di concorrenza sleale. ».
Il tribunale, assunto l’interrogatorio formale di e disposta l’audizione dei testi per parte attrice e di per parte convenuta, tratteneva la causa in decisione.
§ 1.1 — Il tribunale con la sentenza n. 22824/2019 ha così statuito:
<< 1) in accoglimento della domanda attrice, accerta e dichiara che la ditta individuale ha svolto concorrenza sleale nei confronti della con riguardo all’esercizio per la somministrazione e vendita di alimenti e bevande sito in Roma INDIRIZZO
2) rigetta le altre domande di parte attrice;
3) condanna parte convenuta alle spese di causa in favore della che liquida in € 200,00 per spese vive ed € 5.500,00 per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.
§ 1.2 — A fondamento della decisione, il primo giudice ha posto le seguenti considerazioni:
«L’attrice evidenzia che la ditta ha aperto l’attività senza essere in regola con la normativa autorizzatoria, avendo indebitamente ottenuto l’autorizzazione svolgere l’attività somministrazione e vendita di alimenti c bevande.
Da questo trae che controparte ha agito in modo scorretto, aprendo indebitamente l’attività senza avere i requisiti e sottraendole clienti.
Dagli atti risulta che la nel periodo da aprile 2012 a dicembre 2015 ha operato in locali che avevano la destinazione d’uso quale “ufficio”, che non consentiva l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.
La la sentenza del TAR Lazio n. 11019/2015.
Come confermato dalla circostanza che il signor , dopo tale sentenza, ha presentato una nuova SCIA al fine di continuare ad esercitare l’attività presso gli stessi locali, provvedendo anche a modificare la destinazione d’uso per renderli idonei a ospitare l’attività.
Costituisce quindi un dato oggettivo che il convenuto abbia esercitato per oltre tre anni, da aprile 2012 a dicembre 2015, la propria attività in un locale non idoneo alla somministrazione e al consumo di alimenti e bevande, essendo destinato ad “uso ufficio” La mancanza delle caratteristiche di legge nel locale utilizzato dalla convenuta è circostanza idonea a integrare la fattispecie di concorrenza sleale, avendo la convenuta svolto attività analoga a quella dell’attrice in locali molto vicini (nel medesimo edificio a una distanza di appena 15 metri) tuttavia privi dei requisiti necessari per svolgere l’attività medesima. Nel caso in esame, parte convenuta ha consapevolmente utilizzato locali non idonei alla somministrazione e vendita di alimenti e bevande, che tuttavia le consentivano di aprire l’attività in una posizione assai vicina a quella della “RAGIONE_SOCIALE”.
In questo modo il nuovo esercizio poteva con facilità essere conosciuto dai clienti che frequentavano il bar dell’attrice, così da poterli indurre a frequentare anche il nuovo bar, Esito che non avrebbe potuto ottenere aprendo identica attività in altri locali, in regola con la normativa amministrativa ma distanti dal.
L’avere aperto l’attività in locali non idonei a tale uso, costituisce violazione delle regole di correttezza e lealtà, appunto per avere aperto un esercizio-bar-tavola calda in modo irregolare nelle vicinanze del preesistente.
È poi evidente che i due esercizi sono in concorrenza diretta, fornendo prestazioni analoghe e rivolgendosi alla medesima clientela.
Il convenuto signor contesta la sussistenza di tali circostanze, opponendo, in primo luogo, di avere esercitato la sua attività in perfetta buona fede, avendo , come poi accertato dal Tar Lazio con la ricordata sentenza.
In secondo luogo, eccepisce che lavorava principalmente come “sala mensa” per aziende presenti negli edifici, in forza di specifiche convenzioni, per cui si sarebbe rivolto a una clientela particolare e diversa da quella del Entrambe le eccezioni non trovano conferma negli atti di causa, Infatti, in primo luogo, non è sostenibile che la convenuta abbia agito in buona fede per essere stata ingannata dall’errore del Comune, che ha concesso l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività in locali non idonei, destinati ad uso ufficio. Infatti, la ditta era certamente consapevole che il locale era destinato ad uso ufficio e come tale, non utilizzabile per la somministrazione e la vendita di generi alimentari;
era del resto suo onere informarsi correttamente sulle caratteristiche del locale destinato a ospitare l’attività e accertare la conformità del locale prescelto.
A maggior ragione ove si considerino le diffide indirizzate dalla alla ditta e al Comune, cosa che avrebbe dovuto indurre la ditta convenuta, anche per questo motivo, a verificare l’esatto possesso dei requisiti necessari, accertamento che l’avrebbe necessariamente portata a constatare che invece non li aveva.
In secondo luogo, parte convenuta deduce che la sua attività era rivolta alle aziende presenti negli immobili, per agire quale loro “mensa aziendale” con apposite convenzioni;
per cui si sarebbe rivolta a categorie di clientela e di mercato diverse dai clienti dell’attrice, quindi non in diretta concorrenza con la stessa.
Tuttavia, non ha fornito prova «come le incombeva onere- che la propria attività fosse rivolta unicamente ad alcune specifiche aziende, con esclusione di tutti gli altri possibili clienti, mentre in atti risulta prova opposta.
In proposito, i moduli prodotti dalla convenuta costituiscono semplici proposte commerciali da lei predisposte e dirette alle aziende della zona.
