REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI ANCONA sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza composta dai magistrati:
1.
NOME
NOME COGNOME Presidente 2. dr.
NOME COGNOME Consigliere rel.
3. dr.
NOME COGNOME Consigliere All’esito della camera di consiglio tenutasi ai sensi dell’art.127 ter cpc;
lette le note illustrative, ha pronunciato la seguente
SENTENZA N._185_2024_- N._R.G._00000056_2024 DEL_05_06_2024 PUBBLICATA_IL_06_06_2024
Nel procedimento n.56/2024 r. g. sez. lav., vertente TRA , in persona del legale rappresentante, rappr.ta e difesa per procura in atti dall’Avv. NOME COGNOME COGNOME del Foro di Roma Reclamante rappr.to e difeso per procura in atti dall’Avv. NOME COGNOME del Foro di Reclamato Conclusioni come in atti
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso a questa Corte depositato il 15 febbraio 2024 La ha esperito reclamo ex art. 1, comma 58, l.n. 92/2012 nei confronti di ed avverso la sentenza del 16 gennaio 2024 con cui il Tribunale di Ancona, in funzione di Giudice del Lavoro, aveva respinto l’opposizione proposta, ex art. 1, comma 51, della legge citata, da essa originaria convenuta, confermando l’ordinanza con cui in fase sommaria era stato dichiarato illegittimo e ritorsivo il licenziamento intimato il 17 febbraio 2021 a in relazione alle contestazioni di addebito del 4 e 9 febbraio 2021, quindi era stata dedotto la reclamante l’errore del giudice di primo grado nel valutare i fatti di causa, ed in particolare nel minimizzare la concreta gravità delle condotte addebitate al dipendente, le quali, viceversa, esaminate singolarmente ed a fortiori nel loro complesso, integravano trasgressione di precise regole imposte dalla datrice di lavoro nell’interesse dell’organizzazione e della produzione aziendale; in particolare, ha censurato il non corretto esame, da parte del Tribunale, dei paragrafi 1 e 2 del capitolo 5.3 del Regolamento Disciplinare, dai cui contenuti si sarebbe potuto evincere l’assoluto divieto per i dipendenti, durante l’orario lavorativo, non soltanto di navigare su siti pornografici, ma anche di consultare materiale pornografico, comunque acquisito sul personal computer ricevuto in dotazione per motivi essenzialmente professionali;
ha evidenziato che la sola sistematicità di simile contegno, a prescindere dall’esatta quantificazione dei giorni e delle ore complessivamente impiegati in tale attività, fosse sufficiente ad integrare utilizzo distorto e vietato dello strumento di lavoro, perché contrario alla realizzazione degli interessi aziendali;
che, peraltro, attraverso le deposizioni testimoniali e la produzione documentale in atti era emerso come il reclamato frequentasse in maniera tutt’altro che moderata i siti in questione durante l’orario di lavoro;
che, in forza delle regole fissate nel Disciplinare, ogni utilizzo del pc aziendale non conforme a finalità professionali, ed in specie la navigazione su siti “a rischio” (in primis quelli pornografici), poteva innescare disservizi, rallentamenti del sistema, costi di manutenzione e, soprattutto, minacce alla sicurezza non facilmente gestibili mediante i comuni sistemi anti-virus di “protezione interna” in dotazione.
Con riferimento alla contestata negligenza nel redigere gli elenchi relativi ai dati dei “Pensionati” e dei “Proposti” associati, la reclamante ha censurato la sentenza impugnata per avere trascurato del tutto gli elementi di fatto dai quali potesse evincersi il carattere intollerabile degli errori e delle omissioni, ivi presenti in numero rilevante, in relazione alla qualifica di Responsabile della e impiegato direttivo di 1° livello rivestita dal reclamato, ossia tali da integrare mancanze gravi, idonee a recare danno all’azienda, dunque a ledere il vincolo fiduciario, a prescindere dall’entità del pregiudizio patrimoniale per esse in concreto arrecato. In ordine al contestato accesso indebito ai locali della CNA Nazionale Marche con sottrazione di materiale, la reclamante ha censurato la scelta del primo giudice di trascurare l’intrinseca valenza negativa del comportamento del dipendente, introdottosi nei locali dell’articolazione territoriale con fare furtivo e senza alcuna autorizzazione, in un sabato pomeriggio d’estate, il quale non aveva mai fornito minime giustificazioni a tale contegno.
