Il parametro di validità della clausola collettiva di fungibilità è costituito dal primo comma dell’art. 2103 c.c. che disciplina lo jus variandi del datore di lavoro nell’assegnazione delle mansioni relative alle qualifiche contrattuali ovvero alle categorie legali.
Ed infatti, oltre alle categorie legali contemplate dall’art. 2095 c.c., cui si raccordano discipline legali specifiche, e nel rispetto delle stesse, la contrattazione collettiva, nell’esercizio della sua autonomia, può prevedere il sistema di classificazione del personale articolando in plurime qualifiche secondo l’apprezzamento discrezionale delle parti sociali.
E’ quindi ben possibile che il contratto collettivo accorpi nella stessa qualifica mansioni diverse che esprimono distinte professionalità; l’art. 96, comma 2, disp. att. c.c., che opera sullo stesso piano di quello dell’art. 2103 c.c. contempla espressamente la possibilità che le qualifiche del prestatore di lavoro, nell’ambito di ciascuna categoria legale, possano essere raggruppate per gradi secondo l’importanza e l’ordinamento dell’impresa.
Nulla esclude che queste professionalità costituiscano lo sbocco di percorsi formativi distinti, in ipotesi anche di livello diverso.
L’equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte le mansioni così accorpate, ancorché espressione di diverse professionalità.
Una volta poi assegnate le mansioni al lavoratore, questo esprime nel loro espletamento una professionalità ormai individualizzata, destinata ad arricchirsi progressivamente con l’esperienza (cfr. art. 1, 1° comma, lett. F, d.lgs. 26 maggio 1997 n. 152, che prescrive che il datore di lavoro pubblico e privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuitagli oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro).
Prendendo in esame innanzi tutto il primo comma dell’art. 2103 c.c., sostituito dall’art. 13 legge 20 maggio 1970 n. 300 (statuto dei lavoratori), che prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione, deve considerarsi che si tratta di una speciale norma di protezione del lavoratore per preservarlo dai danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno o all’esterno dell’azienda (C.Cost. 6 aprile 2004 n. 113); compromissione costituita appunto dal demansionamento che può ridondare in comportamento discriminatorio.
La valenza costituzionale del bene protetto da tale disposizione, in comparazione con altre prerogative del lavoratore di pari rilievo, ha portato recentemente alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 2751 bis, n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro (C.Cost. n. 113 del 2004).
Quale norma di protezione, l’art. 2103 c.c. regolamenta l’esercizio dell jus variandi da parte del datore di lavoro che vede il lavoratore in una posizione di soggezione conseguente al carattere subordinato del rapporto di lavoro; da ciò la necessità di bilanciare questo potere direttivo con l’approntamento di una garanzia finalizzata da ultimo alla tutela della dignità del lavoratore; cfr. Cass. Sez. Un. 7 agosto 1998, n. 7755, in tema di demansionamento eccezionalmente compatibile con l’art. 2103 c.c., che ha rimarcato la necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (art. 4, 32, 36), del prestatore con la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore.
Il demansionamento può infatti atteggiarsi a comportamento discriminatorio e, avverte in proposito C.Cost. n. 108 del 1989, la dignità sociale del lavoratore è tutelata contro discriminazioni che riguardano non solo l’area dei diritti di libertà e l’attività sindacale finalizzata all’obiettivo strumentale dell’autotutela degli interessi collettivi, ma anche l’area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile del lavoratore; anche C.Cost. 19 dicembre 2003 n. 359, con riferimento al mobbing che secondo la (allora impugnata) legge reg. Lazio 11 luglio 2002 n. 16, art. 2, comma 2, poteva consistere anche nel demansionamento (così ora anche Cass. Sez. lav., 23 marzo 2005, n. 6326), ha ribadito l’esigenza di salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (art. 2 e 3, primo comma, della Costituzione); altresì cfr. il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Analogamente queste sezioni Unite (Cass., sez. un. 24 marzo 2006, n. 6572) hanno affermato che il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquistata dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità. Altresì queste Sezioni Unite (Cass., sez. un. 18 dicembre 1998, n. 12699) hanno identificato la ratio della norma in esame nell’eliminazione di situazioni di dequalificazione professionale.
In particolare queste Sezioni Unite (Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755) hanno precisato, e qui ulteriormente ribadiscono, che le mansioni equivalenti alle attuale (art. 2103 cit.) sono quelle oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, esse debbono armonizzarsi con la professionalità già acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, impedendone comunque la dequalificazione o la mortificazione.
Quindi, in sintesi, il baricentro della disposizione in esame (art. 2103 c.c.), nella formulazione introdotta dallo Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970 cit.), è la protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro.
La violazione della prescrizione del citato primo comma dell’art. 2103 c.c. è sanzionata dalla nullità di ogni regolamento negoziale o clausola con essa confliggente: il secondo comma di tale disposizione prevede infatti che ogni patto contrario è nullo.
E costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la nullità dei patti contrari, comminata dal secondo comma dell’art. 2103 c.c., riguarda anche il contratto collettivo.
Ciò, del resto, si desume in positivo dal lato normativo testuale dell’art. 40 della cit. legge n. 300 del 1970, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché a contrario da altre disposizioni con cui eccezionalmente il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del primo comma dell’art. 2103 c.c.; quale l’art. 4, comma 11, legge 23 luglio 1991 n. 223 del codice civile, la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte. In ragione della salvaguardia di questo patrimonio di professionalità, assicurata dall’art. 2103 c.c., il datore di lavoro non può assegnare al lavoratore mansioni diverse da quelle di assunzione ed, in caso di intervenuta mobilità verticale, diverse dalle ultime espletate che compromettano questa professionalità anche se le mansioni svolte e quella di nuova assegnazione rientrino in ipotesi nella stessa qualifica contrattuale.
