REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Civile, riunita in camera di consiglio nelle persone dei sigg. magistrati:
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA n. 316/2021 pubblicata il 28/05/2021
nella causa civile in grado di appello iscritta al n. /2016 R.G., introitata in decisione all’udienza collegiale del 9 novembre 2020 e vertente
TRA
XXX, (C.F.), nato a
APPELLANTE
E
CURATELA DEL FALLIMENTO “YYY” (C.F.), in persona del Curatore p.t.,
APPELLATA/APPELLANTE IN VIA INCIDENTALE
NONCHE’
ZZZ (C.F.), KKK (C.F.), JJJ (C.F.), QQQ (C.F.), PPP (C.F.), SSS (C.F.), TTT (C.F.), e LLL (C.F.)
APPELLATI
OGGETTO: Appello avverso la sentenza del Tribunale di Reggio Calabria n. 865/2015 del 26.06.2015.
CONCLUSIONI
In riferimento all’udienza del 09.11.2020, svoltasi in modalità telematica, i procuratori delle parti hanno precisato le conclusioni mediante istanza di assegnazione a sentenza presentata telematicamente, rispettivamente, il 03.11.2020, il 02.11.2020 ed il 02.11.2020, ovvero, per quanto riguarda XXX:
”Chiede che l’ Ecc.ma Corte d’Appello di Reggio Calabria, ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattese, in totale riforma della sentenza n. 865/2015, (voglia n.d.r.) accogliere l’atto d’appello e, per l’effetto, rigettare la domanda di acquisto per usucapione dei beni del diritto di proprietà così come proposta dai sigg. ZZZ, KKK, JJJ, QQQ, PPP, SSS, TTT ed LLL, in quanto improponibile e/o infondata in fatto e in diritto e, comunque, non provata.
Con vittoria di spese e competenze di giudizio …“;
per la CURATELA DEL FALLIMENTO “YYY”:
“…voglia l’intestata Ecc.ma Corte, contrariis reiectis, ritenere fondate le doglianze spiegate avverso la Sentenza nr. 865/2015 del Tribunale di Reggio Calabria – composizione monocratica e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata statuizione,
1) preliminarmente, accertare e dichiarare l’improcedibilità della domanda attorea, in ragione del puntuale principio predicato anche dal Giudice della nomofilachia, dirimente per il difetto di efficacia del possesso “ad usucapionem” allorché si esplichi durante la procedura concorsuale, essendo esso opponibile al fallimento solo “ove la fattispecie acquisitiva si sia completamente perfezionata anteriormente all’apertura della procedura” e non quando, come avvenuto nella specie, sia ancora in itinere durante la procedura medesima; con carattere assorbente, su ogni altra difesa interposta dal Fallimento;
2) nel merito, in ipotesi di mancato accoglimento della superiore conclusione, valorizzati i seguenti motivi di appello: erronea valutazione delle risultanze istruttorie – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. – violazione falsa applicazione degli artt. 1158 e 1163 c.c. – violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1141, 1164 c.c. – infondatezza della domanda – erroneità ed ingiustizia della decisione sui relativi punti, rigettare la domanda di parte attrice, poiché manifestamente infondata in punto di fatto e di diritto, oltre che carente degli imprescindibili presupposti che, in astratto, dovrebbero connotare la contraria istanza ed, infine ma non ultimo, perché sfornita di adeguata e rigorosa impalcatura probatoria;
3) segnatamente, previo accertamento della lacunosità, gracilità e vulnerabilità del materiale probatorio, soprattutto ove rapportato ai rigorosissimi criteri dettati dall’elaborazione giurisprudenziale nella peculiare materia dell’usucapione, rigettare le domande avversarie poiché gli attori in primo grado non hanno provato né l’interversio possessonis, né, a tutto concedere, in modo inoppugnabile, la loro volontà di possedere il bene “uti dominus” e non più “uti condominus”, né, infine ma non ultimo, il dies a quo in cui si sarebbe palesata tale inequivoca sopravvenuta determinazione, ai fini della verifica del decorso del ventennio;
4) circa la domanda riconvenzionale, svolta in primo grado, ma non scrutinata avuto riguardo alla decisione assunta dal Tribunale, l’appellante incidentale insiste affinché, una volta accertato e dichiarato, in virtù della declaratoria di improcedibilità della primitiva domanda avversaria o, nel merito, di accoglimento del presente gravame, che gli attori occupano abusivamente, comunque sine titulo, il
50 % dell’intero immobile meglio indicato nel contrario libello introduttivo del giudizio di primo grado e circostanziato nella relativa sentenza, condannare gli attori all’immediato rilascio della porzione di immobile, pari al 50% dell’intero, di pertinenza del Fallimento, libero e sgombero da persone e/o cose; il tutto anche in considerazione degli interessi eminentemente pubblicistici sottesi ad ogni Procedura Concorsuale;
ovvero, nella denegata ipotesi in cui tale istanza non potesse essere beneficiata di positiva valutazione, in considerazione dell’eventuale impossibilità di attuare l’invocato provvedimento di rilascio, senza compromettere la fisiologica fruibilità delle distinte unità residenziali, voglia l’intestata Ecc.ma Corte d’Appello fissare un equo indennizzo mensile, da determinarsi in corso di causa, per il godimento, abusivo o senza titolo, della metà di immobile intestato alla Procedura resistente; condannando, essi istanti, in solido tra loro, ovvero in ragione delle rispettive solitarie usurpazioni, al pagamento di tale corrispettivo con decorrenza dalla data di pubblicazione della Sentenza di secondo grado;
in pari tempo, si compiaccia la Curia adita, per i motivi sopra esplicitati, di condannare gli stessi occupanti abusivi della res, in solido tra loro, ovvero in ragione delle rispettive solitarie usurpazioni, alla corresponsione, a favore della Curatela, di un risarcimento e/o indennizzo a titolo di equo corrispettivo per l’illegittimo godimento del fabbricato e delle varie unità residenziali, dal momento dell’illecita occupazione e sino alla data della Sentenza di secondo grado, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal dovuto al soddisfo – assumendosi, eventualmente, come parametro per la chiesta liquidazione di tale voce di danno, il corrispettivo per la locazione di altra unità immobiliare, ricadente nel medesimo comprensorio, con analoghecaratteristiche strutturali, ridotta del 50%-;
infine ma non ultimo, condannare i resistenti al risarcimento dei danni subiti dalla Procedura Concorsuale, per effetto del ritardo nelle operazioni di vendita e di chiusura del Fallimento, riconducibile all’arbitraria condotta assunta e mantenuta dai Sigg. Milasi/Rossetti, con eventuale ricorso al principio equitativo per la quantificazione di tale precipua voce di danno;
5) condannare gli attori alla rifusione delle spese di lite, di entrambi i gradi di giudizio.
