REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO
DI ROMA VII
Sezione civile composta dai magistrati:
dott. NOME COGNOME Presidente dott.ssa NOME COGNOME Consigliere dott.ssa NOME COGNOME Consigliere relatore Ha emesso la seguente
SENTENZA N._619_2025_- N._R.G._00006811_2019 DEL_30_01_2025 PUBBLICATA_IL_30_01_2025
nella causa civile di secondo grado iscritta al n. 6811/2019 vertente TRA (C.F.: , in persona del legale rappresentante e amministratore unico pro tempore, con gli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Appellante (C.F.: ), con l’avv. NOME COGNOME
Appellata e Appellante Incidentale
CONCLUSIONI
come da note in sostituzione dell’udienza del 30 ottobre 2024 ex art. 127 ter cod. proc. civ. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.- ha proposto appello avverso la sentenza n. 1340/2019 con cui il Tribunale ordinario di Velletri ha accolto parzialmente la domanda formulata da parte attrice;
per l’effetto, ha ordinato a parte convenuta di arretrare l’immobile oggetto di causa di tre metri ovvero alla eventuale maggiore distanza se prevista dal Piano regolatore in vigore nel 2011 presso il Comune di Colleferro, dal confine con la proprietà dell’attrice;
ha rigettato per il resto le domande spiegate da parte attrice;
ha rigettato le domande riconvenzionali spiegate da parte convenuta;
ha condannato parte convenuta alla refusione in favore dell’Erario delle spese di lite liquidate in € 518,00 per spese vive ed € 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge e ha posto definitivamente a carico di parte convenuta le spese di CTU come liquidate in atti.
2.- I fatti di causa sono così riportati nella sentenza:
ha citato in giudizio la società indicata in epigrafe deducendo che la stessa era proprietaria dell’immobile sito in Colleferro INDIRIZZO aveva ottenuto l’approvazione, con deliberazione consiliare n. 84 del 23.11.2007, del progetto di realizzazione sul suo fondo di un edificio a destinazione commerciale – direzionale, previa demolizione delle opere esistenti;
che era stato quindi rilasciato permesso di costruire;
che la società convenuta aveva quindi realizzato le opere demolendo il preesistente edificio e realizzando un nuovo edificio in aderenza e/o appoggio all’edificio ove era collocato l’appartamento della attrice;
che l’edificio realizzato dalla convenuta costituiva nuova costruzione, siccome avente una sagoma una volumetria ed un posizionamento completamente diverso da quella preesistente;
che quest’ultimo per quanto costruito in aderenza all’edificio della attrice, era costituito da unico piano mentre quello nuovo aveva due piani;
che tale edificio siccome appunto “nuovo” era stato realizzato in violazione dell’art. 907 c.c. in materia di distanze tra le costruzioni e in violazione dell’art. 873 c.c. in tema di vedute;
che tali opere avevano quindi creato un danno ingiusto nei confronti dell’attrice e un rischio per la sua incolumità, potendo le persone utilizzare l’edificio della convenuta per accedere alla casa della attrice;
che pertanto spettava all’attrice il risarcimento del danno patito, da quantificarsi dal giudice equitativamente.
