Il contratto derivante dalla condotta penalmente rilevante del delitto di estorsione è nullo, perché viola norme imperative.
Nel caso esaminato, la Corte d’Appello di Ancona rigettava l’appello avverso la sentenza del locale Tribunale.
In particolare, nella sentenza si davano per conosciuti i fatti di causa per come esposti nel provvedimento impugnato e come richiamati negli atti difensivi delle parti.
Si evidenziava che gli appellanti avevano fatto valere il rapporto di pregiudizialità e dipendenza tra il giudizio civile e quello penale per il reato di estorsione conclusosi con sentenza di condanna definitiva.
Il collegio evidenziava la non diretta influenza dell’illecito penale sulla validità dell’atto di autonomia privata sicché il contratto stipulato in violazione del precetto penale non poteva ritenersi nullo ai sensi dell’articolo 1418 c.c., comma 1.
La Corte d’Appello di Ancona richiamava, in tal senso, la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui, affinché possa ritenersi nullo un contratto concluso in violazione della norma penale, occorre che quest’ultima vieti direttamente il contratto come regolamento di interesse che colpisca non il comportamento materiale in sé ma gli effetti negoziali che quel comportamento realizza.
Secondo tale orientamento, ove non altrimenti stabilito dalla legge, solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anche esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti e quando, comunque, sia espressamente prevista una diversa forma di invalidità.
Nel caso di specie, pur essendo stata dedotta l’esistenza di una fattispecie estorsiva all’origine del rapporto negoziale, gli appellanti non avevano proposto l’azione di annullamento per violenza, né alcun altra domanda intesa a far valere il profilo civile della fattispecie penalmente rilevante.
Di tal che l’aspetto penalistico della vicenda restava del tutto irrilevante.
In conseguenza di tali argomentazioni, anche il secondo motivo di appello, fondato sulla vessatorietà della clausola di decadenza dal beneficio del termine, perché oggetto di imposizione estorsiva, doveva disattendersi.
L’invalidità della clausola avrebbe potuto e dovuto essere dedotta come effetto sul piano dell’accordo del vizio del consenso e in assenza di tale impugnativa contrattuale mancava la base per la declaratoria di invalidità della specifica pattuizione.
Anche l’inapplicabilità della disciplina dell’articolo 1341 c.c., era stata ben evidenziata dal primo giudice e, dunque, anche sotto questo profilo la sentenza appellata doveva essere confermata.
Veniva proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza.
La sentenza della Corte d’Appello di Ancona ha seguito l’orientamento secondo il quale deve escludersi la nullità del contratto frutto di una condotta estorsiva perché il vizio della volontà è’ causa di annullabilità e non di nullità.
La Cassazione ha ritenuto erronea tale affermazione, in quanto non tiene conto dell’evoluzione giurisprudenziale sulla c.d. “nullità virtuale” per violazione di norme penali, ovvero sul tema tradizionale del regime di invalidità del contratto stipulato per effetto diretto della consumazione di un reato.
Sul punto, proprio con riferimento al delitto di estorsione, si è affermato il seguente principio di diritto:
“Il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è affetto da nullità ai sensi dell’articolo 1418 c.c., rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in conseguenza del suo contrasto con norma imperativa, dovendosi ravvisare una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale, in particolare l’inviolabilità del patrimonio e della libertà personale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sull’annullabilità dei contratti” (Sez. 2, Sentenza n. 17959 del 2020).
La suddetta pronuncia si colloca nel solco di quelle che hanno affermato analogo principio con riguardo ad altre fattispecie delittuose.
Si è evidenziato che l’individuazione del trattamento civilistico dell’atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto (o negozio) (Sez. 3 sent. n. 26097 del 2016).
Tradizionalmente quando il negozio si è concluso commettendo un reato, si usa distinguere l’ipotesi dei reati commessi nell’attività di conclusione di un contratto, cioè dei c.d. “reati in contratto”, e l’ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sé vietato, cioè dei c.d. “reati contratto”.
In sintesi, la distinzione è la seguente:
nel caso in cui la norma incriminatrice penale vieti proprio la stipulazione del contratto, in ragione dell’assetto degli interessi che esso mira a realizzare, si è al cospetto del c.d. “reato-contratto” (es. la vendita di sostanze stupefacenti; la ricettazione ex articolo 648 c.p.; il commercio di prodotti con segni falsi ex articolo 474 c.p.);
allorché, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta posta in essere da uno dei contraenti in danno dell’altro nella fase della stipulazione, rileva la categoria concettuale del c.d. “reato in contratto” (si tratta, per lo più, delle fattispecie di reato caratterizzate dalla cooperazione artificiosa della vittima come la violenza privata ex articolo 610 c.p., l’estorsione ex articolo 629 c.p., la circonvenzione di persona incapace ex articolo 643 c.p., l’usura ex articolo 644 c.p.).