Quale mezzo al fine, nel richiamare il contenuto dei documenti allegati al fascicolo di parte del giudizio di primo grado, lungo il crinale istruttorio, si insiste nella richiesta di ammissione di CTU tecnico-estimativa, già declinata dinanzi al Tribunale, finalizzata all’accertamento dei canoni correnti di locazione per unità residenziali analoghe a quella oggetto del presente giudizio, da assumersi quale parametro per la liquidazione del danno e/o indennizzo per l’occupazione sine titulo e/o abusiva, in conformità con la superiore richiesta distinta con il n. 4.”;
per ZZZ, KKK, JJJ, QQQ, PPP, SSS, TTT e LLL:
“Voglia l’Ecc.ma Corte d’Appello adita, reiectis contrariis:
1) Rigettare l’appello principale proposto da XXX, perché inammissibile per difetto di legittimazione ad impugnare e, comunque, perché palesemente infondato in fatto e in diritto, confermando in toto la sentenza impugnata.
2) Rigettare l’appello incidentale proposto dal “Fallimento di YYY” perché palesemente infondato in fatto e in diritto, confermando intoto la sentenza impugnata.
3) In via subordinata, nella denegata ipotesi di riforma della sentenza di 1° grado e di rigetto delle domande di usucapione proposte dai Sig.ri ***, rigettare tutte le domande riconvenzionali, difese ed eccezioni proposte dalla Curatela Fallimentare di YYY perché inammissibili, prescritte e comunque infondate in fatto e in diritto.
4) In via ulteriormente subordinata, in caso di accoglimento delle riconvenzionali proposte dalla Curatela Fallimentare di YYY, dichiarare il maturato diritto degli appellati al rimborso pro-quota di tutte le spese sostenute per l’esecuzione dei lavori, migliorie, addizioni e opere di costruzione del fabbricato per cui è causa per un importo pari alla differenza tra il valore attuale dell’immobile a seguito dei predetti lavori, migliorie, addizioni e opere (così come accertato nella relazione tecnica redatta dall’Ing. *** nel procedimento fallimentare ed acquisita in atti) ed il valore dello stesso immobile all’epoca dell’acquisto con l’atto notarile del 12/9/1986 (differenza calcolata al punto E della nostra comparsa di costituzione in appello con i n° da 1 a 7), con gli interessi e rivalutazione monetaria maturati, e disporne la compensazione con gli eventuali crediti riconosciuti alla Curatela Fallimentare e fino a concorrenza di questi.
5) condannare l’appellante principale e quello incidentale al pagamento delle spese e competenze del presente grado del giudizio“.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Così lo svolgersi del processo di primo grado è compendiato nella sentenza impugnata:
<<Con atto di citazione ritualmente notificato, i sigg. ZZZ, KKK, JJJ, QQQ, Milasi Pietro, SSS, TTT e LLL convenivano in giudizio la Curatela del Fallimento di YYY per sentire dichiarare l’acquisto per usucapione della proprietà del 50% del fabbricato, secondo le porzioni meglio descritte nell’atto di citazione, sito in Pellaro di Reggio Calabria, Via Augusta, trav. Paviglianiti, riportato al N.C.E.U. al foglio 16, part.lla 302, sub 3, 4, 5, 6, 8, 9 e 10 di proprietà del sig. YYY.
Si costituiva in giudizio la Curatela del Fallimento di YYY, eccependo l’inammissibilità della domanda attorea ex artt. 42 – 45 e 88 L.F., l’infondatezza della stessa e, in via riconvenzionale, chiedeva il rilascio della quota del 50% dell’ intero fabbricato di pertinenza della Curatela e il pagamento di un indennizzo per l’illegittima ed indebita utilizzazione dello stesso. Interveniva nel presente giudizio il sig. XXX, figlio ed erede del sig. YYY, aderendo alla difesa della Curatela e contestando la fondatezza della domanda degli attori. >>.
Veniva, quindi espletata attività istruttoria mediante audizione dei testimoni così come indicati dalle parti.
Indi, precisate le conclusioni all’udienza del 13.01.2015, la causa veniva trattenuta a sentenza con la concessione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e note di replica.
