Il cognome è un tratto identitario della persona, conseguente al possesso di uno status familiare, e che di regola, ma non necessariamente, coincide con esso (Corte Cost. 13/1994).
Status e cognome sono due distinte attribuzioni della persona, posto che il primo definisce la condizione giuridica di una persona all’interno di una struttura sociale, mentre il secondo è un tratto identitario e individua in primo luogo l’appartenenza alla famiglia di origine, collegando l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis, radicandosi nell’identità familiare e, al contempo, riflette la funzione che riveste, anche in una proiezione futura, rispetto alla persona (Corte Cost. 131/2022).
Nel tempo esso diviene infatti sempre di più un connotato della identità personale ed individuale, che costituisce un bene in sé, indipendentemente dalla condizione familiare e sociale.
Nell’impianto originario del codice civile, la moglie assumeva il cognome del marito, così perdendo il tratto della propria identità familiare ed acquistandone un altro.
Con il riconoscimento della pari dignità giuridica dei coniugi, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha introdotto nel codice civile l’articolo 143 bis, a mente del quale la moglie conserva il proprio cognome e vi aggiunge quello del marito.
Il cognome (aggiunto) diviene così segno distintivo non già della persona nella sua interezza, ma della relazione matrimoniale.
La relazione tra status coniugale e cognome maritale si configura pertanto come un rapporto tra significato e significante, manifestando all’esterno il vincolo coniugale, con particolare rilievo nella dimensione sociale della persona, mentre è di scarsa se non nulla importanza nella vita professionale.
Lo status matrimoniale sussiste a prescindere dalla utilizzazione che la donna faccia del cognome del marito e si manifesta anche attraverso altri significanti; il cognome maritale, in particolare, è un significante legato ad usi sociali che si radicano nel regime normativo antecedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975.
La perdita del diritto all’utilizzazione del cognome del marito è una conseguenza della perdita dello status, e cioè del divorzio, non essendovi più una relazione matrimoniale da manifestare all’esterno, salvo che in via eccezionale la donna venga autorizzata a portare il cognome del marito, solo ove persista un interesse meritevole di tutela (Cass. n. 654 del 11/01/2022).
Ciò posto, la domanda di divorzio e la domanda di conservazione del cognome sono due domande diverse, fondate su diversi presupposti e dirette ad ottenere beni della vita diversi.
La pronuncia di divorzio viene resa quando – ricorrendone i presupposti di legge – si accerti che la comunione materiale morale di vita tra i coniugi non può essere ricostituita, e ciò a prescindere dal fatto che si riconosca o meno un interesse meritevole di tutela da parte della donna a mantenere il cognome del marito.
La parte che propone domanda di divorzio ha interesse ad ottenere lo stato libero, e quella che (eventualmente) resiste ha interesse a mantenere lo stato matrimoniale.
Di contro, la domanda di mantenere il cognome prospetta il diverso interesse a conservare un tratto identificativo che, a prescindere dalla sua corrispondenza allo status, è divenuto un bene in sé.
Le ragioni per cui si chiede la tutela di questo bene devono essere attentamente vagliate dalla autorità giudiziaria, posto che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa.
Ma è indubitabile che l’autorizzazione eventualmente data a mantenere detto cognome non faccia venire meno lo stato di coniuge divorziato, rappresentando una di quelle ipotesi eccezionali in cui lo status non coincide con il cognome.
La divergenza in questo caso è attenuata dal fatto che il principale tratto identificativo della persona è comunque dato dal cognome familiare che si acquista alla nascita (ovvero con il conseguimento di uno status filiationis) e si conserva per tutta la vita, e che nella fattispecie non si tratta di mutare o conservare il cognome primario, ma soltanto quello (eventualmente) aggiunto al proprio.
Trattandosi di domande diverse, le relative decisioni sono scindibili, e nulla osta a che la questione della conservazione del cognome venga decisa dopo la sentenza sullo status, unitamente alle “altre questioni” pendenti tra le parti che richiedano un’ulteriore istruttoria, e per le quali il processo può proseguire dopo la sentenza non definitiva di divorzio (Cass. 9416/2010; Cass. n. 20666/2017).
Vero è che il comma III dell’articolo 5 della L. n. 898 del 1970 dispone che “Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito” ma la norma deve essere letta coordinandola con il disposto della L. n. 898 del 1970, comma XII dell’articolo 4, (ratione temporis applicabile) a mente del quale “nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio”.
Per costante orientamento, il comma XII dell’articolo 4 cit. non costituisce una deroga, ma un’ipotesi di applicazione del principio generale di cui all’articolo 277 c.p.c., comma 2, e pertanto può estendersi ad ogni caso in cui restino ancora da definire non soltanto la spettanza o quantificazione dell’assegno di divorzio, ma anche tutte le altre questioni pendenti tra le parti che richiedano un’ulteriore istruttoria.
Ciò in quanto la norma risponde alla esigenza di garantire sollecite definizioni in ordine allo status, e di contrastare eventuali condotte dilatorie.
Rispetto alla disciplina generale prevista dall’articolo 277 comma II c.p.c. la norma non restringe i poteri del giudicante, anzi li estende, poiché non richiede l’istanza di parte, presupponendo una valutazione generale ed astratta della rispondenza della pronuncia all’interesse delle parti, ed anche pubblico, della certezza dello status.
La domanda di autorizzazione alla conservazione del cognome maritale, in quanto diversa ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento del matrimonio e connotata da un diverso interesse ad agire, ben può, quindi, essere decisa separatamente dalla domanda sullo status.
Corte di Cassazione, Ordinanza n. 24111 del 8 agosto 2023
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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