REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI L’ AQUILA
SEZIONE PER LE CONTROVERSIE DI LAVORO E PREVIDENZA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 518/2018
Nella causa per reclamo ex art.1, comma 58 della legge 28 giugno 2012 n.92 e vertente
TRA
XXX – con sede in Atessa, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in L’Aquila presso l’avv. che la rappresenta e difende unitamente agli avv.ti
RECLAMANTE
E YYY elettivamente domiciliato in Roma presso l’avv. che lo rappresenta e difende unitamente all’avv., giusta procura in calce alla memoria di costituzione
RECLAMATO
OGGETTO: reclamo avverso la sentenza n. 31 pronunciata dal Tribunale di Lanciano, in funzione di giudice del lavoro, in data 29.01.2018
CONCLUSIONI DELLE PARTI
PER LA RECLAMANTE: in riforma della sentenza impugnata, accertare e dichiarare la legittimità del licenziamento e, per l’effetto, respingere le domande proposte da YYY con il ricorso introduttivo, con condanna del medesimo alla restituzione di quanto eventualmente percepito in esecuzione della sentenza di primo grado.
In subordine, accertare e dichiarare la legittimità del licenziamento quantomeno sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo.
In ulteriore subordine respingere la domanda di reintegrazione e contenere la somma riconosciuta nella misura minima di 12 mensilità ai sensi dell’art. 18, comma V° Stat. Lav..
In via di ulteriore subordine, detrarre dalla somma eventualmente dovuta al YYY l’aliunde perceptum et percipiendum; con vittoria delle spese di tutte le fasi e gradi del giudizio.
PER IL RECLAMATO: respingere il reclamo, con vittoria delle spese del grado.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
La società XXX ha proposto reclamo, ai sensi dell’art.1, comma 58, della legge 92/2012, avverso la sentenza indicata in epigrafe che ha respinto l’opposizione proposta contro l’ordinanza emessa in data 5.09.2016 ex art.1, comma 49, della medesima legge, all’esito della fase sommaria, con la quale era stata accolta la domanda del lavoratore, YYY, di accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli in data 15.06.2015 per giusta causa e, segnatamente, per una serie di fatti e comportamenti contestati con la lettera di contestazione del 1° giugno 2015 (relativi al periodo dall’11 febbraio 2015 al 20 marzo 2015 oggetto di accertamenti ispettivi) ritenuti “non compatibili” sia con lo stato di infortunio (del 16 gennaio 2015 con prognosi di “distorsione rachide cervicale” rigettato dall’INAIL limitatamente al periodo dall’11 febbraio al 6 marzo 2015 per aver ritenuto l’infermità “sopravvenuta” a detto periodo riconducibile a malattia comune di tipo neurologico-psichiatrico) sia con lo stato di malattia (protrattasi fino al 22 maggio 2015).
In particolare, ha reclamato detta sentenza: 1) nella parte in cui – ritenuto che la patologia sofferta dal lavoratore nel periodo oggetto di accertamento ispettivo da parte del datore di lavoro era quella di “uno stato ansioso” – ha escluso che le attività di carattere ricreativo e di interazione con l’esterno poste in essere dal YYY fossero idonee a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche e, quindi, non ricorrenti gli estremi della giusta causa addotta dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato, con conseguente annullamento del licenziamento e reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, per erroneità delle anzidette conclusioni e, segnatamente perché non si era tenuto conto da parte del giudice di primo grado: a) che dal “diario generale del 21.01.2015 al 27.05.2015 prodotto dall’INAIL emergeva che nel periodo successivo al 10 febbraio e fino all’ultima visita del 27 maggio 2015 la diagnosi certa era sempre stata quella di “distorsione rachide cervicale e contusione dorsale”, sicché, contrariamente a quanto asserito dalla controparte e, poi, dal giudice di primo grado, la patologia lamentata dal YYY, successivamente alla stabilizzazione del quadro ortopedico, era relativa al problema neurologico conseguente al trauma cranico (e non ad uno “stato ansioso seguito all’infortunio sul lavoro”) e molte delle attività svolte dal YYY nel periodo 11 febbraio-20 marzo 2015 avevano contribuito a