Per questi motivi, ha chiesto di accertare l’esistenza di una servitù di veduta in favore dell’attrice sul fondo della società convenuta, di accertare che l’edificio presente sul fondo della convenuta è nuova costruzione e per l’effetto dichiarare l’illegittimità di tale opera siccome realizzata in violazione dell’art. 907 e 873 c.c. e quindi ordinare alla convenuta la demolizione del manufatto rendendolo conforme alla normativa in tema di distanze e vedute, condannando la convenuta al risarcimento del danno patito dall’attrice. Si è costituita la contestando le deduzioni di parte attrice e deducendo che la costruzione oggetto di causa era stata realizzata dalla società convenuta nel rispetto del permesso a costruire rilasciato dal Comune di Colleferro;
che tale permesso aveva ad oggetto un intervento di ristrutturazione edilizia e non una nuova costruzione;
che invero sul fondo della convenuta esisteva dagli anni 20 un fabbricato che era stato oggetto di ristrutturazione nel 2009;
che parte convenuta, all’esito dell’iter procedimentale indicato in comparsa, aveva ottenuto dal Comune di Colleferro il permesso a costruire n. 103 del 26.11.2009 cui era seguita la realizzazione dell’edificio oggetto di causa;
che la modifica della sagoma dell’attuale edificio era stata autorizzata da dante causa della odierna attrice;
che l’opera realizzata dalla convenuta rientrava in ogni caso nell’ipotesi di cui all’art. 3 comma 1 lettera d del DPR. N. 380/2001;
che infondata era quindi la domanda relativa alla violazione delle distanze legali in base alla predetta norma avendo il nuovo edificio mantenuto la medesima cubatura e superficie di quello preesistente;
che infondata era la domanda di violazione dell’art. 903 c.c. atteso che la finestra della attrice non poteva qualificarsi come veduta e non era stata provata l’esistenza della asserita servitù di inspecitio e prospectio;
che sussistevano i presupposti per chiedere, in via riconvenzionale, di accertare l’abusività ed illegittimità delle luci e vedute presenti nell’appartamento della attrice e quindi di ottenerne la chiusura;
che l’immobile ove era stato collocato l’appartamento di parte attrice era stato sopraelevato nel 1982 abusivamente, essendo stato rilasciata concessione edilizia solo per il rifacimento della copertura dell’edificio;
che tale abuso era stato poi oggetto di domanda di condono n. 12132/1986 e di successivo permesso di costruire in sanatoria n. 161/2006 ove risultavano previste luci e vedute diverse da quelle effettivamente poi realizzate nell’appartamento della attrice;
che sussistevano quindi i presupposti in via riconvenzionale per ordinare l’arretramento della sopraelevazione fino al rispetto delle distanze di cui all’art. 9 D.M. 1444/68.
Per questi motivi, ha chiesto il rigetto delle domande spiegate da parte attrice e, in via riconvenzionale, dichiarare che l’appartamento della attrice e le luci/vedute di tale appartamento sono state realizzate in violazione della normativa codicistica e/o PRG del Comune di Colleferro e quindi condannare l’attrice alla demolizione del manufatto e alla chiusura delle luci/vedute, oltre al risarcimento dei danni patiti conseguenti alle violazioni sopra richiamate.
Concessi i termini ex art. 183 VI comma c.p.c., è stata disposta CTU al fine di accertare quanto lamentato da parte attrice anche alla luce dei rilievi di parte convenuta.
Integrata la perizia, sono stati come da verbale e la causa è stata trattenuta in decisione previa assegnazione alle parti dei termini ex art. 190 c.p.c..
” A sostegno della decisione, il Tribunale ha così ragionato:
“La domanda spiegata da parte attrice è parzialmente fondata.
Va in primo luogo rigettata la domanda concernente la violazione da parte della società convenuta del disposto di cui all’art. 907 c.c. per aver realizzato l’edificio collocato sul terreno censito al N.C.E.U. foglio 11 part. 33 e 182 senza rispettare la distanza legale di tre metri.
La materia, come noto, è regolata dall’art. 907 c.c. a mente del quale “quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell’articolo 905”.
Ciò posto, deve rilevarsi che parte attrice ha allegato di aver sempre potuto utilizzare la apertura presente nel suo appartamento e gettante sul terreno di proprietà della convenuta quale veduta che le consentiva la c.d. “inspectio et prospectio in alienum”.
Tale circostanza è stata confermata dai testi escussi.
