La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite è se sia valida la clausola di un contratto di locazione che attribuisca al conduttore di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, tenendone conseguentemente manlevato il locatore.
La soluzione della specifica questione prospetta invero la più ampia problematica se l’obbligo costituzionalmente rilevante di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva abbia un significato esclusivamente oggettivo – nel senso di obbligo di adempiere a quanto è giustificato dalla capacità contributiva – oppure anche soggettivo – nel senso che l’adempimento debba essere compiuto non solo oggettivamente in modo completo, ma altresì dal soggetto che per legge ne ha l’obbligo -, escludendosi quindi il trasferimento dell’obbligo ad un soggetto diverso.
Al riguardo, si pone l’esigenza di chiarire, tenendo ben in conto l’articolo 53 Cost. la cui natura è stata da tempo riconosciuta come imperativa, e quindi come direttamente precettiva, se, a parte le ipotesi in cui vi siano espressi divieti di traslazione da parte di specifiche norme tributarie, sulla individuazione del soggetto passivo dell’imposta possa incidere l’autonomia negoziale privata, neutralizzando così gli effetti della capacità contributiva.
La tematica della traslazione dell’imposta è stata in particolare affrontata dalle Sezioni Unite in due pronunzie, emesse entrambe (in relazione a contratto di mutuo) nel 1985.
Con la prima di tali pronunzie si è in particolare affermato che è nulla – sia ai sensi dell’articolo 1418 c.c., 1° comma, c.c. che per contrasto con l’articolo 53 Cost. -, la clausola con la quale – sia pure con effetti limitati al rapporto fra le parti – venga convenuta l’imposizione a carico del mutuatario di quanto il mutuante è tenuto a versare all’erario (nel caso, per IRPEG ed ILOR) in ragione dello stipulato contratto, stante l’immediato valore vincolante del principio del concorso di tutti alle spese pubbliche alla stregua della rispettiva capacità contributiva fissato dalla norma costituzionale, che si traduce nel divieto inderogabile per il debitore d’imposta – sia diretta che indiretta – di riversare il relativo onere su un altro soggetto, e quindi su un patrimonio diverso da quello rispetto al quale è contemplato il prelievo fiscale (v. Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5).
Nell’occasione le Sezioni Unite hanno argomentato dal rilievo che in base alla previsione di cui all’articolo 53 Cost., tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della rispettiva capacità contributiva, e secondo il criterio della progressività dell’imposta.
Il sacrificio economico derivante dal pagamento del tributo, e cioè la riduzione patrimoniale conseguente all’adempimento, deve – si è precisato – essere sopportato effettivamente e definitivamente dal soggetto alla cui capacità contributiva si riferisce l’obbligazione, e non già da altri, l’articolo 53 Cost., esigendo che ad una determinata capacità contributiva faccia seguito l’adempimento del dovere di concorrere alla spesa pubblica, ed escludendo che tale obbligo possa sorgere in capo a soggetto privo di capacità contributiva; come pure che un soggetto possa accollarsi – anche di fatto – il carico contributivo altrui, essendo contrario all’interesse della collettività che il concorso alla spesa pubblica gravi – anche di fatto- su soggetto diverso da colui che vi è tenuto ex lege, in quanto ogni soggetto dotato di capacità contributiva deve in misura corrispondente contribuire personalmente al costo dei servizi e dei vantaggi sociali.
La nullità del patto volto a trasferire (sia pure senza efficacia nei confronti dello Stato) su altri il peso del proprio dovere di solidarietà sociale di concorrere alla spesa pubblica si è ravvisato trovare ragione nella circostanza che, pur giovandosi dei vantaggi e dei benefici della vita associata, il soggetto obbligato ex lege in tal modo sottrae la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione.
Nel considerare inammissibile il patto traslativo d’imposta, in quanto idoneo a consentire al soggetto tenutovi per legge di giovarsi dei vantaggi e dei benefici della vita associata sottraendo la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione, con la sentenza n. 5 del 1985 le Sezioni Unite hanno dunque considerato in termini generali vietato e nullo (ai sensi dell’articolo 1418 c.c., 1° comma, c.c. e per contrasto con l’articolo 53 Cost.) qualunque patto con il quale un soggetto, ancorché senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d’imposta diretta che di imposta indiretta.
Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite hanno diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito.
Ipotesi che si verifica nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, né recuperato dal sostituto medesimo, sicché effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente. Non anche, nell’ipotesi in cui l’imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l’obbligazione di cui si stipula l’accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, né mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente, ma riguarda… una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il prezzo della prestazione negoziale.
Pur pervenendo a soluzione opposta a quella raggiunta nella sentenza n. 5 del 1985, in quest’ultima pronunzia le Sezioni Unite hanno posto invero a relativo fondamento gli stessi presupposti argomentativi della precedente, ribadendone la validità.
In particolare, hanno confermato il carattere di centralità che il dovere tributario è venuto assumendo nella Costituzione repubblicana, il cui articolo 53 si pone come fonte immediata ed imperativa la cui violazione può comportare la sanzione della nullità delle manifestazioni di autonomia negoziale con esso confliggenti.