rallentarne la guarigione e, quindi, il rientro al lavoro in quanto incompatibili con la patologia “distorsione rachide cervicale e contusione dorsale” (come guidare con autovettura per lunghi tratti, scaricare un divano da un camion e trasportarlo all’interno di un condominio su un furgone, restare assente dalla propria abitazione per tutta la giornata del 5 marzo 2015, fare la spesa con l’auto, recarsi in auto presso una località sciistica, accompagnare sistematicamente la figlia a scuola ecc.) tanto che, rispetto al periodo iniziale di assenza per infortunio originariamente preventivato (dal 16.04.2015 al 20 febbraio 2015), il lavoratore aveva prolungato la propria assenza per malattia per altri due mesi e mezzo (dal 9.03.2015 al 22.05.2015); b) che la dott.ssa **** non si era mai riferita ad alcuna “sindrome ansioso-depressivo” bensì ad un “problema neurologico conseguente al trauma cranico” e che la stessa aveva confermato di aver preso atto della stabilizzazione del quadro ortopedico, neurologico e psichiatrico in “data anteriore al 6.03.2015” (dichiarando cessata l’infermità) e, quindi, successivamente ai fatti oggetto di contestazione, peraltro, smentendo quanto affermato dall’appellato in sede di interrogatorio e, cioè, di aver consigliato al YYY (il quale “soffriva di attacchi di panico anche prima dell’infortunio”) di volgere attività quotidiane fuori di casa per ristabilirsi; 2) nella parte in cui ha erroneamente ritenuto applicabile la tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18 St. Lav. in una fattispecie in cui non risultava accertata la “insussistenza” del fatto stante che lo stesso YYY aveva ammesso i fatti contestati; 3) nella parte in cui non ha accolto la domanda di verifica della sussistenza in capo al YYY dell’aliunde perceptum et percipiendum nonostante avesse formulato apposite istanze istruttorie tra cui l’acquisizione di idonea documentazione circa lo stato occupazionale del medesimo.
Ha concluso, perciò, come sopra.
Ha resistito il reclamato.
Il reclamo non è fondato e, conseguentemente, deve essere disatteso e respinto.
- Sicuramente infondate sono le censure sottese al primo motivo di reclamo.
Premesso che è noto l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che ammette la possibilità che il lavoratore subordinato durante il periodo di malattia o di infortunio svolga altra attività, il quale trova il proprio fondamento giuridico nella nozione relativistica della malattia, la quale, ai soli fini lavoristici, ricomprende soltanto quelle affezioni morbose comportanti un’incapacità al lavoro, secondo una versione più circoscritta di quella medico-legale, avuto riguardo alle specifiche mansioni dedotte nel rapporto obbligatorio (cfr. Cassaz. n. 1373/2005; n. 24591/2006), in quanto è evidente che se la malattia o l’infortunio compromettono la possibilità di svolgere quella determinata attività lavorativa, può anche accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore anche altre e diverse attività, che sarebbe irragionevole precludere qualora non intacchino il processo di recupero dello stato di salute richiesto dall’adempimento dell’obbligo contrattualmente assunto, deve evidenziarsi, anzitutto, che, al pari del giudizio sulla compatibilità dello stato di malattia con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche quello sulla compatibilità tra lo svolgimento di altra attività durante la sospensione del rapporto con il predetto stato va condotto caso per caso, tenendo conto delle specifiche circostanze del caso concreto.
Peraltro, il giudizio sulla possibilità che un soggetto, già ritenuto non idoneo ad un determinato impegno lavorativo, venga giudicato altresì in grado di svolgere altre attività, diviene un processo valutativo estremamente complesso, che può essere condotto soltanto tramite l’uso delle clausole generali della correttezza e della buona fede, ex artt. 1175 e 1375 cod.civ., che debbono presiedere all’esecuzione del contratto e che, nel rapporto di lavoro, fondano l’obbligo in capo al lavoratore subordinato di tenere, in ogni caso, una condotta che non si riveli lesiva dell’interesse del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione lavorativa (cfr. Cassaz. n. 1699/2011).