Con la sentenza in epigrafe indicata, il Tribunale di Reggio Calabria così statuiva:
“Il Tribunale di Reggio Calabria, seconda sezione civile, in composizione monocratica, (…), definitivamente pronunciando sulla domanda in epigrafe indicata, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:
a)Accoglie la domanda e, per l’effetto, dichiara che i Sig.ri Milasi Domenico, KKK, JJJ, QQQ, PPP, SSS, TTT e LLL hanno posseduto e possiedono, ciascuno per la parte da loro occupata ed insieme per le parti possedute in comune, l’immobile sito in Pellaro di Reggio Calabria, Via Augusta Trav. Paviglianiti, riportato nel N.C.E.U. del predetto comune al foglio 16, particella 302, Sub 3,4,5,6,8,9,10, utilizzandolo quali proprietari esclusivi, per oltre vent’anni in maniera pacifica ad esclusione di qualsiasi terzo;
che, conseguentemente, per intervenuta usucapione, i Sig.ri ZZZ e KKK sono divenuti proprietari esclusivi del piano terra del predetto fabbricato (1° f.t. particella 302, sub 8); la Sig.ra JJJ è divenuta proprietaria esclusiva del primo piano (2° f.t., particella 302, sub 9); il Sig. QQQ è divenuto proprietario esclusivo del secondo piano (3° f.t., particella 302, sub 3); il Sig. PPP è divenuto proprietario esclusivo del terzo piano (4° f.t., particella 302, sub 4); la Sig.ra SSS è divenuta proprietaria esclusiva del quarto piano (5° f.t., particella 302, sub 5); la sig.ra TTT è divenuta proprietaria esclusiva del quinto piano (6° f.t., particella 302,sub 6); il Sig. LLL è divenuto proprietario esclusivo del lastrico solare in parte coperto
(particella 302, sub 10); che gli istanti sono divenuti proprietari in comunione per intervenuta usucapione delle parti comuni del fabbricato.
b) Rigetta le domande riconvenzionali del convenuto;
c) Compensa le spese di giudizio (…)”.
Avverso tale sentenza proponeva appello il Sig. XXX, con atto di citazione notificato telematicamente il 28.06.2016, esponendo tre lunghi ed articolati motivi di censura.
Con il primo deduceva l’errore di diritto in cui sarebbe incorso il Tribunale di Reggio Calabria nel ritenere non applicabile l’art. 24 L.F. e, quindi, l’insussistenza della competenza del Tribunale Fallimentare a decidere sulla vertenza de qua, sul falso presupposto che il Fallimento “YYY” sarebbe stato dichiarato prima dell’entrata in vigore della riforma della Legge Fallimentare.
Con il secondo motivo di censura si stigmatizzava la presunta violazione di legge (in particolare degli artt. 42 e 45 L.F.) in cui sarebbe incorso il Giudice di prime cure nell’emettere la sentenza contestata, nella parte in cui aveva ritenuto che la domanda di acquisto della proprietà immobiliare per usucapione fosse opponibile alla Curatela Fallimentare anche laddove la fattispecie acquisitiva fosse iniziata e comunque perfezionata dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.
Con il terzo ed ultimo motivo di doglianza, si criticava il provvedimento impugnato anche in riferimento agli artt. 1140, 1141 e 1158 c.c. e per omessa e/o apparente motivazione, nella parte in cui avrebbe dichiarato perfezionata la fattispecie usucapitiva senza che ne ricorressero comunque i presupposti di legge (sia in riferimento all’esclusività del possesso che alla sua durata ultraventennale).
Chiedeva, quindi, la riforma della sentenza impugnata, con condanna degli attori in primo grado alla rifusione delle spese e competenze del presente grado.
Si costituiva in giudizio, con comparsa di costituzione e risposta contenente appello incidentale, depositata in cancelleria l’8.07.2016, la CURATELA DEL FALLIMENTO “YYY”, la quale riprendeva sostanzialmente – arricchendoli di ulteriori considerazioni in fatto e in diritto, corredate di diversi arresti giurisprudenziali – i motivi di gravame già avanzati dall’appellante principale (tranne il primo), ribadendo anche in questa fase le domande riconvenzionali già disattese in prime cure in virtù dell’accoglimento della domanda attorea.
Si costituivano, infine, con comparsa depositata in cancelleria il 20.10.2016, i Sigg. ZZZ, KKK, JJJ, QQQ, PPP, SSS, TTT e LLL, eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’appello principale poiché, per costante ed univoca giurisprudenza, l’interventore adesivo dipendente non può proporre autonoma impugnazione salvo che questa sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese poste a suo carico, ipotesi non ricorrenti nel caso di specie e resistendo al gravame, di cui chiedevano il rigetto, con vittoria di spese e competenze di giudizio.
Nel corso della trattazione nel presente grado non veniva svolta ulteriore attività istruttoria in quanto la Corte, con ordinanza del 06.12.2016, disattendendo l’istanza di ammissione di C.T.U. formulata dall’appellante in via incidentale, rinviava per la precisazione delle conclusioni.
Indi, precisate le conclusioni, in epigrafe indicate, all’udienza collegiale del 09.11.2021 – svoltasi con le modalità di cui all’art. 83, VII comma, lett. H), D.L. n. 18/2020, convertito con modifiche in L. 27/2020 – su richiesta dei procuratori delle parti, la causa veniva posta in decisione con la concessione dei termini di legge, ex art. 190 c.p.c., a far data dal 14.12.2020.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va affrontata l’eccezione di inammissibilità dell’appello principale sollevata dagli appellati ZZZ, KKK, JJJ, QQQ, PPP, SSS, TTT e LLL nella loro comparsa di costituzione e risposta.
