La fattispecie inquadrata dalla Suprema Corte è la persistente e costante omissione di pagamento del canone da parte del debitore e la correlata costante omissione di richiesta del pagamento da parte della locatrice, nel caso in esame società a responsabilità limitata a struttura marcatamente personale e familiare, seguita – appunto dopo una persistenza annosa – dalla repentina richiesta “in blocco”, cioè di immediato pagamento di tutto l’arretrato determinatosi, allorché le situazioni interne e familiari tra i soci sono mutate e divenute conflittuali.
La Corte di merito ha visto il comportamento di protratta inerzia del creditore qualificarsi, come un comportamento che, in un esteso arco temporale e fino a che i rapporti non sono mutati, ha ingenerato un oggettivamente corretto affidamento nel debitore di non dovere alcunché; sicché la repentina richiesta di adempimento risulta un venir meno all’affidamento derivato dall’abdicazione del diritto, comportando un sacrificio eccessivo per il debitore sino ad allora non escusso, e ciò in ragione dei rapporti sottostanti tra le parti, evidentemente collegati ad assetti sociali e familiari che sono mutati nel tempo, fino a infrangersi definitivamente.
Il giudice d’appello ha considerato la “inerzia” del creditore, per il periodo dal 2004 al 2011, come adempimento dell’obbligo di buona fede contrattuale nel senso di tutela dell’interesse della controparte a non vedersi colpita da una pretesa divenuta, nel frattempo, esorbitante.
Raggiunta una certa dimensione temporale nella protrazione del mancato esercizio del diritto, tale da “stabilizzare” il relativo affidamento, in effetti – a ben guardare – l’interesse della controparte che verrebbe così tutelato non coincide con l’interesse a non adempiere nonostante il diritto non si sia estinto per prescrizione o non sia stato rinunciato, bensì l’interesse a vedersi salvaguardata in una situazione in cui l’esercizio del diritto urti contro sue legittime aspettative collegate al comportamento di inerzia sin lì assunto dal creditore, “non risultando per quale ragione la locatrice, dopo avere trascurato per anni i propri crediti, di scadenza in scadenza, abbia agito chiedendo il pagamento dell’intero scaduto, maturato in sette anni, rendendo oltre modo gravoso l’adempimento del conduttore”.
Nel decidere, la Corte di merito ha fatto menzione di un precedente giurisprudenziale, riferito alla sentenza n. 5240/2004 della Suprema Corte, per mezzo della quale il giudice di legittimità ha chiarito che la teoria, di origine tedesca, della Verwirkung (consumazione dell’azione processuale) non trova facile ingresso nell’ordinamento italiano, per il quale il mero ritardo nell’esercizio di un diritto non costituisce motivo per negarne la tutela, a meno che tale ritardo non sia la conseguenza fattuale di una inequivoca rinuncia tacita o modifica della disciplina contrattuale o non sia sollevata l’eccezione di estinzione del diritto per prescrizione; tale principio è stato ripreso, con conseguenze differenti, dalla Corte di cassazione, sez. I, con sentenza n. 23382 del 15 ottobre 2013 per affermare che, in difetto di deduzione e prova di tale evenienza, in un rapporto di lunga durata quale il contratto di affidamento bancario è legittima la revoca dell’affidamento intimata dalla banca pur dopo avere a lungo tollerato gli sconfinamenti dai relativi limiti da parte del correntista; così la stessa ratio si sarebbe seguita in un caso in cui la Corte di cassazione ha ritenuto tempestiva, e non contraria alla buona fede, l’impugnazione giudiziale di licenziamento proposta due giorni prima della scadenza del termine di prescrizione quinquennale (Sez. L -, Ordinanza n. 1888 del 28/01/2020).