Secondo le più attente ricostruzioni della buona fede in executivis, infatti, non soltanto durante il periodo di sospensione del rapporto di lavoro permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi accessori non inerenti allo svolgimento della prestazione (l’unica ad essere paralizzata dall’incidenza della malattia sul sinallagma contrattuale), ma al dipendente colpito dalla malattia o dall’infortunio verrebbe richiesto di adoperarsi al fine di salvaguardare l’interesse dell’altra parte alla prestazione dovuta e all’utilità che la stessa riserva al datore di lavoro.
Infatti, in linea generale, la giurisprudenza riconosce come, anche durante lo stato di malattia ed infortunio, il mantenimento del rapporto di lavoro comporti anche la persistenza a carico del lavoratore degli usuali obblighi di correttezza e buona fede, di diligenza e di fedeltà, in forza degli artt. 1175 e 1375, 2104 e 2105 c.c. (cfr. Cassaz. n. 6236/2001; n. 14046/2005; n. 19414/2005).
Da qui, l’esigenza di valutare il comportamento adottato dal lavoratore in malattia, gravato dal compito di non pesare eccessivamente sulla controparte al fine di salvaguardarne il patrimonio e l’organizzazione dal sicuro pregiudizio che deriverebbe da una ritardata guarigione qualora egli si sottragga, volontariamente, all’obbligo di curarsi.
Pertanto, lo svolgimento di altra attività nel periodo di sospensione del rapporto di lavoro, può costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro dove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza, buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e di fedeltà.
In particolare, la violazione dei suddetti obblighi si riscontra quando l’ulteriore attività svolta durante la malattia o l’infortunio sia idonea a far presumere l’inesistenza della patologia addotta a sostegno dell’assenza, rivelandone una fraudolenta simulazione, ovvero, essa sia tale da pregiudicare o ritardare la guarigione ed il conseguente rientro in servizio del dipendente.
Conclusivamente i parametri fondamentali affinché il lavoratore possa svolgere attività in malattia sono essenzialmente tre: 1) la veridicità della malattia: se l’attività svolta è incompatibile con la malattia, ne consegue la licenziabilità del lavoratore per violazione degli obblighi di fedeltà; 2) l’obbligo del lavoratore di astenersi da tutte quelle attività che possano compromettere o ritardare la sua guarigione; 3) l’attività svolta dal lavoratore in malattia non deve essere utile al datore di lavoro; il che implica che se il lavoratore è in grado di svolgere attività di una certa gravosità per i propri interessi o svaghi, altrettanto egli può prestare le sue residue capacità lavorative in favore del datore di lavoro.
Circa la valutazione del comportamento del lavoratore, occorre rilevare che ogni valutazione non può che essere di tipo medico-legale e ogni accertamento sarà ex post (cfr. Cassaz. n. 4237/2015; n. 5867/016).
In queste pronunce (nelle quali era pacifico che l’attività lavorativa svolta durante la malattia presso terzi non avesse pregiudicato la sua guarigione, come nel caso in esame) la Corte di vertice ha ribadito il principio per il quale, nell’ordinamento, non esiste alcuna espressa preclusione all’esercizio, da parte del lavoratore assente per malattia, di attività lavorativa o ludica, seppur con i tre limiti sopra citati.
La medesima Corte, tuttavia, ha affermato che il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia, ha l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto.
Lo svolgimento di altra attività, infatti, sia essa ludica, sia essa lavorativa, può costituire indice della simulazione fraudolenta dello stato di malattia tutte le volte in cui sia incompatibile con la patologia che giustifichi l’assenza dal posto di lavoro e, sotto diverso ma convergente profilo, anche il mero pericolo di aggravamento delle condizioni di salute o di ritardo nel recupero dell’integrità psicofisica del lavoratore sono indici di un grave inadempimento contrattuale (cfr. Cassaz. n. 24709/2014; n. 26290/2013; n.13955/2015; n. 21438/2015; n.15989/2016).