Hanno sottolineato che l’autonomia privata non può alterare i connotati dei tributi diretti, strutturati in modo che ad ogni capacità contributiva debba corrispondere inderogabilmente una riduzione del patrimonio del titolare della capacità contributiva stessa (per mutuare l’espressione alla sentenza n. 5 del 1985, cit.), poiché, alla stregua dei principi scaturenti dal coordinamento degli articoli 2 e 53 la Costituzione esige che quel concorso, imposto al contribuente, incida sul suo patrimonio.
Hanno ulteriormente posto in rilievo che nel vigente sistema costituzionale tributario non basta oggettivamente che sia soddisfatta l’obbligazione verso il fisco, ma occorre altresì che tale obbligazione sia adempiuta dal soggetto tenuto a corrisponderla a cui carico gli articoli 53 e 2 Cost., pongono un dovere ribadito dall’art. 1 sul contenzioso tributario.
La prestazione imposta di carattere tributario postula infatti che una quota di ricchezza sia sottratta a quel determinato soggetto individuato dalla legge come soggetto passivo del tributo, con correlativo sacrificio personale.
Avvertendo la necessità di mantenere fermo il discorso di fondo sulla portata dell’articolo 53 Cost., e sulla sua attitudine a porsi come norma imperativa preclusiva di atti negoziali che ne comportino l’elusione, le Sezioni Unite hanno nell’occasione evidenziato come sia la rivalsa a rendere invero neutrale la tassazione in testa al sostituto, presentandosi come un credito del… medesimo verso il contribuente pari alla somma di cui egli è debitore verso il fisco (e che ha già corrisposto), pervenendo quindi a concludere che una pattuizione di esonero dalla rivalsa, se consentita, comporterebbe l’effetto di alterare immediatamente e direttamente il carico tributario perché il patrimonio del contribuente non verrebbe inciso, non verificandosi da parte sua quell’esborso verso il fisco che realizza il doveroso carico tributario e non presentandosi qui con effetto compensativo l’incremento tassabile che ne consegue poiché tale ulteriore tassazione non vale a ripristinare il vuoto contributivo da cui è conseguito l’aumento di reddito, non essendo omologhe le situazioni in raffronto.
Hanno quindi ritenuto che con il contratto di locazione in esame, le parti, sia pure con due distinte clausole contrattuali, hanno voluto determinare il canone locativo in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione, e l’altra come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità.
Il principio delineato da Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985, condiviso dalla dottrina maggioritaria, ha successivamente ricevuto costante conferma da parte della Suprema Corte, venendo a costituire principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 3/6/1991, n. 6232, con riferimento al contratto di mutuo; Cass., 25/3/1995, n. 3577, relativamente all’imposta sulla pubblicità; Cass., 27/11/1999, n. 13261, in tema di intestazione fiduciaria di azioni; Cass., 29/11/2004, n. 22369, in ordine a contratto di locazione di immobile ad uso diverso da abitazione contemplante canone comprensivo anche degli oneri accessori; Cass., 18/11/2009, n. 24307, in tema di imposta sulla pubblicità; Cass., 25/2/2015, n. 3770, relativamente contratto di mutuo; Cass., 8/2/2016, n. 2412, in ordine a rapporto concessorio inerente alla gestione dei parchimetri di Roma).
Orbene, le Sezioni Unite ritengono che le doglianze mosse dalla ricorrente avverso l’impugnata sentenza non siano idonee a revocare in dubbio la correttezza della soluzione raggiunta nel 1985, e non inducano a dover rimeditare un orientamento interpretativo che al contrario merita di essere ulteriormente confermato.
La clausola contrattuale in argomento è stata nell’impugnata sentenza intesa come prevedente un’ulteriore voce o componente (la somma corrispondente a quella degli assolti oneri tributari) costituente integrazione del canone locativo, concorrendo a determinarne l’ammontare complessivo a tale titolo dovuto dalla conduttrice.
Orbene, tale clausola risulta dalla corte di merito nell’impugnata sentenza correttamente interpretata, alla stregua dei principi posti a fondamento del suindicato consolidato orientamento.
In particolare là dove, dopo aver premesso che il legislatore ha ritenuto di vincolare l’autonomia negoziale dei contraenti soltanto per quanto attinente alla durata del contratto, alla tutela dell’avviamento e alla prelazione, mentre l’ammontare del canone locativo è lasciato alla libera determinazione delle parti, che possono ben prevedere l’obbligazione di pagamento per oneri accessori, tale giudice, movendo dal dato letterale (in particolare avvertendo che la parola “manlevare” va intesa nel senso di “operare un rimborso” o “una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore”) ha riguardato la clausola de qua alla stregua del complessivo tenore del contratto, al riguardo ponendo in rilievo come con due distinte clausole contrattuali di un unico atto, le parti abbiano nella specie inteso determinare il canone in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione, e l’altra come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità.
Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 6882 del 08/03/2019
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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