Pertanto, stando alla richiamata giurisprudenza, la figura dell’affidamento che “disinnesca” l’esercizio del diritto per il collocamento temporale di questo potrebbe venire in gioco nella ristretta ipotesi in cui il ritardo non costituisca un comportamento di mera tolleranza del creditore, ma corrisponda a un comportamento tale, in termini temporali e di assoluta costanza, da ingenerare nel debitore un affidamento di oggettiva rinuncia del diritto, nella misura in cui sia dimostrato che esso non comporti un apprezzabile sacrificio a carico del creditore, id est una – effettiva nel contesto reale del rapporto lesione del suo interesse; sicché il repentino esercizio del diritto da parte del creditore costituisce violazione di un vero e proprio dovere giuridico “che trova un limite soltanto nell’interesse proprio del soggetto, il quale è tenuto al compimento di tutti quegli atti necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”.
Più in generale, quel che incide per giustificare una siffatta pretesa di “adempimento dell’obbligo di buona fede” da parte del creditore in un contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata è la situazione riferibile a una contingente onerosità eccessiva, come quella che può derivare da momenti storici di grave crisi economica determinata da imprevedibili fattori (paragonabili alla pandemia attuale).
Un’applicazione dell’obbligo di buona fede entro una qualche misura approssimabile (pur essendo il tema qui sostanziale) all’istituto della “Verwirkung” di matrice germanica, in ipotesi, potrebbe dunque aversi con riguardo ai rapporti contrattuali in essere in tempo di oggettiva crisi economica, soprattutto di durata, tra i quali si annovera il contratto di locazione, nel caso in cui il pagamento del canone, che matura periodicamente, divenga in detta area temporale eccessivamente oneroso per il conduttore, in presenza di obiettive e dimostrate circostanze, onde il locatore sia tenuto a conformare la sua condotta esecutiva del negozio nel senso di non pretendere, per un circoscritto periodo di tempo, il pagamento del canone, ovvero accetti un minore importo, il tutto pur senza mutare i termini del contratto, che solo per questo non si potrebbe pertanto risolvere per inadempimento del conduttore.
In tale situazione, difatti, è lo stesso creditore che in ultima analisi accetta nella fase esecutivo-dinamica del sinallagma, per obbligo di buona fede nel senso di solidarietà, in un determinato arco di tempo e in relazione a obiettive circostanze non collegate solamente alla situazione di insolvenza del debitore, un inadempimento come giustificato al fine di conservare gli effetti positivi del contratto (in altri termini lo sfruttamento economico del bene, da reputarsi suscettibile di un futuro riavvio), altrimenti non piu’ recuperabili.
Nella fattispecie in esame è in atti pacifico che il decorso del tempo, sette anni, nell’ambito del contratto di durata per il quale sono stati pattuiti corrispettivi rateizzati a favore del locatore e a carico del conduttore, ha determinato la maturazione di interessi al tasso legale, da tempo notoriamente inferiore al deprezzamento della moneta.
La Corte di merito ha cionondimeno ritenuto che, nel caso specifico, il debitore, in relazione alle circostanze del caso e ai rapporti sociali e familiari connessi al rapporto locatizio, si è trovato improvvisamente a dovere fronteggiare una richiesta di pagamento per una somma che con il trascorrere del tempo è divenuta esorbitante rispetto alla misura periodica concordata.
Sicché, anche solo ritornando a ragionare in termini economici, la condotta di inerzia del creditore avrebbe leso in ultima analisi proprio il debitore, incorso in un ragionevole affidamento nel senso di intervenuta sostanziale remissione per facta concludentia compiuta da controparte in relazione ai canoni locatizi.
In merito a questa lettura dell’elastico canone della buona fede applicata dalla Corte di merito, gli studiosi italiani si sono dibattuti sulla possibilità di riconoscere l’istituto della Verwirkung anche all’interno del nostro sistema.
Questo istituto fu elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina tedesche dopo l’entrata in vigore del codice civile unitario del Secondo Reich, il BGB, nel 1900.
La Verwirkung, invero, si colloca nell’ambito della dottrina dell’abuso del diritto, nata a partire dalle disposizioni dei paragrafi del BGB § 226 (divieto di utilizzo di diritti soggettivi al solo scopo di ledere un terzo, cosiddetti atti emulativi), § 826 (risarcimento del danno doloso contrario al buon costume) e soprattutto § 242 (buona fede nell’esecuzione della prestazione).