Quanto alle contestate false affermazioni in ricorsi giudiziari, la reclamante ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva escluso il carattere mendace delle affermazioni utilizzate dal dipendente in sede di proposizione dell’azione giudiziale nei confronti della datrice di lavoro, lavorativo;
in tal senso, la reclamante ha sottolineato che la prova della non ritorsività di determinati comportamenti in se stessa costituisse prova dell’inesistenza di azioni ritorsive, dunque della circostanza che la denuncia del dipendente fossa basata su fatti non veri.
Infine, la reclamante ha censurato la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, onde acclarare la natura ritorsiva del licenziamento, senza considerare quanto emergesse dai documenti di causa a riprova della sostanziale veridicità e non pretestuosità degli addebiti, ed inoltre violando il disposto dell’articolo 18 , 1° comma, Legge 300/1970 e dell’articolo 1345
c.c., posto che la ritorsione andava valutata con riferimento “ad una reazione immediata e di fastidio per un comportamento tenuto dal lavoratore”, non già rispetto ad iniziative datoriali assunte a distanza di ben quattro mesi dalla condotta del lavoratore, ma soprattutto andava ricondotta al carattere unico e determinante del motivo di recesso, dunque alla pretestuosità delle incolpazioni, laddove, al contrario, numerosi elementi acquisiti agli atti evidenziavano come vi fosse stata necessità di procedere disciplinarmente nei confronti di un impiegato direttivo di 1° livello, Responsabile dell’ autore di fatti oggettivamente legittimanti l’azione disciplinare e la sanzione espulsiva. La reclamante ha, pertanto, insistito, in riforma della sentenza impugnata, per il rigetto dell’avversa domanda;
in via subordinata, ha chiesto riformarsi la decisione ai sensi dell’articolo 8 Legge 15 Luglio 1966
n° 604, nonché dell’articolo 4 della Legge 11/05/1990 n° 108, nel senso che, anche in ipotesi di ritenuta illegittimità del licenziamento, essa datrice di lavoro, in quanto Organizzazione di tendenza senza scopo di lucro, fosse condannata alla riassunzione, non già alla reintegrazione, del lavoratore, o in alternativa al pagamento a costui di una somma compresa fra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione globale di fatto;
in estremo subordine, ha chiesto dichiararsi risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannarsi essa a corrispondere un’indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, ovvero il diverso importo ritenuto di giustizia;
il tutto con vittoria di spese di lite.
ha resistito al reclamo chiedendone il rigetto.
Allo scadere dei termini per il deposito delle note sostitutive d’udienza la causa è stata trattenuta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il reclamo è fondato e deve essere accolto nei termini di seguito precisati.
A parere del Collegio sussiste una ragione assorbente di illegittimità del recesso intimato all’odierno reclamato, costituita dal carattere non sufficientemente specifico delle contestazioni formulate a carico del dipendente rispetto all’utilizzo del pc aziendale per accedere durante l’orario di lavoro a siti pornografici e rispetto all’introduzione nei locali aziendali della CNA Marche, di , rispetto all’insieme delle mancanze contestate al lavoratore, i suddetti addebiti appaiono essenziali ai fini della complessiva valutazione datoriale di irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, così da rendere indispensabile una formulazione degli stessi in termini molto più dettagliati e precisi di quelli adottati in seno alla comunicazione del 4 febbraio 2021. Ed infatti, la contestazione inerente alla navigazione sui siti pornografici appare del tutto avulsa da concreti riferimenti ai singoli episodi di accesso, alla durata di ciascuno di essi, alla loro esatta collocazione in giorno ed in orario lavorativo, e soprattutto alla loro frequenza e successione temporale.