In particolare, con l’ultima decisione citata la Suprema Corte ha accolto il ricorso datoriale, affermando che uno stato ansioso depressivo può giustificare l’assenza per malattia della dipendente ed anche lo svolgimento di altra attività lavorativa presso terzi, purché non ne comprometta la guarigione ma anche che, prima di dichiarare illegittimo il licenziamento comminato dall’azienda, l’autorità giurisdizionale deve compiere un’indagine sulle caratteristiche della nuova attività svolta e sulla natura della patologia del dipendente, ed infine, motivare in merito alla relativa compatibilità.
Nel caso in esame il giudice di prime cure non si è sottratto ad un approfondito esame dei fatti storici, chiaramente individuati e decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e, segnatamente, per il giudizio sul motivo di gravame in esame.
In particolare, non si è sottratto a quell’accertamento in concreto, di sua spettanza, avendo evidenziato: 1) il tipo di attività poste in essere dal YYY nel periodo dall’11 febbraio al 6 marzo 2015 tenendo conto modalità risultanti dalla relazione investigativa protrattasi nell’arco temporale anzidetto (relativa a guidare frequentemente la macchina per accompagnare la figlia a scuola, provvedere a fare spese e spostamenti fuori città, nonchè, recarsi sulle piste di sci o al mare, scattare fotografie durante il viaggio, appendere un filo della biancheria sul balcone di casa, caricare e scaricare un divano e un amplificatore) – ovvero ad “attività di ripresa di alcune attività ordinarie della vita quotidiana e familiare ….(e allo) svolgimento di attività ricreative e di svago” per come riportato nella sentenza – oggetto della contestazione di addebito ed ammessa dallo stesso lavoratore (il quale non ha contestato l’effettivo verificarsi delle condotte addebitate); 2) la collocazione temporale di detta attività nell’arco delle giornate considerate (dalle ore 8,30 alle ore 19,40 al più tardi); 3) l’effettiva sussistenza dello stato patologico riferito a “stato ansioso ed attacchi di panico” di cui il YYY è risultato affetto nel periodo oggetto di osservazione investigativa, per essere risultato guarito dalla “distorsione rachide cervicale e contusione dorsale” già alla data del 10 febbraio 2015 allorchè dal “Diario generale dal 21.01. 2015 al 27.05.2015 per data” dell’INAIL (acquisito d’ufficio all’esito della deposizione resa all’udienza del 4.09.2017 dalla dott.ssa *** – cfr. processo verbale di udienza del 27.11.2017 relativo alla fase di opposizione) detta patologia risultava “definibile per quanto di competenza” da parte della Dott.ssa *** (ortopedico) per essere risultato il rachide cervico-dorsale “in asse, mobile ampiamente nei vari piani senza dolore, non spinalgia, non contratture, nulla di periferico” nonché “risolta la cervialgia”, sicchè, dalla data del 11.02.2015 (di inizio delle osservazioni investigative) persisteva solo “la cefalea e lo stato ansioso di cui ha dato atto la dott.ssa *** (neurologa) la quale al successivo controllo del 20.02.2015, “data la persistenza dello stato marcatamente ansioso”, ha richiesto “consulenza psichiatrica” effettuata in data 5.03.205 a mezzo del Dott. ***, il quale ha formulato diagnosi di “Disturbo di panico secondo i criteri diagnostici del DSM 5 (APA, 2013) di gravità clinica moderata” ritenuto “disturbo endogeno, non correlato dal punto di vista eziopatologico al trauma cranico lieve riportato” (a seguito dell’infortunio del 16.01.2015) e ciò in quanto a detta conclusione lo portava sia il “tipo di disturbo specifico che riconosce una causale biologica/familiare/ambientale” sia “l’anamnesi raccolta (problematiche lavorative preesistenti con caratteristiche di fattori stressanti su una vulnerabilità preesistente)”. A fronte di detto accertamento specialistico, la Dott.ssa ***, il giorno successivo (6.03.2015) ha ritenuto di redigere “certificato definitivo” proprio tenendo conto che il “disturbo di tipo ansio” era stato ritenuto dallo specialista “disturbo endogeno”, situazione in relazione alla quale il Dott. ******, il successivo 13.03.2015 dichiarava “la temporanea” di competenza INAIL “attinente (solo) per periodo cure ortopediche” e, cioè, per il periodo “dal 17.01. 2015 al 10.02.2015, dichiarando “temporanea non INAIL dal 11.02.2015 al 6.03.2015”.
