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Contributi previdenziali e avviso di addebito

Il reddito da partecipazione in società in accomandita semplice, pur non derivando da attività lavorativa, è imponibile ai fini previdenziali, in base al principio di solidarietà e armonizzazione tra normativa fiscale e previdenziale.

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Pubblicato il 20 dicembre 2024 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

N. 1126 /2022 R.G.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI BRESCIA SEZIONE LAVORO, PREVIDENZA E ASSISTENZA OBBLIGATORIA in composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa NOME COGNOME ha pronunciato la seguente

SENTENZA N._1180_2024_- N._R.G._00001126_2022 DEL_06_11_2024 PUBBLICATA_IL_06_11_2024

ex art.127 ter c.p.c. con motivazione contestuale nella controversia di primo grado promossa con l’avv. NOME COGNOME RICORRENTE contro con l’avv NOME COGNOME

NOME COGNOME RESISTENTE Oggetto: Altre controversie in materia di previdenza obbligatoria All’udienza ex art. 127 ter c.p.c., i procuratori delle parti concludevano come da rispettive note scritte.

MOTIVI DELLA DECISIONE

contributi accertati come dovuti alla RAGIONE_SOCIALE per l’anno 2017 oltre sanzioni e oneri accessori.

A sostegno della fondatezza della pretesa esponeva:

a) di essere socia lavorante della NOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME;

b) di essere altresì socia ( amministratore non lavorante) della RAGIONE_SOCIALE e Bresadola Claudio;

c) di ritenere infondate le pretese di controparte non avendo mai svolto fin dalla sua costituzione (tanto meno nell’anno 2017) alcuna attività di lavoro prevalente e abituale all’interno di quest’ultima società, lavorando a tempo pieno nella RAGIONE_SOCIALE e non essendo sufficiente per affermare la sussistenza dell’obbligo contributivo che fosse titolare di una quota sociale e che in virtù di tale titolo percepisse gli utili prodotti dalla RAGIONE_SOCIALE.

Chiedeva, quindi di dichiarare nullo o di annullare l’avviso di addebito impugnato, ovvero, in via subordinata, di rideterminarne l’importo.

2.Con memoria di costituzione ritualmente depositata, chiedeva il rigetto integrale del ricorso, evidenziando come l’imponibile previdenziale era stato rideterminato non già sul presupposto che la ricorrente dovesse essere iscritta alla RAGIONE_SOCIALE in virtù del ruolo rivestito nella RAGIONE_SOCIALE, bensì in forza del disposto di cui agli artt. 3-bis, comma 1 d.l. 384/1992 conv. l. 438/1992; 10 l. 241/1997, 6 d.p.r. 917/1986 nonché della pronuncia della Corte Costituzionale n. 354/2001, secondo cui la base imponibile utilizzata dall’ per procedere alla quantificazione dei contributi avrebbe dovuto essere determinata sulla totalità dei redditi di impresa ai fini IRPEF (e dunque anche tenuto conto dei redditi dichiarati dalla ricorrente come socia della RAGIONE_SOCIALE che costituiscono “redditi di partecipazione in società di persone” e quindi “redditi di impresa”).

3.Il ricorso non è fondato e va rigettato.

3.Pacifiche tra le parti le circostanze in fatto esposte nei rispettivi atti, unica questione controversa nel presente giudizio attiene all’assoggettabilità o meno ai fini dell’imponibile contributivo dei redditi percepiti dalla ricorrente nell’anno 2017 per la sua partecipazione nella RAGIONE_SOCIALE di (docc. 4 e 5 ricorso).

Il quadro normativo di riferimento può essere così riassunto:

– ai sensi dell’art. 10 l. 241/1997 i soggetti iscritti all’ per i propri contributi previdenziali devono determinare l’ammontare dei contributi stessi nella dichiarazione dei redditi, calcolandoli degli imponibili stabiliti con riferimento ai redditi e ai volumi di affari dichiarati per – l’art. 1 l. 233/1990 prescrive che l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni artigiani ed esercenti attività commerciali è calcolato sul reddito annuo “derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente”; – l’art. 3-bis d.l. 384/1992 conv. l. 438/1992, invece, prevede che l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’art. 1 l. 233/1990 è rapportato “alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef ”;

– l’art. 6, comma 3, d.p.r. 917/1986, dopo aver classificato le varie categorie di redditi, precisa che i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice “da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale”, sono considerati redditi di impresa.

Alla luce delle citate disposizioni è evidente che, mentre sino all’entrata in vigore del d.l. 384/1992, l’imponibile contributivo corrispondeva al reddito percepito dall’attività che dava titolo all’iscrizione alla gestione, successivamente tale imponibile è stato esteso a tutto il reddito di impresa dichiarato dal contribuente ai fini fiscali.