La situazione di fatto descritta dall’attrice non è tuttavia tutelabile mediante la tutela petitoria azionata da parte attrice atteso che quest’ultima non ha dato prova del titolo di acquisto della dedotta servitù di veduta ovvero non ha chiesto di accertarsi nel presente giudizio l’acquisto per usucapione di tale diritto (cfr. le conclusioni in citazione relative a tale aspetto “accertare e dichiarare l’esistenza della servitù di veduta a favore dell’immobile di proprietà della sig.ra Come osservato in maniera condivisibile dalla Suprema Corte infatti “in materia di luci e di vedute, il diritto di proprietà di un immobile fronteggiante il fondo altrui non può attribuire, in assenza di titoli specifici (negoziali o originari, come l’usucapione), anche l’acquisto della servitù di veduta; ne consegue che una situazione di mero fatto – che si sia concretizzata nell’esistenza, a distanza inferiore di quella prescritta dall’art. 905 cod. civ., di aperture che consentano la “inspectio” e la “prospectio” nel fondo confinante – non è di per sé suscettibile di tutela in via petitoria, al fine di pretendere, da parte del vicino che edifichi sul proprio fondo, l’osservanza delle distanze previste dall’art. 907 cod. civ. presupponendo tale disposizione che il diritto di avere vedute dirette verso il fondo del vicino sia stato “acquistato”, non è sufficiente, infatti, invocare, a tal fine proprio il diritto dominicale sull’immobile dotato di vedute, ma è necessario la deduzione e prova di un titolo specificamente conferente il relativo ius in re aliena” (Cass. Civ., Sez. II, n. 11956/2009, cfr. Cass. Civ., Sez. II, n. 18030/2010). Ne consegue che, in mancanza di prova del titolo di proprietà dell’allegato diritto di servitù di veduta ovvero di domanda di usucapione di tale diritto, la domanda formulata dall’attrice in relazione alla violazione dell’art. 907 c.c. va rigettata.
Fondata appare invece la domanda formulata dall’attrice in relazione alla violazione da parte della società convenuta della disciplina di cui all’art. 873 c.c. a seguito della realizzazione dell’edificio di cui al permesso di costruire n. 103/2009 dovendosi ritenere che tale opera vada qualificata quale nuova costruzione e non, come prospettato da parte convenuta, quale “intervento di ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3, comma 1 lettera d) del D.P.R. 380/2001.
Come noto, tale norma qualifica gli interventi di ristrutturazione edilizia come “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
In presenza di tale tipologia di intervento, il costruttore può, secondo la giurisprudenza prevalente, realizzare il nuovo edificio secondo le caratteristiche del preesistene edificio e quindi eventualmente anche in violazione delle distanze legali previste dal codice civile ovvero dal piano regolatore comunale.
Ciò premesso, va rilevato che, come emerge dalla CTU svolta secondo criteri e parametri del tutto condivisibili, la costruzione realizzata dalla società convenuta in forza della predetta concessione edilizia deve essere ritenuta nuova costruzione e non “intervento di ristrutturazione edilizia” ai sensi della normativa sopra richiamata in quanto è emersa una difformità tra la volumetria del preesistente edificio e quella dell’attuale immobile oggetto di causa.
La norma sopra richiamata prevede infatti che, pur potendosi modificare la sagoma dell’edificio preesistente (condizione prevista solo in relazione agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, quale non è pacificamente quello oggetto di causa), deve essere rispettata, ai fini della qualificazione delle opere come “intervento di ristrutturazione edilizia”, la volumetria del preesistente edificio.
Su tali premesse, va rilevato che il CTU, mediante una accurata analisi non solo della documentazione prodotta in giudizio dalle parti ma anche di quella ritualmente acquisita presso l’Ufficio tecnico del Comune di Colleferro, ha potuto accertare che l’immobile preesistente aveva una volumetria originaria sulla base dei titoli ed autorizzazioni emessi dalla competente P.A. di mc 694,00 mentre presentava, invece nel relativo progetto ante operam, una volumetria effettiva di mc. 844,00.