Quanto da ultimo evidenziato esclude in radice la fondatezza del motivo di appello in esame, stante che dal “diario generale del 21.01.2015 al 27.05.2015 per data” prodotto dall’INAIL – cui si è fatto riferimento – non emerge affatto che anche nel periodo successivo al 10 febbraio e fino all’ultima visita del 27 maggio 2015 la diagnosi “certa” sia sempre stata quella di “distorsione rachide cervicale e contusione dorsale” né che il “problema neurologico” fosse conseguente al trauma cranico, essendo “il disturbo di tipo ansioso” – che ha motivato la malattia dall’11.02.2015 al 22.05.2015, comprendente il periodo di osservazione ispettiva – risultato, invece, “disturbo endogeno non correlato dal punto di vista eziopatologico al trauma cranico” .
Del tutto condivisibilmente, pertanto, la sentenza ha escludo che le attività oggetto di accertamento ispettivo potessero essere ritenute tali da aver aggravato lo stato di infermità (di tipo psichico) di cui il YYY è risultato affetto nel periodo oggetto di accertamento, ovvero idonee a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche del lavoratore.
Tanto è sufficiente per confermare la sentenza nella parte oggetto delle censure sottese al motivo di reclamo in esame e, segnatamente, nella parte in cui ha ritenuto che l’attività addebitata al YYY non ha costituito giusta causa di licenziamento, trattandosi di attività che – per le modalità ed il tempo di espletamento in relazione alla patologia di cui era effettivamente portatore nell’arco temporale oggetto di accertamento – non ha pregiudicato la guarigione del medesimo,
- Parimenti infondata è la censura sottesa al secondo motivo di reclamo che attiene al regime sanzionatorio applicato.
Come è noto la “legge Fornero” (n. 92 del 28 giugno 2012) ha modificato significativamente l’art. 18 Stat. lav. stabilendo, per quanto concerne il licenziamento disciplinare, la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro solo in ipotesi di accertata “insussistenza del fatto contestato” ovvero nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda per quella infrazione una sanzione conservativa.
Non ricorrendo nel caso in esame, pacificamente, detta ultima ipotesi, deve darsi atto che sull’interpretazione del concetto di “insussistenza del fatto contestato” (termine preso a prestito dal diritto penale tra le formule che giustificano l’assoluzione) è stato scritto molto sia dai fautori della tesi del c.d. “fatto materiale” (così definita perché l’esistenza del “fatto materiale” è valutata senza alcun margine discrezionale, con riguardo esclusivo alla sussistenza degli elementi materiali della fattispecie) sia dai fautori della tesi del c.d “fatto giuridico” (che include nel fatto anche l’elemento soggettivo ed il “contesto multifattoriale”, entrambi sottoposti all’accertamento giudiziario ai fini della legittimità del licenziamento, così come pure la gravità dell’evento, secondo il disposto dell’art. 2106 cod. civ.).
A tale riguardo, da ultimo, sembra opportunamente essersi fatta strada una possibile soluzione intermedia che, ai fini della valutazione della sussistenza del fatto, ritiene necessario che la condotta, e cioè il fatto, configuri astrattamente un inadempimento, evitando così il paradossale caso in cui il licenziamento fondato su un fatto sussistente ma pacificamente lecito possa condurre alla semplice tutela risarcitoria (cfr. Cassaz. n. 20540/2015).
Invero, a fronte della chiara volontà del legislatore del 2012 di limitare la reintegra a casi residuali, riassunti nella nota formula del “torto marcio” del datore di lavoro, la verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento non può che risolversi nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo all’individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale avente rilievo disciplinare (dovendo trattarsi comunque di una mancanza riconducibile ad un inadempimento contrattuale) con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato, ma non anche quello attinente alla integrazione dei parametri legislativi di rilevanza giuridica, non essendo in contestazione che il potere datoriale di recesso abbia natura causale, sia cioè riconosciuto al datore di lavoro e dal medesimo esercitabile solo ed esclusivamente in presenza di ragioni giustificative normativamente individuate attraverso le categorie della giusta causa e del giustificato motivo, dandosi altrimenti un licenziamento ad nutum, non compatibile con i principi costituzionali e comunitari.
