Nel caso esaminato, la Corte di Appello, dopo aver dato atto che le parti avevano individuato il bene, tanto nel preliminare che nel definitivo, con riferimento alle sue caratteristiche ed alle planimetrie, ha affermato che l’indicazione dell’estensione del bene stesso avesse valore meramente indicativo, trattandosi comunque di vendita a corpo e non a misura, ed avendo le parti inteso indicare la superficie commerciale del bene compravenduto.
Inoltre, la Corte di Appello di Bologna ha ritenuto che il rimedio previsto dall’articolo 1538 c.c., si applicherebbe soltanto all’ipotesi in cui una delle parti venga a conoscenza, in epoca successiva alla vendita, della minor consistenza del bene venduto; poiché nel caso di specie le parti, dopo aver indicato nel contratto preliminare di compravendita le misure del cespite di cui è causa, avevano comunque stipulato il definitivo, ciò dimostrerebbe – secondo la Corte di merito – il loro comune intento di dar corso al progetto negoziale, “… rinunciando a sollevare eccezioni sulla non congruità del prezzo ed a richiedere la sua eventuale riduzione”.
In realtà, come chiarito dal ricorso e dalle memorie prodotte da parte ricorrente, che riportano in modo specifico le clausole degli accordi intervenuti tra le parti (peraltro allegati sia agli atti del giudizio di merito che al fascicolo del presente giudizio), nel caso di specie l’immobile era stato individuato, tanto nel contratto preliminare che nel contratto definitivo, non soltanto in relazione alle sue caratteristiche ed ai dati catastali, ma anche con espressa indicazione della sua consistenza e rinvio ad una planimetria descrittiva.
In particolare, il bene risulta descritto, in ambedue i documenti negoziali, come un ufficio di mq. 400 di superficie commerciale, corrispondenti a mq. 372 di superficie utile, con annessi autorimessa di mq. 12,50, cantina di mq. 8 e lastrico solare adiacente (cfr. pagg. 5 e s. del contratto preliminare del 25.10.2001, rep., racc., nonché pagg. 7 e s. del contratto definitivo del 9.7.2003, rep., racc.).
La Corte di Cassazione non ha ritenuto, dunque, condivisibile l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l’indicazione della superficie del cespite oggetto della compravendita avrebbe contenuto meramente indicativo, in quanto riferibile alla sola superficie commerciale, e non a quella utile.
Al contrario, la descrizione contenuta nelle due pattuizioni, preliminare e definitiva, appena richiamate, fa espresso riferimento, quanto all’immobile principale adibito ad ufficio, sia alla superficie commerciale (400 mq.) sia a quella utile (372 mq.).
La volontà delle parti, dunque, è sempre stata quella di negoziare il medesimo bene, identificato come anzidetto; non è, di conseguenza, possibile ricavare, dalla sola circostanza dell’avvenuta stipulazione del contratto definitivo, una intenzione diversa da quella espressa nel preliminare, espressamente confermata anche in sede di rogito di compravendita.
Proprio perché le parti hanno confermato, nel definitivo, la medesima descrizione del bene già contenuta nel contratto preliminare, la stipulazione del primo non implica alcuna modificazione dell’originario intento negoziale, ma – al contrario – lo conferma, e dimostra dunque che l’oggetto della compravendita intervenuta era un bene immobile di estensione commerciale pari a 400 mq., corrispondenti ad una superficie utile di mq. 372, con relative pertinenze ed annessi.
Alla fattispecie, di conseguenza, si applica il rimedio previsto dall’articolo 1538 c.c., secondo cui “Nei casi in cui il prezzo è determinato in relazione al corpo dell’immobile e non alla sua misura, sebbene questa sia stata indicate, non si fa luogo a diminuzione o a supplemento di prezzo, salvo che la misura reale sia inferiore o superiore di un ventesimo rispetto a quella indicata nel contratto”.
Esso, infatti, presuppone che le parti abbiano espressamente indicato, nell’ambito di un contratto di compravendita “a corpo”, la misura del bene compravenduto, appunto come è accaduto nel caso di specie.
Ciò posto, è necessario ripercorrere brevemente l’interpretazione che, della disposizione appena richiamata, è stata fornita dalla Suprema Corte.
In diversi precedenti si è affermato che “Anche nella vendita immobiliare “a corpo”, la menzione nel contratto della misura dell’immobile costituisce, nella previsione dell’articolo 1538 c.c., un elemento cui la norma stessa, ricorrendo determinati presupposti di carattere oggettivo (misura reale del bene inferiore o superiore di un ventesimo rispetto a quella indicata in contratto), attribuisce importanza al fine della possibilità di chiedere la rettifica del prezzo, che può essere ritenuta esclusa solo nel caso in cui, dalla interpretazione del contratto, risulti che le parti abbiano inteso derogare alla norma medesima, escludendone l’applicabilità, per avere esse considerato irrilevante del tutto l’effettiva estensione dell’immobile, quale che essa sia” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11793 del 19/05/2006; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7238 del 26/06/1995 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7594 del 09/07/1991).