Del resto, tali convenzioni non prevedevano specifici obblighi e impegni a carico delle aziende convenzionate, per cui le prodotte, non valgono quindi a dimostrare che la ditta operasse essenzialmente o unicamente quale “mensa aziendale” rivolta ai soli soggetti convenzionati.
Soprattutto, non risulta che esistesse alcun impedimento o controllo che inibisse a soggetti diversi dai dipendenti delle aziende “convenzionate” di usufruire comunque del servizio.
Anzi, le acquisite prove testimoniali hanno dimostrato non esserci alcun impedimento per la clientela di accedere al bar della ditta , in particolare nessun controllo era effettuato dal servizio di vigilanza interna, destinato a mansioni del tutto diverse.
Invece l’attrice ha provato, anche con la produzione di diversi scontrini fiscali, emessi dalla ditta convenuta e rilasciati a soggetti estranei agli uffici ivi presenti, che l esercitato lo smercio di alimenti e bevande nei confronti di tutti coloro che si presentavano al bancone del suo bar.
Del tutto irrilevante è poi la circostanza che la convenuta non abbia apposto insegne di riconoscimento della sua attività, dato che, nel momento in cui si apre una attività di somministrazione di alimenti e bevande all’interno di un edificio adibito ad uffici, è evidente che la notizia è destinata a diffondersi con rapidità e senza necessità di insegne.
Si conclude che la convenuta ha svolto attività analoga a quella dell’attrice, ovvero la somministrazione e la vendita di alimenti e bevande al pubblico, senza tuttavia avere i requisiti necessari per svolgere l’attività c sebbene fosse nella consapevolezza di questa carenza.
Simile condotta integra la violazione dei principi di correttezza e buona fede che devono guidare l’attività commerciale e integrano un’ipotesi di concorrenza sleale rilevante ai sensi dell’art.2598 n.3 c.c. All’accertamento dell’attività di concorrenza sleale non consegue, nel caso, il divieto di proseguire l’attività, risultando che medio tempore la convenuta ha regolarizzato la propria situazione, presentando nuova SCIA e chiedendo la modificazione della destinazione d’uso del locale.
L’attrice chiede di essere risarcita ricavi ottenuti nel periodo dall’aprile 2012 quando la convenuta iniziò l’attività, fino alla cessione della propria azienda.
La ha indicato di avere subito un danno per i minori incassi pari a E.10.000 mensili a fare data dall’aprile 2012, chiedendo un danno complessivo di €.108.000,00, ancora ribadito nelle conclusioni precisate a verbale d’udienza.
A conferma ha prodotto la propria documentazione contabile (bilanci e registri dei corrispettivi) relativi agli anni dal 2011 al 2015 (documenti depositati con memoria n. 2 ex art. 183 comma 6 e documenti depositati all’udienza del 27 settembre 2017);
Dal deposito dei documenti, evidenzia la diminuzione dei propri incassi per il 2012 dopo l’inizio dell’attività della ditta convenuta e per tutto il 2013.
Per la verità il danno mensile di €.10,.000 non è meglio spiegato, Mentre i minori incassi per gli anni 2012 e 2013 corrispondono alla complessiva somma di €.470.000, certamente superiore al danno richiesto, ma non viene indicato come da questi minori incassi sia accertato il danno stimato in €.10.000 mensili.
Il danno non risulta provato, per plurimi motivi.
In primo luogo, come rileva parte convenuta, non risulta che la avesse questo solo locale commerciale e non anche altri.
Per cui poco significativi sono i dati relativi.
agli incassi mensili, non essendo noto se i minori incassi siano riferiti a questo esercizio ovvero anche ad altri.
Per saperlo sarebbe stato necessario produrre, ad esempio, il registro dei corrispettivi per l’esercizio in oggetto, unico documento idoneo a indicare i ricavi effettivamente prodotti dal punto vendita.
Tuttavia, in atti risultano prodotti i registri relativi agli anni di imposta 2013, 2014 e 2015, non anche i registri dei corrispettivi dell’anno 2012 e degli anni precedenti.
Per cui non è possibile accertare se il punto vendita abbia subito una diminuzione del ricavato e di quale entità, a far data dall’aprile 2012.
In secondo luogo, gli stessi dati evidenziati dagli incassi mensili e annuali sono incerti, dato che indicano minori incassi per , ma incassi di nuovo in aumento per il 2014 sebbene controparte abbia proseguito la propria attività.
Dati, quindi, tra loro contrastanti e di lettura non univoca.
Infatti, il valore dei ricavi delle vendite e delle prestazioni nell’anno 2012 ammonta ad €.1.592.306, nel 2013 al minor valore di €. 1.120.440, ma nel 2014 c’è un nuovo incremento per un valore di € 1.633,223, superiore anche all’anno 2012 nel quale la ditta concorrente ha aperto solo ad aprile.
Questo andamento altalenante degli incassi, in anni contigui, fa dubitare che dipenda dall’apertura del nuovo bar, potendo essere invece legato ad altre ragioni quali.
ad esempio, il mutevole momento storico-economico del Paese.
Deve ancora osservarsi che i minori incassi non si traducono, di per loro, in mancati guadagni per identico importo, occorrendo verificare quale parte degli incassi fosse destinata a coprire i maggiori costì (per esempio per la materia prima somministrata) e quale costituisse effettivo guadagno.
Nulla indica l’attrice, che – come rilevato – nemmeno indica secondo quali criteri abbia determinato un danno mensile di €.10.000.