Ha più volte affermato la giurisprudenza di questa Corte che la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, che legittima lo jus variandi del datore di lavoro, deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto.
Ed ha poi precisato la medesima giurisprudenza che il divieto di variazioni in pejus (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.
Ed ancora, con riferimento al rapporto di lavoro dei dipendenti della società Poste Italiane, Cass. Sez. lav., 3 settembre 2002, n. 12821 cit., superando il precedente orientamento espresso da Cass., sez. lav., 24 luglio 2001, n. 10048, ha affermato che l contrattazione collettiva può prevedere una più dettagliata articolazione di qualifiche e stabilire anche un rapporto di equivalenza di mansioni distinte, ma riconducibili alla stessa qualifica.
Ed aggiunge: il nuovo contratto collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale (normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica.
Ma ciò non implica necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica.
Anche in passato, con riferimento ad una similare fattispecie di reinquadramento o riclassificazione, costituita dall’inquadramento unico di impiegati ed operai, introdotto dalla contrattazione collettiva dell’epoca, questa Corte ebbe a precisare che il passaggio da impiegato ad operaio è in astratto configurabile purché non si trasformi in un mutamento peggiorativo; ed aggiunse: in concreto si tratta soltanto quindi di stabilire se la variazione di mansioni provochi un qualsiasi pregiudizio per il lavoratore, e quindi si traduca in un mutamento in pejus delle mansioni.
L’inderogabilità della disciplina legale in esame si atteggia pertanto anche a limite per la contrattazione collettiva, sicché l’eventuale accorpamento, da parte della contrattazione collettiva, in un’unica categoria (o qualifica, o area) di plurime mansioni, anche di diversa professionalità e livello, rende si applicabile alle stesse la medesima disciplina collettiva che a tale categoria (o qualifica, o area) faccia riferimento (arg. ex. art. 1367 c.c.), ma non è di ostacolo all’operatività della disciplina legale di carattere inderogabile, qual è il primo comma dell’art. 2103 c.c., che preclude l’ulteriore previsione de un’indiscriminata fungibilità di mansioni per solo fatto di tale accorpamento convenzionale.
Anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva opera la garanzia dell’art. 2103 c.c. e pertanto il lavoratore addetto a determinate mansioni (che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex. art. 96 disp. att. c.c. nell’esercizio del suo potere conformativo alle iniziali mansioni alla qualifica) non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica contrattuale.
Il divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, post dall’art. 2103 c.c. nell’interesse esclusivo del medesimo, non opera quando egli chieda o accetti il mutamento in peggio al fine di evitare il licenziamento, comunque giustificato. Anche nella prospettiva collettiva può ora ritagliarsi una fattispecie che parimenti si sottrae a tale sanzione di nullità.
Da una parte può considerasi che la dimensione individuale della garanzia dell’art. 2103 c.c. riguarda essenzialmente il rapporto datore di lavoro-lavoratore ed è ispirato ad un favor lavoratoris; laddove la dimensione collettiva può vedere, in una prospettiva diversa e più generale, il bilanciamento della sommaria di tali garanzie individuali con le esigenze dell’impresa. L’equilibrio che le parti sociali possono trovare può tradursi in una clausola di fungibilità compatibile con l’art. 2103 c.c. .
In altre parole la contrattazione collettiva, nel collocare plurime e diverse mansioni nella stessa qualifica sicché il lavoratore inquadrato in quella qualifica è idoneo, e sa di poter essere chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello diverso, può disciplinare un meccanismo di fungibilità tra le mansioni di prima assegnazione e quelle successive che tenga conto delle esigenze aziendali in una necessaria prospettiva di temporaneità.
E’ quindi legittima una clausola che per contingenti esigenze aziendali (il riferimento è alle necessità di servizio dell’art. 46 c.c.n.l. Cit.) consenta al datore di lavoro l’esercizio dello jus variandi indirizzando il lavoratore verso altre mansioni contrattualmente equivalenti. Parimenti, sempre considerando la dimensione collettiva, le parti sociali possono farsi carico di un’esigenza collettiva di estrinsecazione della professionalità dei lavoratori inquadrati nella medesima qualifica.
La dimensione individuale della garanzia dell’art. 2103 c.c. crea degli steccati che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica.
Ed allora rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione (come il menzionato accordo integrativo del 20 marzo 1998) che non violano la garanzia dell’art. 2103 c.c., ma che con quest’ultima sono compatibili. Analogamente la contrattazione collettiva può prevedere percorsi formativi per creare questa professionalità potenziale e disciplinare il passaggio del prestatore, allorché tale professionalità abbia acquisito, verso queste nuove mansioni.
In tal modo può portarsi ad ulteriori sviluppi la giurisprudenza sulle mansioni promiscue e vicarie: come la contrattazione collettiva può prevedere che le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (promiscuo, appunto) di plurime attività diverse, talune anche con carattere di prevalenza ad altre, ovvero che le mansioni assegnate comprendano eventualmente anche attività vicarie di diverso livello, analogamente la stessa contrattazione collettiva può introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilitò orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste un’originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non fa.
In sintesi, ed in conclusione, va affermato come principio di diritto, che la contrattazione collettiva, se da una parte deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal primo comma dell’art. 2103 c.c. che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale, è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del secondo comma della medesima disposizione.
Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 25033 del 24 novembre 2006
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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