L’esclusione della clausola legale di cui all’articolo 1538 c.c., in presenza di contratto di compravendita “a corpo” contenente l’indicazione della misura del bene compravenduto, presupporrebbe dunque la prova di un’esplicita pattuizione tra le parti.
In altra occasione, invece, questa Corte ha affermato che “Ai sensi dell’articolo 1538 c.c., nella vendita a corpo – a differenza di quella a misura disciplinata dall’articolo 1537 c.c. – il prezzo pattuito è determinato con riguardo all’immobile nella sua entità globale indipendentemente dalle effettive dimensioni, salvo che la sua misura reale sia inferiore o superiore di un ventesimo a quella indicata in contratto, sicché l’estensione del fondo, ancorché sia stata dalle parti indicata in contratto, assume rilevanza soltanto ai fini della identificazione del bene effettivamente venduto, che va compiuta attraverso l’interpretazione secondo i canoni legali della volontà negoziale” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19600 del 29/09/2004).
Secondo questa ipotesi ricostruttiva, parzialmente divergente da quella seguita dall’orientamento prevalente, l’operatività del rimedio di cui all’articolo 1538 c.c., potrebbe essere esclusa anche in assenza di specifica pattuizione delle parti, all’esito del procedimento interpretativo del contratto e della volontà dei paciscenti, da condurre nel rispetto dei criteri generali di cui all’articolo 1362 c.c. e ss..
Infine, in altra fattispecie si è affermato che “Nella vendita “a corpo” il prezzo è stabilito in relazione all’entità globale del bene indipendentemente dalle sue dimensioni reali, sicché non si procede a diminuzione salvo che la misura reale sia inferiore di un ventesimo rispetto a quella precisata nel contratto, che determina il venir meno della presunzione di indifferenza delle parti rispetto al minor valore dell’immobile e l’applicazione delle ordinarie regole di riduzione del corrispettivo in caso di non corrispondenza tra qualità promesse e cosa trasferita” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18263 del 17/09/2015).
Secondo questa terza ipotesi interpretativa, si configurerebbe una presunzione di indifferenza della divergenza quantitativa del bene oggetto del progetto negoziale, che sarebbe superata dalla dimostrazione dell’entità di detta divergenza (maggiore di un ventesimo rispetto alla misura indicata nel contratto).
Dall’adesione a ciascuna delle tre opzioni interpretative derivano conseguenze in relazione alle caratteristiche, alla portata ed al funzionamento dello specifico rimedio di cui all’articolo 1538 c.c., comma 1, certamente applicabile esclusivamente in presenza di un contratto di compravendita “a corpo” contenente l’espressa indicazione della misura del bene compravenduto.
La prima ipotesi, infatti, presuppone che la clausola di cui all’articolo 1538 c.c., comma 1, si applichi sempre, a meno che le parti ne abbiano escluso espressamente la vigenza.
La seconda ipotesi, invece, demanda al giudice di merito l’interpretazione dell’effettiva volontà delle parti, da condurre nel rispetto dei principi generali, ed ammette la possibilità di escludere la vigenza della clausola legale in esame anche in assenza di espressa pattuizione dei paciscenti in tal senso.
La terza, infine, fa derivare l’applicabilità del rimedio di cui si discute dalla semplice verifica dell’esistenza di una divergenza quantitative superiore ad un ventesimo di quanto era stato pattuito tra le parti.
La Suprema Corte ha ritenuto opportuno dare continuità alla prima tesi, anche in ragione della sua prevalenza rispetto alle altre due.
Essa, infatti, da un lato assicura la precisa perimetrazione del rimedio in esame, limitato ai soli casi in cui la vendita sia conclusa “a corpo” con espressa indicazione della misura del bene compravenduto, e dunque con estrinsecazione della volontà delle parti di negoziare proprio un bene dotato delle caratteristiche quantitative indicate in contratto.
Dall’altro lato, valorizza la volontà delle parti, desumibile -appunto- dall’indicazione della misura del bene, ma lascia alle stesse la facoltà di escludere l’efficacia della norma in esame, mediante inserzione di esplicita clausola nel loro regolamento negoziale.