In merito ai c.d. reati in contratto la giurisprudenza di legittimità ha elaborato due distinti criteri per giudicare dell’invalidità del negozio concluso commettendo il reato: uno, di natura sostanziale, che tende a privilegiare la verifica della natura della norma penale violata, per valutare se si tratti di norma imperativa di ordine pubblico o comunque di rilevanza pubblica, perché posta a tutela di un interesse generale, sicché solo in tale eventualità il contratto che la viola si ritiene affetto da nullità perché in contrasto coll’articolo 1418 c.c., comma 1;
un altro, di natura formale, che tende a privilegiare la verifica del vizio introdotto nel contratto a seguito della consumazione del reato, e dei possibili rimedi di tipo civilistico, secondo la rilevanza che la condotta vietata assume in questo ambito, sicché se la condotta del contraente – pur penalisticamente rilevante – comporti soltanto un vizio del consenso della controparte, il contratto si ritiene affetto da annullabilità, non da nullità (sul punto Sez. 3 sent. n. 26097 del 2016).
La Corte di Cassazione si è orientata nel senso di privilegiare il primo dei due criteri interpretativi perché piu’ coerente col disposto dell’articolo 1418 c.c., comma 1, alla stregua di quella che è l’interpretazione più accreditata del sintagma contrarietà a “norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente” ivi contenuto.
Ed invero si deve osservare che la nullità del negozio è lo strumento predisposto dal legislatore per realizzare o non frustrare, per il tramite di esso (e non soltanto della condotta dei contraenti, anche quando si tratti di violazione di divieti soggettivi di contrarre), interessi di carattere generale protetti dall’ordinamento.
Pertanto, la violazione della norma penale dà luogo ad un negozio nullo ogni qual volta la disposizione violata si connoti come norma penale di ordine pubblico nel senso che l’interesse o il bene giuridico protetto dalla norma assume una connotazione pubblicistica (secondo una tesi dottrinale che restringe la nozione di norma inderogabile a quella, appunto, di interesse e di ordine pubblico; seguita, da ultimo, da Cass. n. 7785/16) ovvero solo quando la norma penale, tenuto conto della sua ratio, tutela interessi generali di rilevanza pubblica.
Nella sentenza della Sez. III n. 26097 del 2016, sopra citata, si è ritenuto essere emblematica, in proposito, la giurisprudenza in tema di contratti conclusi da uno dei contraenti, mediante truffa o mediante circonvenzione di incapace.
Quanto al primo, è consolidato l’orientamento secondo cui il contratto concluso per effetto di truffa, penalmente accertata, di uno dei contraenti in danno dell’altro è non già radicalmente nullo (ex articolo 1418 c.c., in correlazione all’articolo 640 c.p.), ma solo annullabile, ai sensi dell’articolo 1439 c.c., atteso che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente, neanche sotto il profilo dell’intensità, diverso da quello che vizia il consenso negoziale, entrambi risolvendosi in artifizi o raggiri adoperati dall’agente e diretti ad indurre in errore l’altra parte e così a viziarne il consenso.
Pertanto, il contratto concluso non è nullo, né tanto meno inesistente, ma soltanto annullabile per vizio del consenso (così, da ultimo, Cass. n. 18930/2016, vedi anche Cass. n. 7468/2011).
Quanto al secondo reato, si è affermato nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento secondo il quale il contratto effetto di circonvenzione d’incapace, punito dall’articolo 643 c.p., deve essere dichiarato nullo ai sensi dell’articolo 1418 c.c., per contrasto con norma imperativa, giacché va ravvisata una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti (così Cass. n. 10609/2017, Cass. n. 7785/2016 e Cass. n. 2860/2008).
I due diversi orientamenti, in relazione alle diverse ipotesi di reato, sono entrambi coerenti con l’interpretazione dell’articolo 1418 c.c., cui si intende aderire, atteso che, nel primo caso, la norma penale violata (articolo 640 c.p.) mira a tutelare un interesse privo di rilevanza pubblica, quale è quello connesso al patrimonio del soggetto passivo; nel secondo caso, la norma penale violata (articolo 643 c.p.) mira a tutelare esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela della libertà di autodeterminazione dell’incapace.