Nel caso in esame – in cui lo stato di malattia è risultato compatibile con lo svolgimento delle attività oggetto di contestazione in quando non ha pregiudicato la guarigione o la sua tempestività, pur essendo il fatto posto a fondamento del licenziamento per giusta causa sussistente da un punto di vista materiale – sicuramente è assente l’elemento dell’antigiuridicità e, quindi, del tutto condivisibilmente, la sentenza impugnata ha applicato la tutela reintegratoria di cui al comma quarto dell’art. 18 St.Lav. che trova applicazione anche quando il fatto sussista da un punto di vista materiale ma lo stesso sia privo dei caratteri dell’antigiuridicità ed illiceità.
Invero, non può ritenersi relegato al campo del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare sostanzialmente inapprezzabile (cfr. Cassaz. n. 18418/2016) dovendosi, per contro, ritenere che il fatto materialmente accaduto, ma privo di antigiuridicità e quindi irrilevante sul piano disciplinare, debba essere fatto rientrare nel concetto di “insussistenza del fatto contestato”, che permette, in base al quarto comma dell’articolo 18, la reintegrazione nel posto di lavoro.
Il capo di sentenza in esame deve pertanto essere integralmente confermato.
3.Infondato, infine, è anche il terzo ed ultimo motivo di reclamo attinente la prova dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum che l’appellante ritiene di aver formulato richiedendo di ordinareal lavoratore l’esibizione, ex art. 210 cpc, di idonea documentazione circa lo stato occupazionale.
È noto che in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (cfr. Cassaz. n. 11122/2016).
È noto, altresì, che l’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. ha natura residuale in quanto utilizzabile solo quando la prova del fatto non sia acquisibile “aliunde” e l’iniziativa non presenti finalità esplorative, con la conseguenza, pertanto, che non può essere ordinata l’esibizione in giudizio di un documento di una parte o di un terzo allorquando l’interessato può, di propria iniziativa, acquisirne una copia e produrla in causa.
Nel caso in esame, attraverso una elementare indagine presso gli Uffici di collocamento la società reclamante avrebbe potuto acquisire autonomamente la “idonea documentazione circa lo stato occupazionale” del reclamato.
Anche il capo di sentenza in esame deve pertanto essere integralmente confermato. Ne consegue che – come già enunciato – il reclamo deve essere respinto e la sentenza reclamata integralmente confermata
Le spese del grado sostenute dal reclamato, in applicazione del principio della soccombenza, vanno poste a carico della società appellante che dovrà rimborsarle nell’ammontare indicato in dispositivo.
La medesima società, inoltre, è tenuta a versare un importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 1 comma 17 introdotto dalla legge n. 228/2012., avendo proposto il gravame in epoca successiva al 31.01.2013, per cui nel caso in esame si applica detta normativa (cfr. Cassaz. n. 26566/2013) la quale ha modificato l’art. 13 del DPR n. 115/2002 mediante inserimento del comma 1 quater, a mente del quale, se l’impugnazione principale o incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma del comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di L’Aquila, definitivamente pronunciando sul reclamo proposto avverso la sentenza del Tribunale di Lanciano, in funzione di giudice del lavoro, pronunciata in data 29.01.2018, così decide nel contraddittorio delle parti:
– Respinge il reclamo;
– Condanna la società reclamante rimborso delle spese del grado sostenute dalla reclamata che si liquidano in euro 4.180,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% del compenso totale per la prestazione (art.2 D.M.10.03.2014), I.V.A. e C.A.P. come per legge;
– Dichiara che la società reclamate è tenuta al pagamento di un importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in L’Aquila il 19.07.2018
IL CONSIGLIERE EST. IL PRESIDENTE
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