La stessa è fondata e merita accoglimento.
La partecipazione al giudizio di prime cure posta in essere dall’XXX riveste il carattere dell’intervento volontario ex art. 105 c.p.c.
Tale principio si sostanzia nell’istituto processuale a mezzo del quale il terzo subentra nel processo unicamente per sostenere le ragioni di una delle parti in lite, non introducendo tuttavia una domanda nuova, né ampliando il thema decidendum (Cfr. Trib. Bari, Sent. n. 1953 del 15.04.2014).
Affinché lo stesso sia ammissibile occorre un interesse (in capo al terzo che interviene) che, pur se non collegato all’oggetto della causa (come prescritto per l’intervento principale ed autonomo dal primo comma dell’art. 105 citato), non sia di mero fatto, bensì giuridicamente rilevante e qualificato, nonché concreto e meritevole di protezione giuridica (cfr. Cass. Civ., 02.08.1990, Sent. n. 7769).
All’uopo riveste tale qualifica l’interesse del terzo determinato dalla necessità di impedire che nella propria sfera giuridica possano ripercuotersi conseguenze dannose derivanti da effetti riflessi o indiretti del giudicato (Cfr. Cass. Civ. 19.09.2013, Sent. n. 21472), attesa la sussistenza di un “rapporto giuridico sostanziale tra adiuvante ed adiuvato, tale che la posizione soggettiva dell’adiuvante, in questo rapporto, possa essere – in via indiretta o riflessa – pregiudicata dal disconoscimento delle ragioni che l’adiuvato sostiene contro il suo avversario in causa (Cfr., ex plurimis, Cass. Civ., 23.03.2017, n. 7407; Cass. Civ., 10.01.2014, n. 364; Cass. Civ., 19.09.2013, n. 21472; Cass. Civ., 24.01.2003, n. 1111; Cass. Civ, 23,12.1993, n. 12758)”.
Sussiste infine un ulteriore tipologia di intervento, che viene denominato adesivo dipendente, che si può verificare nel caso in cui il terzo risulti titolare di un rapporto giuridico dipendente dal rapporto oggetto del processo originario (qual è il caso che ne occupa, essendo l’XXX figlio del fallito YYY).
Tale intervento ha solo l’effetto di sostenere le ragioni di una delle parti senza far valere un autonomo diritto.
Nella fattispecie che ne occupa non risulta che l’XXX, con la propria comparsa di intervento in primo grado, abbia proposto autonome domande.
Ne consegue che, stante la posizione di dipendenza e di accessorietà rispetto alla domanda proposta dall’adiuvato, l’interventore adesivo è impossibilitato a proporre autonomamente l’impugnazione se la parte adiuvata vi ha rinunciato ovvero, potrà aderirvi nel caso in cui quest’ultimo proponga impugnazione avverso la decisione che lo ha sfavorito.
In proposito si sottolinea un’interessante pronuncia della Corte di legittimità (Cfr. Cass. Civ., sez. I, 06.02.2018, n. 2818), che così ha statuito:
“L’interventore adesivo non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicché la sua impugnazione è inammissibile, laddove la parte adiuvata non abbia esercitato il proprio diritto di proporre impugnazione ovvero abbia fatto acquiescenza alla decisione ad essa sfavorevole.”
In parole povere, all’interventore adesivo dipendente viene riconosciuto un potere autonomo di impugnazione nell’ipotesi in cui la sentenza contenga provvedimenti che incidono in modo diretto ed immediato nella sua sfera giuridica; trattasi di un’applicazione del fondamentale principio dell’interesse ad agire e più specificamente dell’interesse ad impugnare, in forza del quale l’ammissibilità del gravame è in stretta correlazione alla soccombenza, sì che ove l’interventore adesivo dipendente abbia subito un concreto pregiudizio, per effetto di statuizioni contenute nella sentenza, che su di lui incidano direttamente e sfavorevolmente, egli è certamente legittimato a proporre impugnazione, a differenza di colui che non vede respingere una propria pretesa di diritto e che solo indirettamente è pregiudicato dalla pronuncia, contro la quale non può quindi avere alcuna potestà.
Nella fattispecie sottoposta all’attenzione di questo Collegio non si apprezza alcun pregiudizio direttamente o indirettamente riferibile all’XXX per questioni attinenti alla qualificazione del suo intervento o alla condanna alle spese eventualmente imposte a suo carico (le quali sono state integralmente compensate tra le parti dal Tribunale), di talché nessuna legittimazione a proporre l’impugnazione de qua può essergli per l’occorso attribuita, né, tanto meno, quest’ultima potrebbe acquisire una validità di riflesso a seguito della successiva proposizione dell’appello incidentale da parte dell’adiuvato.
Ne consegue la necessaria declaratoria di inammissibilità dell’appello principale.
Di contro, l’appello incidentale spiegato dalla curatela fallimentare è perfettamente ammissibile.
Come è noto, l’appello incidentale (art. 343 c.p.c.) deve essere necessariamente proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta all’atto della costituzione in cancelleria, almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione (art. 166 c.p.c.).
Può verificarsi, però, che – sebbene l’appellato proponga tempestivamente appello incidentale entro i termini di cui all’art. 343 c.p.c. – lo faccia oltre i termini stabiliti dagli artt. 325 e 327 c.p.c. per la proposizione dell’impugnazione principale.
In tal caso il gravame viene definito appello incidentale tardivo, di talché la sua efficacia è condizionata all’ammissibilità di quello principale.