Generalmente si ritiene che la Verwirkung sia una rinuncia tacita all’azione; per altri è invece una forma di decadenza dall’esercizio di un diritto soggettivo.
Autorevole dottrina, poi, ritiene si tratti di perenzione dell’azione, ben distinta dalla rinuncia tacita all’azione, e quindi una forma di consumazione dell’azione processuale collegata al diritto in questione.
Va rilevato che, in virtu’ di tale accezione dell’obbligo solidaristico in sede contrattuale, negli ordinamenti di area continentale Europea tende vieppiù ad affermarsi il principio, basato appunto sulla clausola di buona fede, di matrice romanistica, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione possa integrare un abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente negazione della tutela.
Al di là delle definizioni teoriche, pertanto, la Verwirkung nel senso appunto di abuso del diritto nel senso di subitaneo e ingiustificato revirement rispetto a una sua protratta opposta modalità di esercizio (a ben guardare, anche la remissione è una forma di esercizio del diritto, potendo concederla solo chi ne è titolare) costituisce un istituto idoneo a venire in gioco, anche nel nostro ordinamento, allorché appunto si prospetti un abusivo esercizio del diritto dopo una prolungata inerzia del creditore o del titolare di una situazione potestativa che per lungo tempo è stata trascurata e ha ingenerato un legittimo affidamento nella controparte.
In tal caso, a seconda delle circostanze, può ravvedersi, nel tempo, un affidamento dell’altra parte nell’abbandono della relativa pretesa, idoneo come tale a determinare la perdita della situazione soggettiva nella misura in cui il suo esercizio si riveli un abuso.
Il canone generale della buona fede che regola infatti anche la dinamica contrattuale, cioè l’intrecciarsi degli opposti diritti/interessi nella esecuzione di quanto si è cristallizzato nel patto negoziale, impedisce che i diritti siano esercitati in modalità astratte, imponendo invece il rispetto dell’affidamento che questa ha acquisito proprio in conseguenza della modalità esecutiva fino ad allora praticata, l’affidamento costituendo una species di interesse insorto da una specifica percezione della dinamica contrattuale in atto.
Dinamica che peraltro l’insorgenza di tale affidamento conduce ad una stabilizzazione favorevole, che può essere infranta dalla controparte soltanto, appunto, con un abuso, che concretizza, nel fondo della sua sostanza, la violazione del canone di solidarietà che, pur essendo contrapposti gli interessi delle parti contrattuali, costituisce il background della confluenza di detti interessi nel negozio stipulato, e permane quindi, come regola fondante, nella sua esecuzione, id est nel suo reciproco adempimento.
Trattandosi dunque di una species di abuso del diritto, questo sarebbe rilevabile d’ufficio dal giudice ove risultasse dalle allegazioni processuali, e non sarebbe necessaria l’exceptio di parte, come prevede l’articolo 2938 c.c., per la prescrizione, essendo sufficiente una eccezione in senso lato.
La clausola generale di buona fede e correttezza, di cui l’abuso del diritto integra una peculiare violazione ut supra evidenziato, è operante appunto in via di reciprocità tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (articolo 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione di un contratto (articolo 1375 c.c.), specificandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto per come originariamente posti.
Essa, pertanto, obbliga, da un lato, a salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10182 del 04/05/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5240 del 2004; Cass. 8 febbraio 1999, n. 1078).
Più precisamente, il principio di correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al Codice Civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” – opera come un criterio di reciprocità e, una volta collocato nel quadro di valori introdotto dalla Carta Costituzionale, deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” dettati dall’articolo 2 Cost..
La sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Sez. L, Sentenza n. 4057 del 16/02/2021; Sez. 3, Ordinanza n. 24691 del 05/11/2020;Cass. n. 12310/1999).
Conseguentemente, secondo l’indirizzo costante sopra richiamato, ripreso anche da recente giurisprudenza, la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, ma trova tuttavia il suo limite precipuo nella misura in cui detto comportamento non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico, una volta comparato con la gravosità imposta sull’altro contraente, solo in questo ristretto ambito potendosi fare riferimento all’istituto della Verwirkung (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10549 del 03/06/2020; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10182 del 04/05/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5240 del 15/03/2004).