La seconda ipotesi, invece, non assicura analoga certezza nella perimetrazione dell’applicabilità del rimedio in esame, poiché fa confluire la verifica dell’intenzione delle parti di assoggettare il loro regolamento negoziale al rimedio di cui all’articolo 1538 c.c., comma 1, nell’ambito del procedimento di interpretazione del contratto e di ricostruzione della volontà delle parti stesse.
Così argomentando, la circostanza che queste ultime, nell’ambito di un contratto di vendita “a corpo”, abbiano espressamente indicato la misura del bene negoziato non implica l’automatica applicazione, a quella pattuizione, della norma di cui anzidetto.
La terza opzione interpretativa, d’altro canto, sconfina in un eccessivo rigore, nella parte in cui afferma che l’applicazione del rimedio di cui all’articolo 1538 c.c., comma 1, deriverebbe dalla semplice verifica dell’esistenza di una divergenza superiore ad un ventesimo della misura pattuita tra le parti.
Anche perché, nel momento in cui si postula che la norma in esame si applica soltanto in presenza di contratto “a corpo” nel cui ambito le parti abbiano indicato la misura del bene compravenduto, è evidente che, oltre al presupposto quantitativo sopra indicato (rappresentato dal superamento della soglia di 1/20 della misura pattuita), debba sussistere anche una manifestazione di volontà dei paciscenti.
In definitiva, va affermato il seguente principio di diritto:
Qualora le parti concludano un contratto di compravendita “a corpo” indicando, nell’ambito di esso, la misura del bene compravenduto, si applica il rimedio di cui all’articolo 1538 c.c., comma 1, in presenza di una divergenza quantitativa della misura del bene maggiore di un ventesimo di quella indicata nel contratto.
Resta salva la facoltà delle parti di escludere l’efficacia della norma dianzi richiamata, mediante specifica clausola negoziale, pur in presenza dei requisiti previsti per la sua applicabilità.
Da quanto esposto deriva che nel caso di specie, in presenza di specifica indicazione della misura del bene nel contratto di vendita “a corpo” ed in assenza di prova di un accordo, esplicito e non equivoco, tra le parti, finalizzato alla conservazione del progetto negoziale nonostante la riscontrata difformità della cosa venduta in misura superiore ad un ventesimo di quanto pattuito, la Corte di Appello di Bologna ha errato nell’affermare che la stipulazione del contratto definitivo implicherebbe di per sé rinuncia ad avvalersi del rimedio specifico di cui all’articolo 1538 c.c., comma 1.
Sul punto, peraltro, va ribadito l’ulteriore principio, secondo cui In tema di vendita immobiliare “a corpo”, l’articolo 1538 c.c., comma 1, risponde alla necessità di ripristinare l’equilibrio delle prestazioni quale in concreto fissato dalle parti e, tuttavia, pregiudicato dalla sperequazione emersa dopo la stipula.
Pertanto, la revisione del prezzo non deve seguire il criterio del valore di mercato (che si sovrapporrebbe all’equilibrio contrattuale raggiunto dai contraenti), né il criterio proporzionale “secco” (che cancellerebbe la volontà delle parti di vendere “a corpo”, anziché “a misura”), dovendosi applicare, invece, un criterio proporzionale “corretto”, che prescinda dall’esatta misurazione del bene, entro l’ambito per il quale è esclusa la revisione ex articolo 1538 c.c.” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19890 del 29/08/2013).
Ove, infatti, il giudice di merito seguisse, nella revisione del prezzo pattuito tra le parti, il criterio del valore di mercato o il valore proporzionale, finirebbe per sovrapporsi alla volontà delle parti, trasformando di fatto la vendita da “a corpo” in vendita “a misura”.
In altri termini, il procedimento interpretativo devoluto al giudice di merito si articola in quattro fasi successive:
1) in primo luogo, occorre verificare l’esistenza di una compravendita “a corpo” con specifica indicazione, nel contratto, della misura del bene compravenduto;
2) in secondo luogo, va verificato il superamento del limite quantitativo previsto dall’articolo 1538 c.c., comma 1, (un ventesimo della misura pattuita dai paciscenti);
3) in terzo luogo, dev’essere riscontrata la presenza, o l’assenza, di clausola negoziale atta ad escludere il rimedio specifico di cui alla norma appena richiamata;
4) infine, è necessario operare la riduzione del corrispettivo previsto dalle parti, in funzione riequilibratoria del sinallagma contrattuale, senza modificare la natura del regolamento negoziale, e dunque senza trasformare, di fatto, la vendita “a corpo” in vendita “a misura”.
Corte di Cassazione, Sezione Seconda, Sentenza n. 29363 del 10 ottobre 2022
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?
Prenota un appuntamento.
La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.
Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.
Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.
Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.