Sulla base di tali dati, a prescindere dalla eventuale presenza di abusi edilizi in relazione all’immobile originario (come evidenziati dal CTU nella relazione in atti), va rilevato che parte convenuta, nella realizzazione dell’immobile oggetto di causa, ha sviluppato una volumetria di mc. 1.143,95, come calcolata dal CTU secondo criteri e parametri oggettivi ed immuni da vizi logici, e pertanto ha superato, in ogni caso, la volumetria dell’immobile preesistente sia come risultante dalla documentazione acquisita presso la P.A. (mc. 694,00) sia come risultante dal progetto esecutivo seguente (mc. 844,00). Ne consegue che, ritenuta non rispettata dalla convenuta la volumetria propria dell’immobile preesistente nell’edificazione dell’immobile attualmente presente sui luoghi, deve ritenersi che l’ immobile di parte convenuta non rientra nella previsione di cui al predetto art. 3 comma 1 lett. d) D.P.R. 380/2001, non potendo considerarsi “intervento di ristrutturazione edilizia”, e che lo stesso costituisce nuova costruzione, soggetta in quanto tale al rispetto delle distanze minime legali previste dal codice civile e dal piano regolatore del Comune di Colleferro.
Come osservato dalla Suprema Corte, infatti, “la ristrutturazione edilizia mediante ricostruzione di un edificio preesistente venuto meno per evento naturale o per volontaria demolizione si attua, nel rispetto della L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lett. d), attraverso interventi che comportino modificazioni esclusivamente interne dell’edificio preesistente, senza aumenti di superficie o di volume, in presenza dei quali, invece, si configura una nuova costruzione, sottoposta alla disciplina indirettamente con la previsione di soglie massime di incremento edilizio, sulle nozioni normative di “ristrutturazione” e di “nuova costruzione” e sui rimedi esperibili nei rapporti tra privati” (Cass. Civ., Sez. II, ord. 312/2019). In questo contesto, va rilevata l’assoluta inconducenza della scrittura privata del 5.12.2006 sottoscritta tra la convenuta e il dante causa della odierna attrice (doc. 1 fascicolo di parte convenuta) laddove il ha autorizzato, senza alcun compenso, la convenuta alla realizzazione del costruendo nuovo edificio in aderenza al suo immobile con aumento delle relative cubature.
Si tratta in vero di un accordo non opponibile all’odierna attrice siccome stipulato da allorquando l’immobile di sua proprietà, oggi di proprietà della attrice giusto decreto di trasferimento del 20/26.5.2008 (doc. 1 fascicolo parte attrice), era stato già da tempo sottoposto alla procedura esecutiva n. R.G. 766/1995 promossa nei confronti del predetto Banca di Roma s.p.a. con conseguente insussistenza in capo al debitore esecutato della disponibilità giuridica del diritto oggetto della predetta scrittura privata. A ciò si aggiunga che non trattandosi di atto registrato lo stesso costituisce un’obbligazione personale del sottoscrivente (ossia il dante causa della odierna attrice) inidoneo a costituire un vincolo reale sul bene di proprietà di quest’ultima.
Su tali premesse, ritenuto che l’immobile presente sul terreno di proprietà della società convenuta sia nuova costruzione e pertanto sia soggetto alle disposizioni di legge in tema di distanze dai fondi altrui, va riscontrata la fondatezza della domanda spiegata da parte attrice in relazione alla violazione del disposto del sopra richiamato art. 873 I comma c.c. dal momento che l’immobile di proprietà di parte convenuta è stato realizzato in adiacenza al muro dell’immobile di parte attrice.
Va conseguentemente ordinato a parte convenuta di arretrare l’immobile oggetto di causa di tre metri ovvero alla eventuale maggiore distanza se prevista dal Piano regolatore in vigore nel 2011 presso il Comune di Colleferro, dal confine con la proprietà dell’attrice.
Infondata appare infine la domanda di risarcimento del danno patito dall’attrice ai sensi dell’art. 2043 c.c. (dovendosi in tal senso qualificare, in assenza di diversa indicazione da parte dell’attrice, la domanda oggetto di esame) attesa la assoluta genericità della domanda e la mancata indicazione della natura, patrimoniale ovvero non patrimoniale, dei danni cagionati da parte della società convenuta.
Occorre quindi esaminare le domande spiegate in via riconvenzionale da parte della società convenuta fine accertare l’abusività/illegittimità delle luci/vedute realizzate nell’appartamento di parte attrice e la illegittimità della sopraelevazione dell’edificio ove è collocato l’appartamento della attrice siccome realizzata in spregio del disposto dell’art. 9 D.M. 1444/1968.