A tale riguardo, pertanto, il ritardo – rispetto ai tempi prestabiliti nel regolamento negoziale – di una parte nell’esercizio di un diritto (nel caso di specie, diritto di agire per far valere l’inadempimento della controparte di un’ obbligazione periodica di pagamento) può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun circostanziato interesse del suo titolare, correlato ai termini e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la sola controparte.
Pertanto, in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ricondurre il comportamento inerte del creditore entro la ristretta cornice di inerzia costituente una remissione per facta concludentia generativa di correlato affidamento nella controparte, riferita al comportamento di buona fede e al bilanciamento degli interessi in gioco in fase di esecuzione del contratto, a livello di sistema, in linea di principio, non si pone una questione di accertamento se il tardivo esercizio del diritto sia conforme a buona fede nell’esecuzione del contratto oneroso a prestazioni corrispettive, qualora detto ritardo comporti un apprezzabile sacrificio del creditore a vantaggio esclusivo del debitore, ma piuttosto una questione di volontà del titolare di esercitare il diritto in modalità remittente rispetto alla quale poi il titolare stesso intenda effettuare a notevole distanza temporale un abusivo revirement, a parte l’ipotesi, naturalmente, che si sia nelle more maturata la prescrizione del diritto, la quale venga eccepita.
Per questa via, si è giunti a ravvisare un abusivo esercizio del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono stati attribuiti.
Ricorrendo tali presupposti, si è stabilito che è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto (o di atti emulativi), oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché quel che viene censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15510 del 21/07/2020 (Rv. 658497 – 01), in materia di imposte e tributi; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10324 del 29/05/2020 (Rv. 658010 – 01) in caso di abusivo recesso ad nutum; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 30555 del 22/11/2019 (Rv. 656208 – 01); Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 15705 del 23/06/2017 (Rv. 644624 – 01), in materia condominiale; Cass.Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009, in materia di recesso ad nutum in un rapporto di concessione di vendita a esecuzione continuata).
Il problema centrale è che, in tutte le ipotesi considerate dalla giurisprudenza, la valutazione di un tale atto di esercizio abusivo del diritto deve essere ricondotta in un ambito di “conflittualita’” che faccia perdere di vista gli interessi regolati dal contratto.
Ovvero, posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui sono portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati rispetto agli interessi regolati convenzionalmente (cfr. Cass.Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009: in applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la decisione del concedente di recedere ad nutum dal contratto di concessione di vendita, sul presupposto che tale diritto gli era espressamente riconosciuto dal contratto; v. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17642 del 15/10/2012; Sez. L, Sentenza n. 15885 del 15/06/2018 (Rv. 649311 – 01)).
Ne consegue che, al di fuori di questa ristretta cornice di atto rivelatore di una volontà di nuocere la controparte, il semplice fatto di ritardo nell’esercizio di un proprio diritto, se corrisponde a un apprezzabile interesse per il titolare nei limiti e secondo le finalità del contratto, non dà luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e non è causa per escludere la tutela dello stesso diritto, qualunque convinzione la controparte possa essersi fatta per effetto del ritardo.
Diversa questione, come si è sopra accennato, è la possibilità che l’inerzia sia solo la conseguenza fattuale di una rinunzia tacita all’esercizio del diritto, e quindi di una manifestazione di volontà abdicativa da parte del titolare perdurata per un apprezzabile lasso di tempo (nel caso di un diritto di credito, come già si evidenziava, una remissione per facta concludentia, per la quale modalità, logicamente, incide proprio la protrazione temporale dell’apparente inerzia).
In questo diverso caso, espressione di volontà abdicativa, non vi è un problema di “non concessione” di tutela giuridica di un diritto per sleale ritardo nel suo esercizio, ma di abdicazione del diritto stesso riconducibile alla volontà del creditore per facta concludentia.