Sulla base di questa ricostruzione, nella successiva pronuncia n. 17959 del 2020, si è ricondotta alla seconda delle due ipotesi di c.d. “reati in contratto” la fattispecie oggetto di ricorso che attiene alla stipulazione di un contratto frutto della condotta estorsiva di una parte nei confronti dell’altra che ha stipulato i contratti oggetto della domanda di nullità per effetto della violenza o minaccia subita.
Si è evidenziato, infatti, che secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di legittimità, l’oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è costituito dal duplice interesse pubblico della inviolabilità del patrimonio e della libertà personale (Cass. pen. Sez. 3, Sent. n. 27257 del 2007).
Inoltre, è consolidato l’orientamento secondo il quale, nell’estorsione patrimoniale, che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute piu’ confacenti ed opportune.
Inoltre, si è sottolineato che l’interesse pubblico sotteso alla salvaguardia delle vittime dei reati di estorsione, già desumibile da quanto detto, emerge con tutta evidenza nella legislazione speciale volta ad offrire loro un sostegno di tipo economico.
Il delitto di estorsione, infatti, è considerato di estremo allarme sociale per la sua endemica diffusione sul territorio e per la sua nefasta incidenza sul tessuto economico della collettività.
Al centro di tali iniziative legislative vi è l’istituzione del fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura.
Il primo provvedimento in questo senso è rappresentato del Decreto Legge 31 dicembre 1991, n. 419, (Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive), convertito dalla L. 18 febbraio 1992, n. 172, L. n. 419 del 1991, che ha istituito per la prima volta il fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive.
Sono seguite numerose altre leggi a tutela delle vittime del delitto di estorsione (a solo titolo esemplificativo Decreto Legge 27 settembre 1993, n. 382, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 novembre 1993, n. 46; L. 23 febbraio 1999, n. 44, L. 28 dicembre 2001, n. 448, Decreto del Presidente della Repubblica n. 19 febbraio 2014, n. 60, Decreto Legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, L. n. 3 del 2012).
Le ragioni che ispirano tale legislazione sono variegate: oltre all’intento solidaristico vi è anche quello di dare sostegno alle attività economiche delle vittime, che altrimenti potrebbero cadere nelle mani della criminalità organizzata; inoltre, in tal modo l’intento del legislatore è di aumentare il numero di denunce per rendere sempre piu’ incisiva l’azione di contrasto a tali attività criminali, e “dimostrare” che è possibile sottrarsi alle minacce e alla violenza delle organizzazioni criminali.
In ogni caso, ciò che rileva è l’evidente connotazione e dimensione pubblicistica della tutela delle vittime dei reati di estorsione, quale indice sicuro della sussistenza di esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti.
Sulla base di tali considerazioni si è affermato che la fattispecie penale del delitto di estorsione è posta indiscutibilmente a tutela di interessi non soltanto di tipo patrimoniale, ma anche di diritti inviolabili della persona, quali appunto la libertà personale, e di interessi generali della collettività.
Il contratto concluso per mezzo di una condotta estorsiva, pertanto, è stipulato in violazione di norme imperative e, pur in assenza di una sanzione esplicita, è nullo per lesione dell’interesse generale di ordine pubblico tutelato dalla norma violata.
D’altra parte, già le Sezioni Unite con la sentenza n. 26724 del 2007, dopo aver ricostruito la tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto, hanno evidenziato che, seppure deve rimanere ferma la tesi secondo la quale le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente sono quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti, tuttavia deve assecondarsi la direzione intrapresa da quella giurisprudenza che tende a ricondurre al vizio della nullità anche la violazione di norme che riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura, come ad esempio accade per il delitto di circonvenzione d’incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n, 12126; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre 1994, n. 8948).
Proprio con riferimento a tale ipotesi, le Sezioni Unite hanno affermato l’esigenza di rimeditare se, ed entro quali limiti, l’illiceità penale della condotta basti a giustificare l’ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile e che l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’articolo 1418 c.c., comma 1, è in effetti piu’ ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo.
Viene meno, dunque, l’obiezione di coloro che ritengono che la limitazione di cui all’articolo 1418 c.c., comma 1, sarebbe di impedimento per accedere alla tesi della nullità, perché le norme poste a presidio in questi casi sono gli articoli 1434 e 1435 c.c., che prevedono l’annullabilità del contratto.
In conclusione, deve riaffermarsi che il contratto derivante dalla condotta penalmente rilevante del delitto di estorsione è nullo, perché viola norme imperative, è contrario all’ordine pubblico e costituisce il profitto del reato, così assumendo un chiaro connotato di illiceità.
Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Ordinanza n. 17568 del 31 maggio 2022
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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