Infine, si rileva che per l’anno 2013 la indica un decremento dei ricavi pari a €.471.866
rispetto al 2012, mentre l’esercizio del signor ha avuto ricavi per totali £.39.181.
Non sussiste quindi alcuna corrispondenza tra i due dati, mentre, se si ritiene che la ditta convenuta abbia causato uno sviamento della clientela, sarebbe stato logico e ovvio attendersi che il signor avesse ottenuto incassi non inferiori e comunque corrispondenti ai minori incassi della ditta concorrente.
Non sussiste quindi adeguata prova né che ci sia stato un effettivo danno, né di quale entità.
Si rigetta quindi la richiesta di risarcimento ».
§ 2 — Ha proposto appello formulando due motivi di gravame, di seguito illustrati e chiedendo di:
«condannare l’impresa citazione pari ad €. 108.000,00 (centottomila/00), e di quelli ulteriori accertati fino al mese di aprile 2015 (data di cessione in affitto dell’azienda della società attrice a terzi), per l’esercizio di un’attività commerciale in regime di concorrenza sleale, se del caso da liquidarsi in via equitativa, salvo gravame;
– inibire la prosecuzione dell’attività emettendo gli opportuni provvedimenti affinché vengano eliminati gli effetti derivati e quelli che dovessero derivare dalla prosecuzione dell’attività illegittima, illecita o comunque non conforme alle prescrizioni di legge.
In via istruttoria si insiste per l’ammissione della prova testi di cui ai capitoli da 3 a 8 della memoria istruttoria ex art. 183 n. 2 con in testi indicati.
Si chiede altresì, se del caso, disporsi CTU al fine di quantificare il danno successivo alla data della citazione sulla base dei documenti contabili prodotti.
Con vittoria di spese, competenze ed onorari di causa, oltre Iva, Cpa e spese generali.».
§ 2.1 — Ha resistito chiedendo alla Corte nel merito di rigettare l’avverso appello e la contestuale domanda di inibitoria;
in via incidentale formulava due motivi, di seguito illustrati e chiedeva di riformare la pronuncia impugnata limitatamente al capo sub 3) della sentenza, nella parte in cui il Tribunale ha accertato positivamente la sussistenza di ipotesi di concorrenza sleale ex art. 2598 c. 3 c.c. in capo al sig. e, per l’effetto, respingere la domanda di risarcimento dei danni proposta in primo grado.
In via istruttoria si opponeva alla richiesta di ammissione testi per come reiterata genericamente, riportandosi alle controdeduzioni formulate in sede di terza memoria ex art. 184 VI co. c.p.c;
e si opponeva alla richiesta di CTU contabile in quanto chiaramente intesa a supplire e ad integrare inammissibilmente un onere probatorio non assolto in primo grado.
Con il favore delle spese del doppio grado di giudizio.
§ 2.2 — La Corte all’udienza di prima comparizione, constatata la regolarità dell’instaurazione del contraddittorio, rinviava la causa per la precisazione delle conclusioni, poi più volte differita.
La causa, da ultimo, veniva rinviata all’udienza del 31/01/2025 per la precisazione delle conclusioni.
Con decreto del 4 dicembre 2024 veniva disposta la discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c. con assegnazione del termine fino a 30 giorni prima dell’udienza per il deposito di note conclusive.
Hanno depositato note entrambi i difensori che all’odierna udienza precisavano le conclusioni come da verbale e discutevano brevemente la causa che veniva contestualmente decisa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§ 3 — I motivi dell’appello principale.
§ 3.1 — Con il primo motivo, l’appellante censura sotto più profili la sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda risarcitoria connessa all’accertamento della concorrenza sleale.
In primo luogo, lamenta l’omesso esame della documentazione contabile necessaria a dimostrare la riduzione degli incassi, inclusi i registri dei corrispettivi degli anni 2011, 2012, 2013, 2014 e 2015 ed imputa al primo giudice di aver indicato:
<< quale avrebbe dovuto essere lo strumento probatorio attraverso il quale la avrebbe potuto fornire la prova dei minori incassi derivanti dall’attività di concorrenza sleale e li individua nel registro dei corrispettivi per l’esercizio in oggetto, unico documento idoneo ad indicare i ricavi effettivamente prodotti dal punto vendita (…) >>, senza avvedersi che essa parte attrice aveva prodotto i suddetti documenti con gli allegati 17 e 18 al memoria istruttoria ex art. 183 co. 6 c.p.c. secondo termine.
In secondo luogo, l’appellante contesta la motivazione di prime cure nella parte in cui ha ritenuto di attribuire le variazioni degli incassi registrate negli anni 2012 e 2013 al “mutevole momento storico-economico del Paese” all’art. 115 c.p.c. non potendo l’asserito <> costituire un “ fatto notorio”;
contesta la valutazione del primo giudice, secondo cui l’aumento degli incassi nel 2014 sarebbe un dato incompatibile con la riduzione registrata nei due anni precedenti, 2012 e 2013 e sostiene che l’argomento speso dal primo giudice sarebbe illogico e non giustificherebbe il rigetto della domanda ma, semmai la limitazione della liquidazione del danno agli esercizi 2012 e 2013 escludendo il 2014.