Infatti, è pacifico che la mera tolleranza del creditore non può giustificare l’inadempimento, né comportare per se stessa modificazioni alla disciplina contrattuale, non potendosi presumere una completa acquiescenza alla violazione di un obbligo contrattuale posto in essere dall’altro contraente, né un consenso alla modificazione suddetta da un comportamento equivoco, come è normalmente quello di non avere preteso in passato l’osservanza dell’obbligo stesso, in quanto tale comportamento può essere ispirato da benevolenza piuttosto che essere determinato dalla volontà di modificazione del patto, come si è sopra detto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5240 del 2004; Cass. 20 gennaio 1994, n. 466; Cass. 15 dicembre 1981, n. 6635).
Ciò che conta, in caso di inerzia significativa di un atto di rinuncia di colui che vanta un diritto corrispondente a un obbligo altrui, è che vi sia una manifestazione di volontà del creditore, per quanto in forma tacita, desumibile anche da un comportamento incompatibile con il mantenimento di una determinata disciplina contrattuale che preveda quel determinato diritto.
Ne consegue che, anche in questo caso, il mero ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso, ma non tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che risulti – accertamento riservato ovviamente al giudice di merito- che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca e circostanziata rinuncia tacita o di modifica della disciplina contrattuale.
Nel caso in esame, dunque, per quanto accertato in punto di merito, non è stato il silentium in quanto tale la manifestazione di assoluta rinuncia al diritto della locatrice, quale espressione contrattuale di volontà tacita nella forma di comportamento concludente.
Piuttosto, l’esercizio repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto per quanto detto sopra e ha comportato, altresì, la negazione di tutela dell’interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze nelle quali il giudice di merito illustrando ciò con adeguata motivazione – ha riscontrato un conflitto tra le parti determinatosi per altre questioni, pacificamente non collegate al contratto.
Ciò conduce proprio alla esatta identificazione dell’istituto da applicarsi: i diritti disponibili in quanto tali possono essere oggetto di rinuncia anche se sono stati inseriti in un sinallagma contrattuale, e la rinuncia può essere effettuata a mezzo di fatti concludenti, vale a dire come forma specifica di esecuzione del contratto dalla parte del creditore.
Dove il comportamento inerte di quest’ultimo non è ascrivibile a rinuncia, come nel caso concreto è risultato, ma a un – ben protratto – prodromo di un esercizio abusivo del diritto, il decorso di un tale spiccato periodo di tempo di oggettiva apparenza remittente non può non assumere valore ai fini dell’estinzione/consumazione del diritto per il periodo de quo, trattandosi di diritto a esecuzione continuata e periodica.
Pertanto, indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione.
Nella fattispecie locatizia, in generale, quello che può evidentemente essere idoneo a costruire l’affidamento del conduttore nel senso di una oggettiva rinuncia è un comportamento del locatore di totale inerzia nella riscossione delle pigioni maturate per un protratto periodo di tempo, che si inserisce infatti nella natura del contratto, ad esecuzione continuata, in cui il correlato adempimento da parte del conduttore non è operato con un unico atto bensì si attua in via progressiva.
Come, peraltro, a contrario, si verifica nel caso di cui all’articolo 1458 c.c., comma 1, con riguardo agli effetti retroattivi della risoluzione del contratto ad esecuzione continuata, la progressività dell’esecuzione incide altresì sulla pregnanza della condotta del creditore nella fase esecutiva, e conduce quindi alla percezione di questa come oggettiva abdicazione del potere di far valere il diritto, rinuncia che riguarda, appunto, la fase esecutiva mentre, naturalmente, non ha relazione con un mutuo dissenso dal contratto, che rimane “in piedi” ed è in grado di riprendere vita, come è avvenuto nella presente vicenda quando la locatrice ha modificato repentinamente la sua condotta di inerzia settennale.
In siffatto contesto, collegato alla causa del contratto di locazione e alla protratta inerzia del locatore nel richiedere il pagamento del corrispettivo di locazione per oltre sette anni, la repentina richiesta di adempimento per la parte del credito eventualmente non caduta in prescrizione è da valutarsi alla stregua dell’esercizio abusivo del diritto, e dunque in violazione di obblighi solidaristici collegati alla salvaguardia dell’interesse del conduttore a non perdere una acquisita situazione di vantaggio determinatasi a suo esclusivo favore, laddove non si dimostri di avere sino a quel tempo comportato un apprezzabile sacrificio per il locatore, rimasto inerte sin dall’origine, a fronte del grave onere imposto repentinamente sulla controparte.
