La Suprema Corte ha da tempo chiarito che la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui allo Statuto dei lavoratori, articolo 5, non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio di merito (cfr. Cass. 06/06/1998 n. 5600 e nel tempo tra le altre Cass. 08/02/2008 n. 3095, 25/07/2011 n. 16195, 04/09/2018 n. 21620 e 16/01/2020 n. 822).
La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 420 del 14/12/1998 – nel dare atto del fatto che secondo il diritto vivente la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui allo Statuto, articolo 5, non ha carattere di definitività poiché il giudice della controversia può pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio di merito – ha ritenuto che rientrano nel “rischio d’impresa” le conseguenze della scelta del datore di lavoro di optare per l’immediato licenziamento del dipendente invece che agire secondo le normali regole contrattuali con la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, ed ha sottolineato al riguardo che si tratta di una scelta del legislatore chiaramente rivolta a tutela del soggetto più debole.
D’altra parte, diversamente opinando, il rischio di un errato accertamento da parte dell’organo amministrativo deputato verrebbe fatalmente a gravare sul lavoratore, che si troverebbe a subire la risoluzione del rapporto anche in assenza di una causa giustificativa.
Il Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 42, poi, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, nell’inciso “ove possibile” contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare – anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti (Cass. 01/07/2016 n. 13511).
In via generale va rammentato che il licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica accompagnato dalla violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione, a norma della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 7, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 (Cass. 25/09/2018 n. 22675) che è possibile quando risulti manifestamente insussistente il fatto posto a base dello stesso vale a dire che sia chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso.
Al riguardo si è ritenuto che a tale nozione non possa essere ricondotto il caso in cui la prova sia meramente insufficiente ovvero quando non si possa ritenere legittimo il recesso in relazione all’esistenza di elementi di prova opinabili e non univoci (cfr. Cass. 04/03/2021 n. 6083).
Del pari si è ritenuto che una insufficienza probatoria in ordine all’adempimento dell’obbligo di repechage non potesse essere sussunta nell’alveo della manifesta insussistenza del fatto (cfr. Cass. 08/01/2019 n. 181).
In definitiva, la “manifesta insussistenza” va riferita ad assenza dei presupposti evidente e facilmente verificabile sul piano probatorio che consenta di apprezzare la pretestuosità del licenziamento (cfr. Cass. 02/05/2018 n. 10435).
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 9158 del 21 marzo 2022
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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