Conseguentemente, se l’appello principale viene dichiarato improcedibile e/o inammissibile, il ricorso incidentale tardivo diventa inefficace.
Nel caso di specie, tuttavia, si evidenzia la tempestività del gravame proposto dall’appellata curatela fallimentare, che si è costituita in cancelleria in data 08.07.2016, depositando comparsa di risposta contenente appello incidentale.
In subiecta materia, la Suprema Corte, con una recente pronuncia (Cass. Civ., Sez. II, Sentenza n. 20963 del 22/08/2018), ha avuto modo di precisare che:
“Le impugnazioni incidentali possono essere proposte, in sede di gravame, con la comparsa di risposta tempestivamente depositata, purché risulti rispettato il termine ordinario di trenta giorni dalla notificazione della sentenza di primo grado, sicché, mentre l’inammissibilità dell’appello principale non priva di efficacia l’appello incidentale che sia stato proposto (oltre che tempestivamente ai sensi dell’art. 343 c.p.c. anche) nei termini per impugnare previsti dagli artt. 325, 326 e 327 c.p.c., un’impugnazione incidentale avanzata quando tali termini siano scaduti non potrebbe mai essere ritenuta tempestiva, anche se rispettosa del termine di cui all’art. 343 c.p.c.“.
Nel merito l’appello incidentale è comunque infondato e va, pertanto, rigettato.
Le ragioni in fatto e in diritto esposte dall’appellante incidentale a sostegno delle tesi formulate nel proprio atto di gravame sono, a parere di questo Collegio, prive di consistenza logico-giuridica e perciò inaccoglibili.
Quanto al primo motivo, si osserva e rileva quanto segue.
La curatela sostiene – con ciò ancorando il proprio assunto ad alcune pronunce giurisprudenziali sia di legittimità che di merito, la cui portata ed il cui senso saranno meglio chiariti nel prosieguo – che la domanda volta ad ottenere l’accertamento giudiziale dell’usucapione dei beni del fallito può essere proposta anche nei confronti della curatela fallimentare solo se tale fattispecie acquisitiva sia giunta a perfezionamento prima dell’apertura della procedura concorsuale, mentre, di converso, qualora si sia verificata dopo la dichiarazione di fallimento e, quindi, in corso di procedura – ferma restando la rilevabilità di ufficio della improcedibilità dell’azione, ai sensi dell’art. 45 L. Fall. (Cass. Civ. n. 6659/01) – è possibile ottenere tutela e far valere l’usucapione solo insinuandosi al passivo fallimentare, con una domanda di restituzione o rivendicazione del bene immobile che è entrato a far parte del patrimonio gestito dalla curatela fallimentare.
Pur tuttavia, per come ampiamente e coerentemente articolato dalla difesa dei convenuti ed anche attraverso una analitica e puntuale disamina degli arresti giurisprudenziali citati, la Corte non ritiene di condividere tale impostazione.
Ed infatti, costituisce principio di diritto pacifico ed uniformemente condiviso quello secondo cui la dichiarazione di fallimento è di per sé sola inidonea a determinare una qualche incidenza sulle situazioni possessorie (e quindi sulla loro trasmissibilità e/o modificabilità) in essere al momento di tale dichiarazione, tanto se riferite allo stesso fallito quanto se riferite a terzi.
In materia fallimentare, la privazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni, di cui all’art. 42 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, non comporta l’automatica
sottrazione al fallito del loro possesso ma soltanto la presa in consegna degli stessi da parte del curatore che ne diviene detentore, e ciò è tanto vero in quanto “…la privazione dell’amministrazione e della disponibilità dei beni prevista dal R.D. n. 267 del 1942, art. 42, anche se comunemente definita spossessamento, comporta soltanto la presa in consegna dei beni medesimi da parte del curatore, che ne diviene detentore, e non la sottrazione al fallito ope legis del loro possesso” di talché “… il fallimento non costituisce una causa interruttiva del possesso” (Cfr. Cass. Civ., Sez. II, Sentenza n. 16853 dell’11.08.2005).
Sulle medesime posizioni si attesta anche un recente arresto della Suprema Corte (Cass. Civ., Sentenza n.17605 del 04.09.2015), la quale ha, tra l’altro, ribadito che l’art. 42 L.F. non comporta ex se l’automatica sottrazione al fallito del possesso dei beni, ma soltanto la presa in consegna degli stessi da parte del curatore che ne diviene detentore.
Sul punto ha inoltre precisato che la mera redazione dell’inventario dei beni del fallito (che costituisce l’atto fondamentale attraverso il quale l’organo della procedura a ciò deputato individua, elenca, descrive e valuta i beni della massa), senza la materiale apprensione dei beni stessi da parte del curatore, non ha efficacia interruttiva del possesso da parte del fallito.
Detto questo, è necessario puntualizzare il contenuto delle pronunce giurisprudenziali citate dall’appellante incidentale a fondamento delle proprie tesi difensive.
In proposito è da premettere che gli odierni appellati fanno discendere la loro pretesa usucapitiva – quale momento iniziale del decorso del tempo utile a far valere la prescrizione acquisitiva – dal rogito di compravendita del 50% delle quote dei beni immobili oggetto del presente giudizio acquistate dalla Sig.ra ***, redatto in data 12.09.1986 per Notaio ***.
In tale atto si precisa, altresì, che fino a tale data, gli acquirenti ne avevano avuto solo la materiale detenzione a titolo di comodato a partire dal 02.05.1984.