Ebbene, in base ai chiari contenuti degli artt. 1, punto 1.5 e 4 punto 4.2 del Disciplinare, che consacrano le regole aziendali di condotta e gli obblighi dei collaboratori in relazione all’uso degli strumenti informatici di Internet e della Posta Elettronica nonché al corretto utilizzo del computer aziendale, l’impiego dei device e del personal PC per finalità private e diverse da quelle aziendali non è consentito, se non negli stretti limiti stabiliti dal regolamento stesso, in quanto potenzialmente idoneo a provocare disservizi, rallentamenti del sistema, costi di manutenzione e soprattutto minacce alla sicurezza. Si evince dai contenuti complessivi della fonte normativa aziendale in esame che, per acquistare portata irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, l’utilizzo per fini personali degli strumenti informatici ricevuti in dotazione deve sostanziarsi in un sistematico modus agendi del lavoratore piuttosto che in un contegno sporadico e di carattere eccezionale, così che la carenza totale di indicazioni indispensabili a definirlo nel senso anzidetto, quindi a connotarlo come consuetudinario, inibisce alla lettera di contestazione di assolvere alla preventiva funzione di esatta individuazione dell’oggetto dell’incolpazione, in termini tali da costituire in sé espressione sufficiente di quell’intrinseco disvalore che giustifichi la misura disciplinare espulsiva, a prescindere dalla prova della sua effettiva sussistenza. Altrettanto è a dirsi per il contestato accesso presso i locali della CNA Marche ed alla successiva fotocopiatura di documenti per fini personali, rispetto ai quali non si specifica la fonte del divieto fattone ad un soggetto, pur sempre dipendente dell’articolazione territoriale CNA né si indicano tipologia e contenuti del materiale asseritamente “sottratto” e fotocopiato, inibendo così qualsiasi valutazione anche in ordine alla corretta qualificazione dell’azione, in termini di indebita acquisizione invece che di prelevamento consentito di documenti. L’evidente carenza dei necessari elementi di specificazione innanzi additati rende la preventiva contestazione degli addebiti inidonea ad assolvere la funzione di garanzia sancita dall’art. 7 l.n.300/70 – consentire all’incolpato l’immediata difesa – ed inficia in radice il licenziamento sotto il profilo formale, a prescindere dai requisiti dimensionali e dalla natura del discende che gli argomenti spesi in seno all’odierno reclamo, seppure astrattamente idonei, in base a quanto emerso dalla prova testimoniale e documentale, a sottoporre a vaglio critico le valutazioni del Tribunale in ordine alla valenza dei comportamenti tenuti dal lavoratore in costanza di rapporto, non possono acquistare rilievo onde legittimare a posteriori la scelta datoriale di recedere dal rapporto, nel difetto di un essenziale requisito di legittimità formale preliminarmente richiesto dalla legge, il cui previo accertamento è imprescindibile rispetto all’analisi degli eventuali profili di legittimità sostanziale. In altri termini, per quanto all’esito dell’istruttoria siano emersi sufficienti elementi a riprova del contegno del reclamato sostanzialmente trasgressivo delle regole aziendali, soprattutto in tema di utilizzo degli strumenti informatici, tali elementi non possono invocarsi a sostegno dell’iniziativa disciplinare, essendo questa carente del necessario profilo di regolarità formale imposto dalla norma di garanzia consacrata all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
Ciò detto, e una volta esclusa la validità formale degli addebiti innanzi esaminati, le residue contestazioni inerenti alla proposizione del ricorso ex art. 700 cpc, in seno al quale sarebbe stata screditata la mediante false dichiarazioni, ed alla superficiale e negligente gestione dei dati relativi ai Pensionati e Proposti associati, non assurgono per se stesse a gravi mancanze, idonee a giustificare la massima sanzione espulsiva.