Al riguardo va rilevata l’infondatezza di entrambe le domande.
Va invero osservato che le suddette domande spiegate da parte convenuta appaiono del tutto generiche non essendo indicata in maniera sufficientemente specifica la violazione contestata sia in relazione agli artt. 901 e 905 c.c. (se ad esempio la stessa attenga a quale delle 3 prescrizioni previste dall’art. 901 c.c. ovvero quale delle violazioni dell’art. 905 c.c.) sia in relazione all’art. 9 del predetto D.M. individuando in che misura e per quale motivo la sopraelevazione violi il dettato di tale norma.
Non si può altresì ritenere sufficiente ai fini del conseguimento del provvedimento invocato la mera allegazione della irregolarità/illiceità delle opere ex adverso realizzate essendo invece necessario che la parte provi ed alleghi la propria legittimazione attiva, individuando il diritto ciò si aggiunga che, come accertato in maniera del tutto condivisibile nella integrazione di perizia depositata in atti dal CTU, la finestra oggetto di causa presente sulla proprietà dell’attrice e la sopraelevazione sono stata indicate nel permesso di costruire in sanatoria n. 161 del 1.12.2006 e in ogni caso non si possono ritenere essere state realizzate in violazione dell’art. 901 c.c. ovvero delle distanze di cui all’art. 9 D.M. 1444/68 rispetto all’attuale edificio costruito nel 2011 da parte della convenuta atteso che le predette opere sono state realizzate in epoca sicuramente anteriore a tale ultima opera, rimanendo quindi onere di parte convenuta quello di realizzare la propria nuova costruzione nel rispetto della normativa in tema di luci/vedute e di distanze legali. Ne consegue il rigetto delle domande riconvenzionali spiegata da parte convenuta e della conseguente domanda di risarcimento del danno.
Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, e le spese di CTU, come liquidate in atti, vanno poste a carico di parte convenuta in base al principio della soccombenza”.
3.- La ha proposto appello per i motivi di seguito enunciati.
I. (Sul ritenuto aumento di volumetria dell’immobile della.
Travisamento dei fatti e falsità dei presupposti.
Violazione e falda applicazione dell’art.31, L.U. Eccesso di potere giurisdizionale.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. Violazione e falsa applicazione della D.G.R. 243/2017 – all. A (doc.2/app.).
Contraddittorietà.
Ingiustizia grave e manifesta.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. Omessa pronuncia.
Difetto di motivazione.
Censura la decisione del Tribunale nella parte in cui accoglie le domande della sig.ra ordine alla violazione dell’art. 873 c.c. condannando la all’arretramento della propria costruzione.
L’appellante sostiene che tale assunto reiteri i gravi vizi della relazione peritale del CTU, vizi che sarebbero già stati censurati nel corso del giudizio del primo grado e per i quali la parte avrebbe più volte richiesto inutilmente la rinnovazione della relazione su tali aspetti.
A tal riguardo l’appellante passa in rassegna quelli che a suo avviso sarebbero gli errori della CTU:
Il CTU avrebbe dichiarato la natura “abusiva” di parte della volumetria preesistente.
L’edificio preesistente fu assentito con Licenza Edilizia n.17 del 22.3.1966 che prevedeva la realizzazione di sette locali, successivamente, in sede di rilascio del certificato di agibilità il Comune avrebbe verificato la realizzazione di otto locali autorimessa.
Secondo l’appellante il CTU avrebbe erroneamente interpretato tale certificato come l’attestazione di un illecito edilizio.
Inoltre, allega che secondo pacifico orientamento giurisprudenziale la regolarità urbanistica del fabbricato non rileva ai fini della proposizione dell’azione ripristinatoria:
“se le distanze sono state osservate, il vicino non ha diritto di chiedere la riduzione in pristino anche se l’immobile è abusivo” (Cass. Civ., II, 26/2/2019, n.5605).