In terzo luogo, l’appellante lamenta l’errore in cui sarebbe incorso il primo giudice nell’aver ritenuto che i minori incassi non fossero di per sé sufficienti a dimostrare il danno, richiedendo una precisa quantificazione dei costi e del mancato guadagno.
sostiene, invece, che in un’attività di somministrazione al pubblico è impossibile quantificare con precisione i costi ed i mancati guadagni derivanti dalla concorrenza sleale e che la prova dei minori incassi sia sufficiente a dimostrare l’esistenza del danno, considerando inevitabile la sottrazione di clientela a causa della vicinanza dei due locali.
Confuta, quindi, la decisione del tribunale circa l’insussistenza di un danno evidenziando che la divergenza tra perdite subite dal danneggiato e ricavi percepiti dal danneggiante non sarebbe un elemento sufficiente ad escludere il danno da concorrenza sleale.
Per la quantificazione del danno, l’appellante propone di considerare la differenza tra gli incassi medi mensili del 2011 e quelli del 2012 e 2013, pari a circa 10 mila euro al mese.
In alternativa, propone di considerare come parametro gli incassi di.
L’appellante lamenta, infine, che il tribunale non abbia considerato la possibilità di liquidare il danno in via equitativa, come espressamente richiesto nelle conclusioni di primo grado citando giurisprudenza a supporto della possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa in casi di concorrenza sleale, fattispecie peculiare in cui la quantificazione precisa del danno risulta impossibile.
§ 3.2 — Con il secondo motivo di appello, l’appellante censura il mancato accoglimento della domanda di inibitoria alla prosecuzione dell’attività di evidenziando che:
<>>Ribadisce che la ditta svolgeva un’attività consistente nella somministrazione di alimenti e bevande al pubblico mentre la SCIA presentata da era utilizzabile solo per un’attività di “mensa aziendale”.
§ 4 — I motivi dell’appello incidentale.
§ 4.1 — Con il primo motivo lamenta che la questione della non conformità della destinazione d’uso del locale non risultava specificamente dedotta nell’atto di citazione di ma solo accennata tardivamente in una memoria successiva.
Considera quindi erroneo che il Tribunale si sia pronunciato su questo aspetto, che ha poi costituito la base per l’accertamento di concorrenza sleale.
In ogni caso, sostiene che la mera violazione di una norma pubblicistica – in questo caso la mancanza del cambio di destinazione d’uso del locale – non sia sufficiente a configurare un atto di concorrenza sleale.
Cita giurisprudenza a supporto della sua tesi, secondo cui la violazione di norme pubblicistiche può costituire solo un antecedente indiretto di un atto di concorrenza sleale.
Ribadisce che la sua attività di somministrazione si rivolgeva principalmente ai dipendenti degli uffici presenti nello stabile, configurandosi come una mensa aziendale e non come un bar aperto al pubblico come affermato da Sostiene che la sua attività non fosse idonea a sviare la clientela di § 4.2 — Con il secondo motivo contesta il fatto che il Tribunale non abbia considerato adeguatamente gli accertamenti effettuati dalle autorità locali (Polizia Municipale e amministrazione comunale), che avrebbero dimostrato che l’attività da lui gestita non era aperta al pubblico, ma limitata a una mensa aziendale per le aziende situate nell’edificio. Evidenzia, inoltre, l’errore in cui sarebbe incorso il tribunale nel ritenere sussistente una situazione di parità e di diretta concorrenzialità con il nonostante il non avesse visibilità e accessibilità dalla via pubblica e non fosse pubblicizzato.
Infine, contesta la valutazione del Tribunale sulla sua buona fede sottolineando che la Scia era stata compilata correttamente, secondo le direttive comunali e che non c’era alcun intento fraudolento o di elusione delle normative.
Osserva la Corte che va per pregiudizialità esaminato l’appello incidentale risultando impugnata la statuizione di accoglimento della domanda in punto di affermazione del compimento di attività di concorrenza sleale che, ove accolta, comporterebbe l’assorbimento dei motivi di appello principale.
§ 5 — L’analisi dell’appello incidentale.
I motivi vanno esaminati congiuntamente attesa la loro connessione.
§ 5.1
— Osserva la Corte, in via preliminare, che l’art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., consente alle parti di precisare e specificare meglio i fatti costitutivi della domanda o delle eccezioni già introdotte nel processo.
Tanto consente alla parte di poter svolgere ed ulteriormente argomentare in relazione agli elementi già impliciti nelle deduzioni iniziali.
RAGIONE_SOCIALE ha, infatti, affermato che:
“Non costituisce mutatio libelli ma semplice emendatio l’allegazione di ulteriori elementi di fatto o di diritto, volti a specificare o integrare i fatti Part dedotti, senza alterare l’oggetto della controversia o la causa petendi” (Cass. 3461/2016; Cass. 693/2013).
Tanto premesso va evidenziato che, nel caso di specie, la domanda originaria verteva sull’illegittimità dell’attività della ditta , a causa della mancanza dei requisiti professionali, di una classificazione Ateco non corretta, di una SCIA non conforme all’attività svolta e del mancato rispetto delle norme sulla somministrazione di alimenti e bevande.
