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Licenziamento del lavoratore, impossessamento di beni aziendali

La Corte di Cassazione ha stabilito che la giusta causa di licenziamento può essere determinata dalla grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, specialmente dell’elemento essenziale della fiducia, indipendentemente dalla qualificazione penale dell’illecito.

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Pubblicato il 27 aprile 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

La Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di XXX intesa all’accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato da YYY s.r.l. sulla base di contestazione che ascriveva al dipendente di essersi appropriato, per far fronte ad esigenze personali, della somma di 1.300,00 euro prelevata dalla cassa del punto vendita affidato al dipendente.

Per la cassazione della decisione proponeva ricorso XXX.

La sentenza impugnata, a fronte delle deduzioni del XXX in ordine alla necessità, al fine della configurazione dell’illecito disciplinare, del ricorrere di tutti gli elementi della fattispecie penalmente rilevante dell’appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. ha ritenuto assorbente il rilievo secondo il quale il licenziamento in tronco era stato intimato anche in virtù della previsione sub l) del codice disciplinare che contempla l’immediata sanzione espulsiva allorché il lavoratore si renda responsabile di <<appropriazione nel luogo di lavoro di beni o denaro aziendale o di terzi anche di modico valore, attesa la rilevanza specifica dell’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro >>; ha ritenuto quindi non pertinenti le deduzioni del lavoratore intorno alla configurabilità del reato di appropriazione indebita, << attesa la piena ricorrenza di quest’ultima fattispecie, che sotto il profilo fattuale ha formato oggetto di immediata ammissione da parte del XXX>>.

Il giudice di merito ha così mostrato di ritenere che il Codice disciplinare contemplasse quale autonoma fattispecie di rilievo disciplinare l’appropriazione di beni o danaro aziendale o di terzi, a prescindere dalla integrazione degli elementi configuranti l’appropriazione indebita quale fattispecie penalmente rilevante.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha infatti chiarito che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione.

Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative.

Le conclusioni attinte dalla Corte di merito non sono superabili alla luce della asserita esistenza di una unitaria nozione di appropriazione indebita, di derivazione penalistica, che si assume recepita dall’ordinamento generale e destinata, in tesi, ad operare con valenza generale in ogni ambito dell’ordinamento e quindi anche in quello disciplinare.

Tale assunto è smentito in relazione al rapporto fra dipendente e datore di lavoro dalla espressa previsione codicistica della <<giusta causa>> di recesso dal contratto delineata dall’art. 2119 c.c. quale fattispecie autonomamente giustificativa della immediata risoluzione del rapporto di lavoro; nell’area della << giusta causa>> di cui all’art. 2119 c.c. confluiscono infatti tutti i comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, rispetto ai quali risulta tendenzialmente indifferente il rilievo, penale o meno, delle condotte; ciò anche in presenza di ipotesi astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale.

Tali conclusioni rappresentano il logico corollario delle differenti finalità alle quali è ispirato il diritto penale nella configurazione delle singole fattispecie di reato rispetto al diritto del lavoro nell’ambito del quale la condotta disciplinarmente rilevante, con specifico riferimento al profilo di interesse, è quella che, comunque, configuri grave negazione dei doveri scaturenti dal rapporto di lavoro ed in quanto tale giustificativa della immediata espulsione del lavoratore.; ciò a prescindere dal rilievo penale della stessa.

In questo ordine argomentativo la giurisprudenza di legittimità, in tema di licenziamento del lavoratore per abusivo impossessamento di beni aziendali ha in particolare chiarito che << per la determinazione della consistenza dell’illecito non rileva, di regola, la qualificazione fattane dal punto di vista penale (e, in particolare, se l’illecito integri il reato consumato di furto o appropriazione indebita ovvero solo il tentativo), essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, e specialmente dell’elemento essenziale della fiducia, e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto agli obblighi lavorativi.>>( Cass. n. 5633/2001).

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 8154 del 27 marzo 2025

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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