Secondo quanto sostenuto, di contro, dalla difesa della curatela fallimentare, gli appellati non avrebbero alcun titolo per usucapire gli immobili de quibus in quanto la fattispecie acquisitiva sarebbe iniziata successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento del Sig. YYY, intervenuta in data 05.03.1986.
Tale tesi viene perorata attraverso la citazione di alcuni precedenti giurisprudenziali di legittimità e di merito – (Cass. Civ. n. 13184/1999 e n. 10895/2013; Tribunale di Taranto, Sentenza n. 2416 del 13.07.2015) – che tuttavia non convincono questo Giudice.
Ed invero, per come correttamente rilevato dalla difesa degli appellati, il senso complessivo delle motivazioni sottese alle suindicate pronunce non può essere affidato unicamente a delle massime di principio che conducono, a parere di questo Collegio, solo ad una sommaria sintesi rispetto alla questione di diritto più in generale affrontata.
La portata della sentenza n. 13184 emessa dalla Suprema Corte in data 26.11.1999 citata tanto da Cass. 10895/2013 quanto da Tribunale di Taranto n. 2416 del 13.7.2015 – è ben più ampia di quella che, riduttivamente, viene riportata da queste ultime due pronunce poste a fondamento delle difese di parte appellante in via incidentale, avendo stabilito il principio – pacifico ed inattaccabile dal punto di vista logico-giuridico – che quanto stabilito dagli artt. 42 e 45 L.F. si applica unicamente agli acquisti a titolo derivativo e non anche a quelli a titolo originario, qual è appunto l’usucapione.
A ben vedere, infatti, gli artt. 42 e 45 L.F. rispondono ciascuno ad una specifica ratio che è, per quanto concerne la prima, l’imposizione di un vincolo di indisponibilità sui beni del fallito, con equiparazione del fallimento al pignoramento (senza che ciò involga, tuttavia, fatti acquisitivi di diritti reali tipici produttivi di effetti in capo al fallito), mentre, per quanto riguarda la seconda, è l’onere di pubblicità da essa previsto da ritenersi necessario con esclusivo riferimento alle condizioni di opponibilità al fallimento di “atti” (ma non anche di “fatti”).
Detti principi sono stati richiamati e chiariti da Cass. civ., sez. II, 03.02.2005, n. 2162, la quale, nel richiamare espressamente Cass. civ., sez. I, 26.11.1999, n. 13184, ha sostanzialmente ribadito che:
“E’ proponibile la domanda di acquisto della proprietà immobiliare per usucapione nei confronti della curatela fallimentare, atteso il carattere di acquisto a titolo originario che, con essa, si intende far verificare, ed a ciò non risultando di ostacolo gli artt. 42 e 45 della legge fallimentare.
La prima delle due disposizioni, infatti, limitandosi a porre il vincolo di indisponibilità sui beni del fallito – con equiparazione del fallimento al pignoramento – non può essere riferita a “fatti” acquisitivi di diritti reali tipici (che si assumono) già compiuti e produttivi di effetti in capo al fallito. Cioè la disposizione può essere riferita agli atti costituenti fonti di acquisto derivativo, ma la stessa impostazione risulta del tutto estranea alla materia dell’acquisto a titolo originario, collegato all’usucapione.
La seconda, a sua volta, avendo riguardo espressamente – in applicazione della stessa regola posta, per l’esecuzione individuale, dall’art. 2914 c.c. – alle condizioni di opponibilità, al fallimento, di “atti”, si rivela del tutto estranea all’ipotesi in esame, non essendo configurabile, a carico di chi agisca per conseguire l’accertamento dell’usucapione, alcun onere di pubblicità, posto che l’art. 2651 c.c. si limita a disporre al riguardo una forma di “trascrizione” (della sentenza e non anche della domanda) la quale è priva di effetti sostanziali e limitata a rendere più efficiente il sistema pubblicitario (cioè la pubblicità non sostituisce l’usucapione).”.
Né, peraltro, detti arresti giurisprudenziali contengono alcun riferimento, esplicito o meno, all’ipotesi che il possesso ad usucapionem possa essere opponibile al Fallimento solo qualora la fattispecie acquisitiva si sia perfezionata in epoca anteriore all’apertura della procedura medesima, ricavandosi logicamente, di contro, che il possesso sopra qualificato è perfettamente opponibile al Fallimento sia nel caso in cui sia iniziato prima della sentenza dichiarativa di fallimento e si sia perfezionato successivamente alla stessa, che nel in cui sia iniziato e si sia perfezionato dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.
Non risulta peraltro, dalla documentazione acquisita in atti, che il Curatore (a far data della sentenza dichiarativa di fallimento) abbia mai preso in consegna i beni oggetto di causa né abbia mai intrapreso alcuna azione (redibitoria e/o di rivendicazione) nei confronti degli appellati, idonea ad interrompere il decorso del termine finalizzato al possesso ad usucapionem da costoro esercitato ed a recuperare il bene all’effettiva disponibilità degli organi fallimentari, non comportando, all’uopo, l’avvenuta annotazione o trascrizione della sentenza di fallimento (art. 88 L.F.) – così come la trascrizione di un atto di compravendita, di un pignoramento o di aggiudicazione di un’asta pubblica – alcun effetto interruttivo della fattispecie di usucapione, anche qualora la stessa sia in corso di perfezionamento.
Da quanto sopra argomentato ne deriva l’inconsistenza del motivo di gravame esaminato.
Anche il secondo punto di censura è privo di pregio giuridico.