Nella memoria ex art. 183 comma VI n. 1 (pag. 10) l’attrice evidenzia anche che i locali in cui la ditta svolgeva l’attività non sarebbero stati idonei allo scopo in quanto risultavano avere una destinazione d’uso ufficio (cat. A10), mentre l’attività svolta era di mensa per la somministrazione di alimenti e bevande rientrante nella categoria catastale Ebbene, l’argomento relativo alla destinazione d’uso dei locali non introduce un nuovo tema, ma approfondisce l’allegazione delle violazioni normative già descritte nell’atto di citazione ed è finalizzata a supportare il quadro probatorio senza alterare l’oggetto della domanda. Pertanto, rientra nei limiti delle precisazioni consentite ai sensi dell’art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c. § 5.2 — L’apertura di un locale senza i necessari permessi configura un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598, n. 3, del Codice Civile che vieta l’utilizzo di “mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha operato una distinzione tra norme che sono rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, la cui violazione implica sempre un atto contrario ai principi di correttezza professionale e, dunque, di concorrenza sleale e norme che impongono dei costi alle imprese operanti sul mercato, la cui violazione può costituire l’antecedente di un atto di concorrenza, fonte di danno concorrenziale, in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale (Cass. 12049/2023; Cass. 7676/2020). In particolare, le norme che pongono limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale hanno come obiettivo principale la regolamentazione dell’attività stessa, spesso per garantire il rispetto di standard di sicurezza, urbanistici o ambientali.
La loro violazione può configurare concorrenza sleale, poiché si traduce in un comportamento scorretto che altera le condizioni di mercato e svantaggia i concorrenti rispettosi delle regole.
Tra le norme che impongono costi operativi, invece, rientrano le norme come quelle fiscali, igienico-sanitarie o amministrative, che non vietano l’attività in sé, ma impongono alle imprese determinati adempimenti per il suo esercizio.
La loro violazione non costituisce necessariamente concorrenza sleale, a meno che non vi sia un uso distorto o fraudolento di tali violazioni per ottenere un vantaggio competitivo.
La giurisprudenza tende a considerare violazioni come quella della destinazione d’uso dei locali più vicine alle norme che pongono limiti all’attività imprenditoriale, dato che la loro funzione è quella di regolare il tipo di attività che può essere svolta in un determinato spazio.
Pertanto, l’utilizzo di locali con una destinazione d’uso non conforme all’attività effettivamente svolta può essere considerato un atto di concorrenza sleale se ed in quanto viola norme che pongono limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale e altera le condizioni di mercato a discapito dei concorrenti che operano nel rispetto delle regole.
Nel caso di specie, la violazione di questa norma pubblicistica da parte della ditta ha avuto un impatto diretto sulla concorrenza, in quanto ha creato un vantaggio competitivo sleale rispetto a che operava nel rispetto delle normative.
la Corte che la sentenza del tribunale va confermata nella parte in cui ha accertato una situazione di concorrenza diretta tra i due esercizi, valutando la prova documentale ed il contenuto delle testimonianze assunte.
L’accertamento è rilevante in quanto, come già ricordato dal tribunale:
“In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno (Cass. 21586/2023; Cass. 12364/2018; Cass. 22332/2014)”.
Nel caso di specie, le due attività si trovano nello stesso complesso immobiliare e sono poste a 15 metri di distanza, offrono servizi simili di somministrazione di alimenti e bevande ha sede in INDIRIZZO la ditta opera e all’interno dello stesso complesso immobiliare, con ingresso secondario e non affaccia sulla pubblica via).
La clientela potenziale è costituita sia dal personale impiegatizio che lavora nel complesso immobiliare, che dagli avventori che transitano su INDIRIZZO
ha la propria insegna, la ditta non ha insegna.
In concreto è emerso, in esito all’istruttoria, che entrambe le attività potenzialmente si rivolgono solo parzialmente alla stessa base di consumatori (gli impiegati delle società che hanno sede nel complesso in cui son collocati i locali) e che hanno lo stesso bisogno di mercato, dovendosi ragionevolmente escludere l’accesso indiscriminato del pubblico nel locale di posto in proprietà privata con servizio di parziale clientela comune suggeriscono che ha agito in modo da danneggiare l’attività di violando le regole della leale concorrenza avendo potuto operare, inizialmente, senza essere in regola con la normativa autorizzatoria, avendo esercitato attività di vendita e somministrazione di alimenti e bevande in locale uso ufficio. Sebbene abbia cercato di giustificare la sua attività, le evidenze suggeriscono che la situazione integri una fattispecie di concorrenza sleale.
L’appello incidentale va, dunque, rigettato.
§ 6 — L’analisi dell’appello principale.
§ 6.1 — Il primo motivo, pur parzialmente fondato, non consente di riformare la pronuncia del Tribunale nella parte in cui ha ritenuto che le prove fornite da non fossero complessivamente sufficienti per dimostrare l’esistenza del danno asseritamente subito a causa della concorrenza sleale e detto capo di sentenza va, quindi, confermato sia pure con diversa motivazione.
