REPUBBLICA ITALIANA
CORTE DI APPELLO DI PALERMO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Palermo, sezione controversie di lavoro, previdenza ed assistenza, composta dai signori magistrati :
Riunita in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 28/2022 pubblicata il 24/02/2022
Nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 977/2021 promossa
Da
XXX s.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avv.
APPELLANTE
Contro
YYY, rappresentato e difeso dall’avv..
APPELLATO
Il 13 gennaio 2022 a seguito di trattazione scritta disposta ai sensi dell’art. 83 dl n. 18/20, convertito nella legge n. 27/2020 come modificato dall’art. 221 legge n. 77 del 2020, le parti hanno concluso come in atti.
IN FATTO
Con sentenza dell’1/7/2021 il G.L. del Tribunale di Palermo, adito su ricorso proposto da YYY ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato nei di lui confronti dalla XXX s.r.l. in data 19/4/2019 e, in applicazione delle tutela reale assicurata dall’art. 2 D. Lgs n. 23/2015, ha condannato la società alla reintegrazione del lavoratore ad al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non corrisposte fino all’effettiva reintegra.
Ed invero, premesso che il lavoratore, operaio repartista a tempo indeterminato dal 9/5/2018 , era stato licenziato a motivo della sopravvenuta inidoneità fisica alla prestazione – certificata dal medico competente che lo aveva dichiarato abile alle mansioni con la limitazione della movimentazione di carichi superiori a 10 Kg. – e della impossibilità di ricollocarlo ad altre mansioni, il G.L., riqualificato l’atto di recesso come licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore ai sensi dell’art. 2 comma 4° D. Lgs. n. 23/2015, ha ritenuto che la società non aveva dimostrato l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore nonché di avere adottato “i ragionevoli accomodamenti organizzativi” richiesti dall’art.3 comma 3 bis del D. Lgs n. 216/2003 per garantire alla persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori.
Dal che ha ricondotto l’applicazione della tutela reintegratoria avendo ritenuto accertato il difetto di giustificazione del motivo addotto come causa del licenziamento.
La sentenza di primo grado è stata impugnata dalla XXX s.r.l. sulla scorta di un triplice complesso motivo di gravame.
Resiste il lavoratore che chiede il rigetto dell’appello.
All’esito della trattazione scritta disposta nella vigenza della legislazione emergenziale anti-covid sulle conclusioni delle parti richiamate in epigrafe la causa è stata decisa come da dispositivo, in calce.
IN DIRITTO
Un primo motivo di gravame concerne profili processuali inerenti la gestione della fase istruttoria.
Si rimprovera al G.L. di avere illegittimamente rigettato la richiesta di ammissione della prova testimoniale con il teste *** facente parte dell’originaria lista testimoniale della parte appellante e benchè lo stesso fosse stato depennato in esito al provvedimento di riduzione delle liste sovrabbondanti emesso ai sensi dell’art. 245 c.p.c..
A dire della XXX permaneva il diritto della parte di recuperare la prova testimoniale poiché funzionale ad esplorare un tema di prova rilevante – verifica delle possibilità di reimpiego del lavoratore nel periodo intercorrente tra l’insorgenza della patologia del YYY e la settimana antecedente il licenziamento – non adeguatamente istruito dall’esame dell’unico teste escusso (***) che aveva invece riferito sulle circostanze relative al periodo immediatamente precedente la determinazione di recesso.
Il motivo è infondato.
L’esercizio dei poteri ordinatori spettanti al G.L. in funzione dell’economicità e della speditezza dell’attività di istruzione probatori si palesa nella facoltà allo stesso riconosciuta di ridurre le liste testimoniali allorquando più testimoni siano chiamati a riferire su un medesimo tema di prova.
Nel caso di specie è avvenuto che G.L. ha invitato la parte a ridurre la lista testimoniale (già limitata a n.2 testi) facultandola a scegliere , tra i testi indicati, quello a sua discrezione più idoneo a illustrare la circostanza indicata.
La XXX non si è opposta al taglio dei testimoni avendo ritenuto l’unico teste individuato satisfattivo del tema istruttorio oggetto di prova sicchè ha rinunciato implicitamente alla prosecuzione dell’attività probatoria salvo a cercare di recuperare il secondo teste quando la sua escussione era ormai preclusa dalla disposta chiusura della fase istruttoria .
Ora la suddetta opzione abdicativa , rientrante nel potere dispositivo di parte ed equivalente alla rinuncia implicita alla prova con il teste estromesso , si configura come espressione del potere dispositivo di parte salvo che il giudice , nell’esercizio dei poteri discrezionali suoi propri, non ritenga di disporre successivamente l’assunzione dei testi ritenuti inizialmente superflui (Cass. n. 1096/2017).
Nessuna illegittimità o compressione del diritto di difesa può pertanto ravvisarsi nel provvedimento di diniego del G.L. il cui apprezzamento peraltro si condivide alla stregua del fatto che una valutazione sulla possibilità di reimpiego rilevante sul piano del rispetto dell’obbligo di repechage avrebbe dovuto essere pur sempre compiuta alla data del licenziamento e non prima quando il lavoratore versava ancora in stato di malattia. Proprio su tale deficit probatorio ha poggiato la decisione del Tribunale che ha valorizzato quanto riferito dal teste *** a proposito del fatto che , una volta rientrato il YYY dal periodo di malattia e considerata la sua minorazione fisica, egli venne dirottato dal reparto bibite al reparto merendine “dove si poteva svolgere un’attività meno gravosa” a conferma della possibilità per l‘azienda di rimodulare l’organizzazione aziendale al fine di assicurare la conservazione del posto di lavoro del dipendente.