L’accertamento fattuale della eventuale violazione della fondamentale obbligazione solidaristica in un caso come quello di cui si tratta, laddove si consideri che il rapporto negoziale si era formalmente instaurato tra una società commerciale con accentuato carattere personalistico e una naturale flessibilità dell’organizzazione sociale – come è oggi intesa la società a responsabilità limitata -, proprietaria del bene locato, e un socio, non può d’altronde – si nota peraltro ad abundantiam – non tener conto della mutazione di comportamento della società creditrice non appena il socio è, nei fatti, forzosamente uscito dalla compagine sociale e i rapporti con il socio di riferimento, il padre, si sono incrinati per vicende estranee alla conduzione della società e del contratto di locazione; pertanto, la iniziativa della società di attivarsi, tra l’altro in un contesto di accesa conflittualità tra soci, appartenenti a un medesimo contesto familiare, dopo che la società per anni era rimasta inerte senza fornire adeguata giustificazione, è da ritenersi un comportamento certamente innaturale in un contesto societario ove le questioni interne tra i soci non sono normalmente in grado di mutare l’assetto degli interessi sottesi al contratto sociale, se non cristallizzati in altrettanti reciprochi impegni tra la società e i soci (Sez. 1, Sentenza n. 12956 del 22/06/2016; Sez. 1, Sentenza n. 14629 del 21/11/2001).
Non si dimostra nemmeno attagliata alla fattispecie in analisi l’istituto della tacita inequivoca rinuncia ai diritti maturati sino a un determinato periodo, in considerazione del fatto che la protratta e permanente situazione di inadempienza del socio non è stata approvata in ambito societario, per un considerevole lasso di tempo, essendo solo mancata ogni iniziativa tesa a far valere il suddetto credito (portato da fatture per le quali sono stati versati, tra l’altro, oneri tributari), soprattutto se si rapporta l’inerzia a un contratto di lunga durata i cui canoni di locazione sono maturati periodicamente a favore della società.
Sul punto la Suprema Corte si è già espressa nel senso che “la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco e un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo se è privo di alcun’altra giustificazione razionale; ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito” (cfr. Cass. Sez. 3 Ordinanza n. 28439 del 14/12/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva escluso che la mera omissione dell’indicazione di un credito nel bilancio finale di liquidazione potesse ritenersi indice certo della volontà di rinunciarvi).
Pertanto, il criterio da seguirsi, anche solo considerando il profilo societario invocato dai medesimi ricorrenti è, come per ogni altra ipotesi, riferito alla sostanza dei rapporti intervenuti tra le parti nell’arco di periodo considerato, che comunque vanno interpretati secondo il principio dell’affidamento, qualora si presentino nei fatti e nel corso del tempo profondamente difformi rispetto a quanto formalmente rappresentato per iscritto e nelle scritture contabili (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15510 del 21/07/2020 (Rv. 658497 – 01), Sez. 5, Sentenza n. 4561 del 06/03/2015 (Rv. 635403 – 01) in materia di imposte e tributi).
Ragionando secondo questi principi, quindi, è sostenibile che un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall’origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio.
Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l’intento di arrecare un ingiustificato nocumento.
Ciò che conta, in definitiva, è che la valutazione dell’atto teso a far rivivere l’obbligazione deve essere ricondotta alla “conflittualità” esistente tra le parti.
Come si è già detto, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati, che la Corte di merito, con motivazione conforme ai principi sopra esposti, ha ritenuto non sussistere, in relazione alle particolari circostanze del caso.
Tale giudizio fattuale, essendo in linea con la giurisprudenza sopra richiamata, pertanto non è censurabile nel merito e risulta adeguatamente motivato sulla base delle circostanze portate all’esame della Suprema Corte.
Con riguardo alla fattispecie in esame deve, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del “neminem laedere”; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto.
Corte di Cassazione, Sezione 3, Sentenza n. 16743 del 14 giugno 2021
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.