Va evidenziato che parte attrice con la memoria ex art. 183 co. 6 c.p.c. secondo termine ha depositato – ad integrazione della documentazione prodotta – agli allegati 17, 18 e 19:
il prospetto dei ricavi mensili dell’esercizio di INDIRIZZO della con analisi e raffronto tra gli esercizi 2011 e 2012 ( all. 17);
la copia del registro corrispettivi gennaio- dicembre 2011 dell’ esercizio di INDIRIZZO della ( all. 18) e la copia del registro corrispettivi gennaio – dicembre 2012 del medesimo esercizio ( all. 19) e quale doc. 20 copia del bilancio di esercizio al 31.1.2.2012 della Pertanto, è frutto di una svista la motivazione di prime cure nella parte in cui ha sostenuto che si fosse limitata a depositare i registri dei corrispettivi relativi agli anni 2013, 2014 e 2015, senza includere i dati la propria attività, né quelli dei periodi precedenti, per trarne la conseguenza che, in ragione di detta mancata produzione documentale, fosse precluso il confronto del volume d’affari prima e dopo l’avvio dell’attività commerciale concorrente. Diversamente da quanto opinato dal primo giudice non sussiste detta specifica lacuna probatoria sicché deve operarsi il confronto tra il fatturato dell’appellante prima e dopo l’ingresso sul mercato del concorrente, elemento rilevante ma non l’unico, come riconosciuto anche dal primo giudice, da cui muovere per accertare la sussistenza del danno.
ha iniziato l’attività nel mese di aprile 2012.
Il registro dei corrispettivi per il mese di: gennaio 2011 riporta € 33.424,00 e 2012 € 35.948,00 febbraio 2011riporta € 42.869,00 e 2012 € 26.844,00 marzo 2011 riporta € 47.805,00 e 2012 € 31.126,00 aprile 2011 riporta € 42.231,00 e 2012 € 27.565,00 maggio 2011 riporta € 39.852,00 e 2012 € 28.671,00 giugno 2011 riporta € 20.625,00 e 2012 €22.348,00 luglio 2011 riporta € 32.312,00 e 2012 € 25.729,00 agosto 2011 riporta € 0,00 e 2012 € 14.914,00 settembre 2011 riporta € 37.044,00 e 2012 € 24.409,00 ottobre 2011 riporta € 44.073,00 e 2012 € 27.589,00 novembre 2011 riporta € 46.670,00 e 2012 € 58.838,00 dicembre 2011 riporta € 34.159,00 e 2012 € 64.774,00 a chiarimento delle oscillazioni del volume d’affari, evidenzia che nell’anno 2011 l’attività di tavola calda era stata sospesa per 20 giorni a luglio, per l’intero mese di agosto e per 5 giorni di settembre per lavori, mentre nel 2012 il minor fatturato del mese di febbraio andava posto in correlazione con il fatto che alcuni uffici erano sfitti e l’incremento del nuovamente affittati; che i maggiori introiti di novembre e dicembre erano dovuti alla fornitura di pasticceria extra per locali a Tanto premesso si osserva che negli scritti conclusivi di primo grado l’attrice ha limitato la richiesta di accertamento dell’esistenza del danno e la relativa quantificazione al periodo aprile 2012- dicembre 2013 avendo evidenziato che grazie:
<< alle proprie capacità e la richiesta di forniture al di fuori del locale commerciale >> era riuscita a risanare nell’anno 2014 la diminuzione degli incassi mensili, pur avendo poi precisato le conclusioni richiamando quelle trascritte in citazione.
Nello specifico deduce, a titolo esemplificativo:
<< mediante il raffronto dei ricavi dei singoli mesi ottenuti dalla e riportati nel registro dei corrispettivi, è possibile osservare la rilevante diminuzione degli incassi nel 2012 e per tutto il 2013.
A titolo esemplificativo può osservarsi che per il mese di aprile nel 2011 (quindi prima dell’apertura del bar di ) i ricavi erano pari ad €. 42.231,00, nell’aprile 2012 (ovvero quando l’ apriva l’attività di INDIRIZZO i ricavi si riducevano drasticamente ad €. 27.565,00, e nel 2013 ad €. 23.160,00, per poi aumentare e ritornare agli standard precedenti nel 2014, con degli incassi pari ad €. 48.852,00.
Stesso discorso per quanto concerne il mese di maggio:
nel 2011 i ricavi venivano calcolati in una somma pari ad €. 39.852,00, per poi nel 2012 e 2013 diminuire rispettivamente ad €. 28.671,00 ed €. 28.410,00, ed infine nel 2014 assestarsi ad €. 41.112,00, ovvero agli stessi valori riscontrati prima dell’apertura dell’esercizio commerciale della ditta.
>> Ritiene il Collegio che l’andamento del fatturato dall’anno 2011 all’anno 2012 non consenta di ricondurre la diminuzione degli incassi alla sola attività concorrenziale posta in essere da a partire da aprile 2012.
Basti osservare che nel mese di febbraio dei due anni in raffronto – e quando Parte risultando € 42.869,00 nel 2011 a fronte di € 26.844,00 nel 2012 che l’attore spiega, genericamente, allegando che nel 2012 alcuni uffici erano sfitti.
Anche il raffronto del mese di maggio non è chiarificatore poiché l’importo di € 39.852,00 del 2011 decresce a € 28.671,00 nel 2012 ed spiega questa oscillazione rispetto al mese di febbraio 2012 (in cui era di € 26.844,00) evidenziando che taluni uffici venivano nuovamente affittati.
Osserva la Corte che, in disparte dal rilievo che la circostanza non è verificabile (nemmeno con le richieste istruttorie riproposte nel presente grado e di cui meglio infra), emerge il dato che il flusso di clienti di era dato oltre che dagli avventori abituali o occasionali – trattandosi di locale con accesso diretto dalla pubblica via – anche dal personale impiegatizio che lavorava presso i numerosi uffici dello stabile di INDIRIZZO nel quale nel 2012 erano presenti sei società [cfr. secondo sopralluogo del 5 novembre 2012 della Polizia Locale di Roma Capitale: piano interrato;
piano terra (..) ]
e, come ammesso dalla stessa il fatturato aveva subito sensibili diminuzioni allorché taluni di detti uffici erano stati chiusi.