In proposito è noto che in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’onere della prova che ricade in capo al datore di lavoro concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (Cass. n. 29102 del 11/11/2019; Cass. n. 10435 del 2/5/2018). Sicchè una volta dimostrato che era possibile ricollocare il lavoratore in altro reparto compatibile con le limitazioni fisiche diagnosticate , correttamente il G.L. ha registrato il fallimento della prova sul punto.
Ma l’onere della prova di cui è stata onerata la XXX nel giudizio di primo grado è stato ritenuto dal G.L. più ampio in guisa da ricomprendere l’adozione dei ragionevoli accomodamenti organizzativi necessari a garantire il pari trattamento del lavoratore affetto dalla disabilità rispetto agli altri lavoratori occupati.
Ciò sul presupposto che il licenziamento del YYY fosse sussumibile nella tipologia della causa di disabilità del lavoratore e come tale soggetto alla disciplina antidiscriminatoria delineata dall’art. 3 del D. Lgs. n. 216/2003 alla cui violazione l’ordinamento (art. 3 comma 4° D. Lgs. n. 23/2015) riconduce l’applicazione della tutela reintegratoria piena.
Su tale fronte si concentra il secondo motivo di impugnazione articolato dalla XXX che lamenta la sussunzione del recesso sotto la previsione dell’art. 2 comma 4° cit. che ne avrebbe tralignato la nozione giuridica estendendo la sfera di applicazione del concetto di disabilità ad una situazione patologica – quale era la parziale inidoneità fisica del YYY – non irreversibile ed ontologicamente incomparabile con esso.
Valorizza a tal fine la definizione di disabilità mutuata dalla Convenzione ONU del 13/12/2006 a tenore della quale per disabilità si intende una “limitazione di capacità risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori” per restituire a tale ambito concettuale l’ordine delle tutele assicurato dall’art. 3 del D. Lgs. n. 216/2003
Anche tale motivo non ha pregio.
Nell’ottica di ricondurre ad unità la complessa disciplina dettata dal D. Lgs. n. 216/2003 recante “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” il legislatore ha equiparato nella condizione del portare di handicap soggetto della tutela antidiscriminatoria di cui all’art. 3, tanto il lavoratore destinatario della disciplina settoriale di cui alla Legge n. 68/1999 sul collocamento mirato per i lavoratori disabili che la figura del lavoratore attivo che divenga inabile allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia stabilendo che l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori (art. 4 co. 4° Legge n. 68/1999) e prevedendo altresì che il datore di lavoro, ove le verifiche compiute dal medico competente prevedano una inidoneità alla mansione specifica, adibisca il lavoratore, ove possibile a mansioni equivalenti o mansioni inferiori (art. 42 D. Lgs. n. 81/2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro).
Una volta emersa a livello legislativo siffatta nozione estesa di handicap ne è scaturita la regola interpretativa enucleata dalla S.C. (n. 6497 del 9/3/2021) che estende a tutte le situazioni di disabilità/inidoneità originaria o sopravvenuta l’ambito delle tutele assicurate dalla normativa antidiscriminatoria e detta il principio che “In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, il datore di lavoro è tenuto, ai fini della legittimità del recesso, a verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, nonché ad adottare, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori, fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi”.
Cosicchè deve opinarsi, ai fini dell’adempimento dell’obbligo previsto dall’art. 3 comma 3 bis del D. Lgs. n. 216/2003 , non era sufficiente per la società allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, sovrapponendo la dimostrazione circa l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute con il distinto onere di ricercare altre soluzioni ragionevoli, né tanto meno era sufficiente trincerarsi dietro la mera affermazione che di accomodamenti praticabili non ve ne fossero, lamentando che il lavoratore non ne aveva individuati.
Il corollario che ne segue è che anche al lavoratore che sia affetto da inidoneità fisica certificata alla mansione specifica sono applicabili le tutele apprestate dall’ordinamento e segnatamente la sanzione della nullità del licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica psichica del lavoratore di cui sia accertato il difetto di giustificazione (art. 2 comma 4° D. Lgs. n. 23/2015).
E poiché, come detto, la prova dell’adozione delle misure organizzative ragionevoli e necessarie ed assicurare l’effettiva partecipazione del lavoratore alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori costituisce il contenuto dell’onere istruttorio ricadente in capo al datore di lavoro ed integra un presupposto di legittimità del licenziamento, l’inadempimento di tale compito probatorio ha inficiato intrinsecamente la validità della misura giustificandone l’annullamento e determinando l’applicazione delle tutele legali correlate alla su notata connotazione dogmatica del concetto di disabilità.
La sentenza impugnata merita allora integrale conferma.
Le spese del grado vanno regolate secondo soccombenza e liquidate e distratte come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, conferma la sentenza n. 2820/2021 pronunciata dal Tribunale di Palermo in data 11 luglio 2021.
Condanna la XXX s.r.l. al pagamento o delle spese del presente grado del giudizio in favore del YYY e le liquida in complessivi € 3.500,00 disponendone la distrazione in favore del procuratore antistatario avv..
Dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002.
Palermo 13 gennaio 2022
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La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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