La curatela fallimentare appellante sostiene che gli odierni appellati fossero dei meri detentori qualificati della porzione di bene oggetto di usucapione e che, di conseguenza, non si sarebbe verificata la necessaria interversio possessionis in grado di trasformare oggettivamente la detenzione in possesso utile al perfezionamento della prescrizione acquisitiva.
Tale impostazione difensiva non trova d’accordo questa Corte.
La postilla contenuta nell’atto di compravendita del 12.09.1986, secondo cui gli odierni appellati erano da considerarsi dei semplici comodatari in riferimento alla quota di ½ rimasta in comproprietà ad YYY, non è sufficiente a far ritenere che gli stessi non abbiano esercitato il possesso esclusivo, ciascuno per l’unità immobiliare di propria pertinenza, del bene dedotto in giudizio.
A parte lo scontato rilievo che la postilla riportata sul contratto di compravendita – con la quale si fa riferimento alla concessione in comodato degli appartamenti “nella loro interezza” a far data dal 2 maggio 1984 – potrebbe essere stata ivi apposta per fini meramente fiscali e che, peraltro, nessun contratto di comodato è stato mai prodotto in atti, ciò che è evidente è che dal momento della stipula del rogito del 12.09.1986, con il quale la Sig.ra *** ha ceduto il 50% delle quote di proprietà del bene de quo, muta indubitabilmente da detenzione in compossesso il titolo in base al quale gli appellati avevano fino ad allora avuto la disponibilità dell’intero immobile.
E ciò perché, attenendo l’istituto della comproprietà ad una quota ideale di un bene nella sua interezza (tanto più nel caso di specie in cui l’immobile apparteneva originariamente, in comune e pro-indiviso, ai Sigg. *** ed YYY, in ragione del 50% ciascuno), per un soggetto che ne ha il compossesso, tale potere non può che riguardare tutto il bene e in coesistenza con l’analogo potere dell’altro o degli altri compossessori.
Pertanto, ciò che conta verificare, nel caso sottoposto all’attenzione di questo Giudice, è se il compossesso si sia trasformato in possesso esclusivo, finalizzato all’usucapione, da parte dei compossessori/odierni appellati.
Si riportano, in proposito, due interessanti e recenti pronunce di legittimità.
Con la prima (Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 9100 del 12 aprile 2018), la Suprema Corte, seguendo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, ha ribadito che:
“Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo
(“uti dominus”), non ha la necessità di compiere atti di “interversio possessionis” alla stregua dell’art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed “animo domini” della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore.”.
Il principio stabilito nella seconda pronuncia che di seguito si riporta (che ricalca, sostanzialmente, quello testé enunciato) è che:
“In tema di comunione, il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”, senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune” (Cassazione civile, Sez. VI-2, ordinanza n. 24781 del 19 ottobre 2017).
Ciò che dunque risalta dagli arresti sopra riportati è che il comproprietario che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo, non ha la necessità di compiere atti di interversione del titolo del possesso, ma è tenuto in ogni caso ad estendere tale possesso esclusivo sul bene, all’uopo occorrendo che ne goda in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui ed in guisa da evidenziare inequivocabilmente la volontà di possederlo “uti dominus” e non più “uti condominus”, dandone prova rigorosa.
Da quanto sopra arguito deriva – per come pertinentemente e correttamente statuito dal primo Giudice – che l’usucapione della quota di immobile intestata al Sig. YYY (e quindi alla Curatela fallimentare) non poteva più porsi in termini di interversione da detenzione a possesso ex art. 1141, 2° comma c.c., bensì in quelli di mutamento estensivo del titolo del possesso da compossesso a possesso esclusivo, poiché l’atto di compravendita sopra citato è comunque divenuto la fonte del compossesso degli attori sull’intero, sia in maniera diretta sia in quanto valido atto di interversione del possesso per atto del terzo, anche a voler considerare l’originaria disponibilità del bene a titolo di comodato.
Pertanto è agevole concludere che l’acquisto della metà dell’immobile, avvenuto con l’atto di compravendita del 12.9.1986, abbia determinato il mutamento del titolo del possesso estendendolo all’intero bene oggetto del presente giudizio.
In riferimento, poi, al terzo motivo di gravame, si osserva e rileva quanto segue.
L’appellante incidentale critica la sentenza anche sotto l’aspetto dell’insufficienza del quadro probatorio emerso nel corso del giudizio di primo grado, con specifico riferimento alla presunta inefficienza ed inidoneità delle dichiarazioni testimoniali ed all’incertezza del dies a quo dal quale far decorrere la prescrizione acquisitiva.
Come testé accennato, ai fini della dimostrazione dell’estensione del possesso esclusivo sul bene non è necessaria una speciale manifestazione di volontà rivolta agli altri compossessori, risultando sufficiente un comportamento che mostri inequivocabilmente l’intenzione del comproprietario di possedere il bene in via unica e personale, con esclusione degli altri compartecipi.
Ferma restando, quindi, l’idoneità dell’atto di compravendita del 12.09.1986 a trasformare l’eventuale precedente detenzione del bene in compossesso, ritiene, questo Collegio, che la prova del mutamento del compossesso in possesso esclusivo e continuato per il tempo necessario a maturare l’usucapione, così come richiesto dalla legge, sia stata pienamente raggiunta dagli odierni appellati mediante l’escussione dei testi addotti nel corso dell’istruttoria compiuta in primo grado.