Il mero dato che alla struttura commerciale del convenuto abbiano potuto avere accesso anche clienti occasionali e non soltanto i dipendenti delle aziende operanti nell’edificio – elemento emerso in sede di istruttoria per mezzo della produzione documentale degli scontrini fiscali emessi e del contenuto della deposizione testimoniale di , di – non costituisce un indice sicuro di concorrenza potendosi evincere dalle testimonianze suddette e da quella resa da addetto alla vigilanza, che tanto poteva accadere, ma di fatto era accaduto occasionalmente essendo il compendio immobiliare servito dalla sorveglianza preposta ad allontanare le persone che non fossero dipendenti degli uffici. proposito si osserva che , dipendente della ha dichiarato:
<< con riferimento agli scontrini che mi vengono mostrati posso dire che nel novembre 2012 ho accompagnato la mia amica di cui non ricordo il cognome nel bar del signor sito all’interno di INDIRIZZO
Io sono rimasta sulla porta di ingresso del bar e ho visto la mia amica consumare una volta un caffè ed una volta un tramezzino.
Nel luglio 2013 ho accompagnato presso lo stesso bar il signor anche in quella occasione sono rimasta sulla porta ed ho visto il signor COGNOME
Presumibilmente gli scontrini che mi vengono mostrati si riferiscono alle consumazioni di cui sopra (…) molte persone estranee agli uffici ubicati nello stabile di INDIRIZZO sono entrate senza alcun controllo ed hanno potuto accedere al bar del sig. (…)il posto di vigilanza è successivo più precisamente è alle spalle del bar;
quindi, per accedere al bar non si passa da nessun servizio di vigilanza.
Mi è capitato più volte di stazionare davanti all’ingresso di INDIRIZZO e di vedere diverse persone entrare per poi accedere al bar.
>> Il teste dipendente di ha dichiarato di aver svolto il servizio di vigilanza per tutto l’anno 2012;
ha compiutamente descritto i luoghi e per quel che qui rileva ha dichiarato:
<< (…) tendenzialmente escludo che persone estranee agli uffici dell’edificio potessero entrare per accedere al bar del signor.
Preciso che il mio servizio consisteva nel chiedere alle persone che entravano dove erano dirette.
Mi è capitato di impedire l’accesso ad alcune persone che erano dirette al bar senza avere alcun collegamento con gli uffici dell’edificio.
>> L’istruttoria svolta restituisce la circostanza che aveva avuto la possibilità di avviare una nuova attività commerciale praticando prezzi concorrenziali – offriva il caffè ad 0,65 centesimi – ma l’attività, aperta in essenzialmente ai dipendenti degli uffici del complesso INDIRIZZO.
Essa non era pubblicizzata né sulla pubblica via né nel cortile interno.
L’attività di si rivolgeva ad una clientela composita e, come visto, forniva servizi di pasticceria per eventi o a società (come dichiarato per l’anno 2014 in favore di locali di ).
L’analisi dei dati del fatturato delle annualità 2011- 2012 e 2013 restituisce il dato di fluttuazioni anche sensibili, ma non il dato di un decremento costante ed univoco atto a far sospettare che una parte della clientela di sia stata sistematicamente intercettata dall’attività concorrenziale di.
Tanto non è provato né con riguardo ai dipendenti dei numerosi uffici del complesso COGNOME (che, come visto, non hanno operato nel periodo in esame con continuità essendo taluni locali rimasti sfitti per tempo imprecisato), né tantomeno con riguardo agli avventori occasionali in quanto il complesso privato si era tutelato con un servizio di vigilanza attivo volto ad impedire l’accesso a chi non avesse “un collegamento “ con gli uffici.
Risulta accertato, come evidenziato dal primo giudice, che la ditta nell’anno 2013 ha avuto ricavi complessivi molto modesti (di € 39.181,00 ) dato che, a sua volta, non può essere inteso quale prova certa ed univoca che si tratti del fatturato sottratto ad essendo stato provato nel corso del giudizio che la ditta si rivolgeva ai soli dipendenti di talune ditte con le quali aveva stipulato convenzione di servizio mensa, mentre non risulta provato che quelle stesse ditte avessero stipulato, per le annualità precedenti, identico contratto con la lamenta un decremento di ricavi di € 10.000,00 al mese da cui si discosta grandemente il dato dei ricavi annuali della ditta , tanto da indurre l’appellante a dubitare della lealtà fiscale di quest’ultima ditta, circostanza rimasta tuttavia indimostrata. Nemmeno la prova testimoniale richiesta nel presente grado può colmare Parte ex art. 183 co. 6 secondo termine
sono formulati in modo oltremodo generico, non indicano i mesi dell’anno in cui detti eventi sarebbe accaduti (elemento di assoluta rilevanza posto che, come emerso, l’attività di taluni non meglio precisati uffici era cessata) e non mirano a dimostrare che la clientela di rappresentata dai dipendenti delle società- vi è prova vi fosse una convenzione con – si sia rivolta per la somministrazione dei pasti a punto di ristoro dell I capitoli nn. 5, 6 e 7 (riguardano i mesi estivi di chiusura per lavori) non sono contestati, l’ottavo capitolo è irrilevante (<INDIRIZZO Caracalla Roma>>) Osserva conclusivamente la Corte che i registri prodotti, pur utili a documentare le variazioni economiche dell’attività, non sono tuttavia sufficienti a dimostrare che tali variazioni siano imputabili esclusivamente all’attività della ditta ; la riduzione del fatturato lamentata non può essere verificata né quantificata in assenza di una base di confronto affidabile quale, in primo luogo, l’accertamento anche approssimativo del numero di dipendenti delle società che avevano sede in quello stabile che, mese per mese, effettuavano consumazioni presso e che poi, per effetto della convenzione stipulata dalle società con , avevano utilizzato il servizio mensa offerto da quest’ultimo.