Il CTU avrebbe errato anche in ordine alla volumetria post operam del locale gestore.
Al riguardo l’appellante sostiene che il locale in questione è posto a oltre 20 metri dall’immobile della (come tale evidentemente estraneo ai fatti) e che costituisce una nuova costruzione autorizzata con Permesso di Costruzione n.103/2009.
Allega che avrebbe ad oggetto non una mera ristrutturazione ma anche la riqualificazione dell’impianto di distribuzione di carburanti, opera pubblica a vantaggio del comune (si vedano le premesse del permesso a costruire in atti doc.13).
Aggiunge che non spetterebbe, comunque, al consulente un sindacato dei titoli estraneo ai quesiti posti, lo stesso avrebbe Il CTU avrebbe errato anche nel computo della volumetria post operam della scala, a detta dell’appellante manufatto esterno all’immobile e completamente aperto, ma considerata dal tecnico quale volume edilizio considerandola nella sua incidenza volumetrica nella misura del 50%.
L’appellante afferma che la scala sarebbe posta sul lato opposto all’immobile della a distanza regolare e precisa che non sarebbe indicato, nella relazione, un principio tecnico, o un fondamento amministrativo o regolamentare della scelta del computo al 50%.
L’inattendibilità della relazione emergerebbe anche ove il CTU riporta erroneamente, a detta dell’appellante, le dimensioni del fabbricato preesistente, si tratterebbe di meri errori di trascrizione rispetto a quanto indicato negli elaborati progettuali posti alla base del calcolo.
Il CTU, infine, computerebbe per l’ante operam il volume netto e per il post operam il volume lordo, escludendo dal computo del volume preesistente lo spessore del solaio di calpestio.
L’appellante sostiene inoltre che è errata anche la sottostima della consistenza dell’immobile preesistente tanto che la superficie post operam risulterebbe addirittura inferiore a quella l’ante operam.
II.
Violazione e falsa applicazione dell’art.873 c.c. sotto diverso profilo.
Censura la sentenza impugnata sostenendo che il Giudice, basandosi sulla CTU e senza tener conto delle numerose e precise contestazioni, avrebbe effettuato una erronea ricostruzione dei fatti.
Afferma che il manufatto della non porta alcun aumento della volumetria preesistente, in altre parole si tratterebbe di mero intervento di ristrutturazione edilizia mediate demolizione e ricostruzione con medesima volumetria e superficie.
4.- ha proposto appello incidentale per i motivi di seguito enunciati.
Censura la sentenza di primo grado nella parte in cui il Giudice statuisce che “in mancanza di prova del titolo di proprietà dell’allegato diritto di servitù di veduta ovvero di domanda di usucapione di tale diritto, la domanda formulata dall’attrice in relazione alla violazione dell’art. 907 c.c. va rigettata”.
L’appellante incidentale sostiene che il Giudice avrebbe fornito una lettura distorta della sentenza dallo stesso menzionata a supporto dell’affermazione di cui sopra, ovvero Cass. N.18030/2010.
Tale sentenza, infatti, affermerebbe che “Condizione di applicabilità della norma in esame è che si sia acquistato il diritto di veduta sul fondo vicino, anteriormente all’esercizio da parte del suo proprietario del diritto di costruire” (C. 18030/2010; C. 1239/1976), ma in una successiva e più recente sentenza la Corte di Cassazione, partendo al principio appena menzionato, si affermerebbe che l’acquisto del diritto di veduta “va accertato anche d’ufficio dal giudice” (C. 11287/2018).
Al riguardo sostiene che l’appellante abbia ammesso, seppur implicitamente, l’esistenza del diritto di veduta e afferma che l’esistenza della finestra in questione non possa essere messa in dubbio né nell’attualità, né per la sua preesistenza, in quanto risale al 1970.
5.- Giova innanzitutto premettere che l’interesse ad impugnare va apprezzato in relazione all’utilità concreta che derivi alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione stessa, non potendo esaurirsi in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, priva di riflessi pratici sulla decisione adottata (Cass., Sez. 2, n. 15353 del 25 giugno 2010).
si incentra sulla contestazione della qualifica di “nuova costruzione” dell’immobile della e, dunque, sulla conseguente necessità del rispetto delle distanze legali previste dall’art. 873 cod. c. e dagli strumenti urbanistici.