Con la conseguenza che, in considerazione delle definizioni espresse nella disciplina tributaria, anche il reddito derivante dalla mera partecipazione quale socio in una società di persone debba essere ricompreso nella base di calcolo della contribuzione dovuta dai soggetti iscritti ad una delle gestioni Come puntualmente osservato dall’ , la compatibilità costituzionale della normativa – anche con specifico riferimento al differente trattamento del socio accomandante rispetto al socio di società di capitali – è stata già vagliata dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 354/2001 del 7.11.2001, ha precisato: “Nell’ipotizzare, anzitutto, la discriminazione tra socio di società in accomandita semplice e socio di società di capitali, in vista dell’apporto al sistema contributivo della gestione previdenziale degli esercenti attività commerciali previsto dalla disposizione denunciata per i redditi di impresa di cui sia titolare l’iscritto, il rimettente muove dal presupposto della “sostanziale identità di natura tra le due tipologie di redditi” e, quindi, di una identità di posizioni fra i relativi percettori, giacché in entrambi i casi non vi sarebbe “il concorso di alcuna attività lavorativa”, bensì la mera sottoscrizione di quote del capitale sociale. Giova rammentare che, secondo il d.P.R. n. 917 del 1986…mentre i redditi da capitale costituiscono gli utili che il socio consegue per effetto della partecipazione in società dotate di personalità giuridica (art. 41), soggette, a loro volta, all’imposta sul reddito dalle stesse conseguito, i redditi c.d. di impresa di cui dall’art. 6 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, e, al tempo stesso, da imputare “a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione”, proporzionalmente alla “quota di partecipazione agli utili”, in forza del precedente art. 5 (redditi prodotti in forma associata). Ciò fa sì, appunto, che il reddito prodotto dalle società in accomandita semplice sia reddito proprio del socio, realizzandosi, in virtù del predetto art. 5, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, sia pure agli specifici fini tributari, “l’immedesimazione” fra società partecipata e socio (ordinanza n. 53 del 2001).

Così richiamato, sia pure in estrema sintesi, il quadro normativo in cui si collocano le situazioni poste a raffronto, non può reputarsi discriminatoria una disposizione quale quella denunciata, atteso il preminente rilievo che, nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo), assume, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di una attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante…

Le ragioni di cui sopra portano ad escludere, al tempo stesso, la fondatezza della censura formulata sotto il profilo della “manifesta irragionevolezza” della disposizione medesima, che avrebbe assoggettato “a contribuzione quello che nella sostanza… è un mero reddito da capitale”; censura che, a ben vedere, non rappresenta altro che una riproposizione, in termini diversi, di quella testé esaminata…

Ad ulteriore e decisivo supporto della non irragionevolezza della scelta operata dal legislatore, nell’esercizio della discrezionalità di cui gode in materia, va soggiunto che all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazione previdenziale, essendo, in virtù dell’art. 5 della legge n. 233 del 1990, anche la misura dei trattamenti rapportata al reddito annuo di impresa. Sicché, all’ampliamento della base contributiva corrisponde, appunto, l’ampliamento della base pensionabile, con evidente riflesso positivo sulla misura della prestazione e, dunque, in armonia con la garanzia previdenziale assicurata dall’art. 38, secondo comma, della Costituzione…Del pari infondata è la censura di violazione dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione, prospettata dal rimettente sul presupposto che detta norma, prevedendo il diritto al trattamento pensionistico per i lavoratori, escluderebbe che al sistema contributivo possa concorrere un reddito non di lavoro. Senonché l’intima ed indefettibile correlazione, postulata dal rimettente, tra contribuzione e reddito di lavoro non trova riscontro nel modello di previdenza sociale che è dato desumere dall’invocato precetto costituzionale.

Precetto, rivolto, oltretutto, più che a definire le fonti di finanziamento del sistema, a segnare il livello di tutela che deve essere si ispira, da un lato, l’estensione della protezione a categorie contigue a quelle caratterizzate dagli schemi più consolidati in cui si risolve lo svolgimento di attività lavorativa;

e dall’altro, accanto alla previsione di un apporto finanziario al sistema da parte della stessa collettività generale, anche la commisurazione della contribuzione a basi di riferimento non costituite, solo ed esclusivamente, dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro.

In proposito, è sufficiente rifarsi alle più recenti riforme in materia che evidenziano, infatti, il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nell’attività stessa rinvengono soltanto mera occasione.

Ed è in forza di siffatta evoluzione che si è venuta a realizzare, nel tempo, anche la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale, quanto alla definizione proprio della base imponibile, a testimonianza di una esigenza di tendenziale armonizzazione in materia.

Convergenza ascrivibile, in primo luogo, proprio alla disposizione censurata, la quale, nel rapportare la contribuzione previdenziale alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, e non più soltanto al reddito annuo derivante dall’attività d’impresa che dà titolo all’iscrizione (art. 1 della legge n. 233 del 1990), assume una base imponibile corrispondente a quella dell’ambito tributario;

e, successivamente, al decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314, recante “Armonizzazione, razionalizzazione e semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali concernenti i redditi di lavoro dipendente e dei relativi adempimenti da parte dei datori di lavoro“, che ha accolto una nozione di reddito da lavoro utilizzabile, in linea di massima, sia a fini contributivi che a fini tributari.

” Tanto è sufficiente per ritenere l’infondatezza delle argomentazioni svolte dalla ricorrente.

4.

Tenuto conto della sussistenza di contrasti giurisprudenziali nella materia trattata, le spese di lite vengono integralmente compensate fra le parti.

Definitivamente pronunciando ogni contraria istanza ed eccezione disattesa così provvede:

1. rigetta il ricorso;

2. compensa le spese di lite.

Sentenza provvisoriamente esecutiva.

Brescia il 06.11.2024 Il Giudice del lavoro

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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