Va invece escluso che vi possa essere stato un afflusso indiscriminato di clienti occasionali verso il bar trattandosi di locale posto in proprietà privata, tutelato da servizio di guardiania, non visibile dalla strada e privo di insegne.
Infine, risulta documentalmente provato che i ricavi annui di sono risultati pari ad € 39.181,00 e l’appellante principale non ha fornito, su dette basi documentali, una dimostrazione convincente del metodo utilizzato per quantificare il suo danno, stimato in € 10.000 mensili.
Parte , quindi, considerato che l’onere della prova del danno e del nesso causale gravava sull’attore ed ora sull’appellante principale, il quale avrebbe dovuto fornire documentazione completa e coerente a supporto delle proprie affermazioni, oltre che formulare un capitolato di prova specifico.
La mancanza di detti elementi di prova restituisce un quadro di fluttuazioni economiche negative per la ditta che, tuttavia, non può ricondursi unicamente all’apertura dell’attività di in quanto la semplice esistenza dell’attività di detta ditta non può costituire prova sufficiente dell’esistenza del danno per In definitiva, in mancanza di prova certa circa l’esistenza di un pregiudizio economico del quale si reclama il risarcimento e del nesso di causalità, come correttamente ritenuto dal giudice di prime cure, non può invocarsi la liquidazione equitativa del danno che, ai sensi dell’art. 1226 c.c., richiede pur sempre la prova, anche presuntiva, della sua reale esistenza (tra le tante: Cass. n. 8941/2022, n. 2831/2021 e 15585/2007). § 6.2 — Quanto al secondo motivo, occorre in questa sede evidenziare che il Tribunale ha respinto la domanda avendo evidenziato che medio tempore il convenuto aveva presentato una nuova Scia, regolarizzando la propria posizione e chiedendo la modificazione della destinazione d’uso del locale.
In appello la ditta ha dichiarato di aver cessato l’attività a far data dal 31 dicembre 2019 per “chiusura definitiva “ (cfr. doc. 1 fascicolo secondo grado appellata), rendendo di fatto priva di oggetto l’inibitoria nel presente grado di giudizio (proposizione dell’appello in data 10 dicembre 2019 udienza prima comparizione 5 maggio 2020).
La documentazione è contestata da controparte avendo l’appellante dedotto che la ditta non è affatto cessata, ma risulta semplicemente trasferita da al fratello che continua ad esercitarla nei medesimi locali.
premesso osserva la Corte che all’udienza del 19 novembre 2013 l’avv.to COGNOME rinunciava all’istanza di inibitoria:
<< L’avv.to COGNOME rinuncia all’istanza di inibitoria promossa per una più sollecita definizione del presente giudizio>>.
Va poi dato atto che altro fatto incontestato è rappresentato dal fatto che ha affittato l’azienda con contratto del 28 aprile 2015 ad La motivazione di prime cure, che ha avuto riguardo alla verifica della sola posizione della ditta per valorizzare il dato che essa, nelle more, aveva regolarizzato la propria iniziale posizione, presentando una nuova Scia e chiedendo la modificazione della destinazione d’uso del locale, va confermata, trattandosi di dati veritieri ed obiettivi, ed integrata con il rilievo che la aveva rinunciato alla domanda ed affittato l’azienda. L’appello principale va, dunque, rigettato.
§ 7 — Le spese di lite.
Le spese di lite di questo grado attesa la soccombenza dell’appellante principale e dell’appellante incidentale vanno compensate tra le parti.
§ 8 – Il rigetto dell’appello principale e dell’appello incidentale comporta la declaratoria, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.p.r. n. 115/2002, dell’obbligo dell’appellante di pagare l’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’appello, se dovuto, restando demandate in sede amministrativa le verifiche sull’effettiva sussistenza dell’obbligo di pagamento (cfr. Cass. n. 26907/2018, Cass. n. 13055/2018).
PQM
La Corte, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da nei confronti di quale titolare dell’omonima ditta nonché sull’appello incidentale proposto da quest’ultimo contro la sentenza [… . 22824/2019 del Tribunale di Roma pubblicata in data 27/11/2019 ogni diversa istanza, deduzione o eccezione disattesa, così provvede:
rigetta l’appello principale e l’appello incidentale;
compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio;
dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, DPR 115/2002 per porre a carico dell’appellante e dell’appellante incidentale l’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’appello, se dovuto.
Roma 31 gennaio 2025
Il Consigliere est. Il Presidente dott.ssa NOME COGNOME dott.ssa NOME COGNOME
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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