Quanto all’individuazione dei comportamenti idonei a dimostrare il possesso univoco degli attori e l’esclusione del possesso altrui, valgano, su tutte, le dichiarazioni rese dai testi *** e ***, entrambi escussi all’udienza dell’11.10.2012, dei quali:
il primo ha confermato senza esitazione che il portone di ingresso al vano scala, le porte dei locali tecnici e le saracinesche dei magazzini al piano terra erano stati installati nell’anno 1986, nonché di avere eseguito i lavori di realizzazione degli infissi esterni condominiali e delle ringhiere in ferro;
il secondo ha riferito che i portoni blindati di ingresso ai singoli appartamenti erano stati ivi apposti verso la fine del medesimo anno.
Per quanto concerne, poi, l’esclusiva disponibilità delle chiavi del portone di ingresso e dei singoli appartamenti da parte degli odierni appellati, si fa espresso riferimento al momento in cui il C.T.U. Ing. ***, incaricato dal G.D. di redigere la relativa perizia di consistenza e valore dell’immobile de quo (prodotta dagli appellati nell’ambito del giudizio di primo grado con la memoria ex art. 183, VI comma, n. 2, c.p.c. del 16.10.2008), ha dovuto richiedere ai singoli proprietari di farsi aprire per visionare i locali, fatto che, di per sé stesso, denota la chiara volontà degli appellati di escludere il comproprietario (il Sig. YYY o per esso la curatela fallimentare) dal compossesso del bene.
RG n. 342/2016
Repert. n. 594/2021 del 28/05/2021
A ciò si aggiunga anche che, una volta acquistato, il fabbricato per cui è causa è stato oggetto di diversi interventi di completamento da parte degli acquirenti, effettuati sia nelle parti comuni che nelle singole unità immobiliari, che ne hanno incrementato il valore commerciale in complessivi €. 1.083.100,00 (stimato al 2007, così come risulta dalla succitata C.T.U.), somma che a fronte di un valore di acquisto inferiore, seppur rapportato all’anno 1986, denota comunque una ingente mole di investimenti che poco si concilia con la volontà e la consapevolezza, da parte degli attori, di consentire ad un eventuale compossesso del bene con altro comproprietario.
Ai medesimi eventi di cui alle testimonianze rese dai Sigg. *** e *** deve inoltre farsi risalire il dies a quo del decorso del termine per usucapire, che coincide dunque con l’anno 1986, di talché, essendo stata l’azione – volta ad ottenere la dichiarazione di prescrizione acquisitiva del bene dedotto in giudizio – proposta nell’anno 2007, non v’è chi non veda come il termine ventennale previsto dalla legge si sia perfezionato a tale data, senza che, di contro, alcun atto interruttivo sia stato validamente addotto dalla curatela fallimentare.
Analoga considerazione va effettuata anche per quanto concerne, rispettivamente, l’immobile donato e quello venduto pro-quota ai Sigg. TTT e LLL con l’atto notarile dell’1.7.1991, essendosi gli stessi, in virtù dell’art. 1146, comma 2 c.c., avvalsi dell’istituto dell’accessione del possesso per unire il proprio possesso ai fini dell’usucapione a quello dei rispettivi danti causa ed avendo fornito prova in tal senso attraverso la produzione in giudizio del succitato rogito notarile.
Infine, a rafforzare l’assunto di cui sopra ed anche a confermare il prolungato, esclusivo ed indisturbato possesso animo domini dell’immobile in capo agli odierni appellati, valgano le dichiarazioni testimoniali acquisite in prime cure e rese dai Sigg. ***, ***, ***, ***, *** e ****, i quali, tutti, hanno riferito di avere effettuato, a vario titolo, dei lavori all’interno del fabbricato de quo ed hanno riportato circostanze utili e decisive al fine di determinare il Tribunale ad assumere la decisione oggi avversata dagli appellanti.
Ogni ulteriore motivo è da ritenersi assorbito dalle superiori considerazioni.
Ne discende, pertanto, il totale rigetto del gravame.
Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo in base al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, come aggiornato dal successivo D.M. n. 37 dell’8 marzo 2018, secondo lo scaglione medio per i giudizi contenziosi, attesa la complessità delle questioni di fatto e di diritto devolute.
Sussistono, inoltre, per quanto sopra, i presupposti per l’applicazione dell’articolo 13, comma 1-quater, del D.P.R. 115/2002, per cui va disposto, a carico sia dell’appellante principale che dell’appellante in via incidentale, l’obbligo del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da ciascuno proposta.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Civile, uditi i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando sull’appello principale proposto da XXX con atto di citazione notificato telematicamente in data 28.06.2016, e sull’appello
incidentale spiegato dalla CURATELA DEL FALLIMENTO “YYY” nella propria comparsa di costituzione e risposta depositata in cancelleria il 08.07.2016, disattesa ogni contraria domanda, eccezione e difesa, così provvede:
1) dichiara inammissibile l’appello principale;
2) rigetta l’appello incidentale;
3) condanna XXX e la curatela del fallimento “YYY”, in persona del curatore p.t., in solido tra di essi, a rifondere a ZZZ, KKK, JJJ, QQQ, PPP, SSS, TTT e LLL le spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi € 11.576,00 per compensi, oltre 15% per spese gen., C.P.A. ed IVA, come per legge;
4) dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte di XXX e della curatela del fallimento “YYY”,
in persona del curatore p.t., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto da ciascuno per l’appello proposto, a norma del comma 1 – bis dell’art. 13 D.P.R. 115/2002.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di rito.
Così deciso in Reggio Calabria nella camera di consiglio del 25.03.2021
Il Giudice ausiliario estensore
Il Presidente
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Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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