La Suprema Corte, da ultimo Sez. 2 – , Ordinanza n. 12535 del 08/05/2024, considera, nell’ambito delle opere edilizie, semplice “ristrutturazione” ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio di cui sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la “ricostruzione” allorché tali componenti siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, in presenza dei quali, si verte, invece, in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima. (Nella specie, la SRAGIONE_SOCIALE. ha qualificato come nuova costruzione una sopraelevazione comportante modifica della sagoma dell’edificio ed un incremento della sua superficie utile e della sua cubatura, per realizzare un sottotetto suscettibile di essere sfruttato per scopi abitativi); conformi SS. uu n. 21578 del 2011 ; Sez. 2 – , Sentenza n. 15041 del 11/06/2018.
Alla luce delle delineate coordinate ermeneutiche, in presenza di variazione rispetto alle originarie dimensioni e, in particolare, in presenza di aumenti si verte, in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, anche nel caso di edificio che presenti, rispetto a quello preesistente, un lieve incremento della superficie ed un possibile modesto aumento del volume, come ritenuto nella decisione da ultimo richiamata.
Ebbene, nel caso in esame, anche se si volesse ricomprendere il volume dell’abuso edilizio ed escludere sia le scale che il locale gestore la volumetria di progetto ante e post operam risulterebbe di mc 901,66 a fronte degli originari 844; parimenti il nuovo manufatto, anche al “netto” del locale gestore risulta di volume ancora maggiore all’esito delle misurazioni operate con i rispettivi tecnici e indicate nel supplemento di perizia dell’8.6.2017 pari a mc 997,60.
Al riguardo, giova precisare che questa Corte condivide i criteri di misurazione adottati dal CTU e, in particolare, in relazione alle specifiche critiche del CTP a riguardo, di quello utilizzato per la misurazione dell’altezza considerata nella estensione fuori terra del fabbricato in tutta la sua interezza.
D’altronde nell’Accordo del 5.12.2006 in atti, intervenuto tra la , dante causa dell’odierna appellata, ha reso una confessione stragiudiziale ad un soggetto terzo – come tale liberamente valutabile dal Giudice – del fatto che i lavori di ampliamento dell’immobile di proprietà della società consistono tra l’altro «nell’aumento delle cubature di proprietà della Detta confessione stragiudiziale unitamente alle risultanze della CTU, le cui conclusioni si condividono anche per quanto dianzi detto induce pertanto il Collegio a confermare l’impugnata decisione. 7.- Anche l’appello incidentale è infondato.
La proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti diritti “autodeterminati “, individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto si come rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto, con la conseguenza che la “causa petendi” delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo – contratto, successione ereditaria, usucapione, etc. – che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, essendo, viceversa, necessaria ai soli fini caso in esame, la non ha dato prova del titolo costitutivo della servitù, né ha articolato specifiche prove al riguardo, senza considerare poi che le servitù negative – quale la “servitus non aedificandi” – sono sempre non apparenti e non possono pertanto formare oggetto di acquisto per usucapione (Cass. Sentenza n. 4816 del 14/04/2000 conforme Sentenza n. 885 del 22/01/2001) 6.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
La Corte di Appello di Roma, definitivamente pronunciando sull’appello principale e sull’appello incidentale avverso la sentenza n. 1340/2019 del Tribunale ordinario di Velletri:
– respinge l’appello principale;
– respinge l’appello incidentale;
– condanna alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Erario, liquidate in euro 6.000,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cassa di previdenza come per legge;
– dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del DPR n.115/2002 per il versamento da parte dell’appellante e dell’appellante incidentale dell’ulteriore importo indicato nella citata disposizione a titolo di contributo unificato.
Roma, 29 gennaio 2025
Il Consigliere relatore Il Presidente
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Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.
Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.
Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.