Con riferimento alla negligenza nella gestione dei dati degli associati, occorre evidenziare che, ai sensi delle disposizioni del CCNL di settore invocato dalla reclamante come fonte di disciplina del rapporto dedotto in causa, il criterio in base al quale distinguere il grado di negligenza sanzionabile con le misure conservative della multa e della sospensione dal grado di negligenza sanzionabile con il licenziamento risiede nella possibilità di ravvisare nella cattiva esecuzione della prestazione non già un fatto episodico, ancorché non isolato, bensì un modus operandi del dipendente, ossia un di lui sistematico approccio al lavoro connotato da completo disinteresse per i risultati qualitativi e quantitativi della produzione aziendale; ciò si evince dal fatto che, con riferimento alla condotta integrante esecuzione negligente del lavoro affidato, le Parti Sociali hanno previsto la sanzione del licenziamento disciplinare solo nell’ipotesi in cui al lavoratore venga contestata la recidiva, “…oltre la terza volta nell’anno solare, in una qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione….
”, ossia allorquando il dipendente sia stato autore di accertata negligenza nell’esecuzione dei compiti assegnatigli in almeno quattro distinte occasioni nel medesimo anno, ovvero si sia mostrato reiteratamente incline ad assumere comportamenti irresponsabili (ad esempio, presentandosi in servizio in condizioni di manifesta ubriachezza), o ancora abbia chiaramente in dispregio la cura dei beni aziendali (provocandone il frequente , quindi, che, ai fini della lesione del vincolo fiduciario, il disvalore della condotta del lavoratore rilevi con riferimento non già al grado di negligenza raggiunto rispetto al singolo episodio di inesatta esecuzione della prestazione, bensì rispetto al numero di episodi integranti cattivo espletamento delle mansioni assegnate. Viceversa, il carattere grossolano ed eclatante degli errori commessi dal dipendente nell’eseguire il singolo incarico affidatogli può condurre all’applicazione della sanzione espulsiva, senza che ricorra il fattore numerico innanzi evidenziato, solo nel caso in cui, alla stregua di un complesso di elementi che il datore di lavoro è onerato di offrire al vaglio del giudicante, l’episodio di negligenza in questione riveli in sé tutta la valenza sintomatica di quel disprezzo per il bene- azienda che di regola accompagna la plurima ed infrannuale esecuzione disattenta e sciatta di prestazioni, facendolo assurgere ad indice spia di una distanza del lavoratore dagli interessi della parte datoriale sufficiente a legittimare la cessazione del rapporto.
Nel caso di specie, in base agli elementi acquisiti agli atti, non è emersa la suddetta valenza sintomatica nella – per quanto cattiva – qualità esecutiva dell’incarico di gestione dei dati relativi ai e ai Proposti, menzionato in seno alla contestazione del 9 febbraio 2021, né risulta contestata al dipendente la recidiva nei rigorosi termini sanciti dal CCNL invocato.
Passando all’esame della contestazione inerente alla proposizione del ricorso giudiziale, si legge nella sentenza della Corte di Appello di Ancona del 2 marzo 2022 che il lavoratore non ha offerto concreti elementi da cui desumere la natura ritorsiva del recesso comunicatogli il 28 maggio 2020;
nel corpo del provvedimento giudiziale manca qualsiasi riferimento ad aspetti “storici” della vicenda dedotta in causa, da cui dedurre il carattere mendace delle allegazioni poste dal lavoratore a base dell’impugnativa, così che l’esito negativo dell’indagine inerente alla natura ritorsiva dell’allora impugnato recesso resta ancorato ad una valutazione di carattere esclusivamente “processuale” e neutrale rispetto all’oggetto della contestazione disciplinare all’odierno vaglio, non implicante di per sé a contrario l’affermazione di falsità delle deduzioni e prospettazioni di parte attrice. In definitiva, la Corte di Appello nell’occasione si è limitata a stigmatizzare il mancato assolvimento degli oneri probatori a carico del lavoratore, nulla evidenziando circa l’effettivo verificarsi di fatti materiali e di episodi consapevolmente rappresentati dal ricorrente in termini contrari al vero.
Rispetto, poi, all’affermazione del lavoratore di versare in uno stato di difficoltà economica tale da legittimare il ricorso alla procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ed alla reticenza inerente alla circostanza di aver conseguito in corso di procedimento cautelare un’ingente somma di denaro elevabile a condizione di accesso alla tutela anticipatoria, in sé del tutto inidonea a ledere l’immagine, la reputazione e l’onore della parte datoriale.
Opera, dunque, rispetto all’odierna fattispecie il principio richiamato dal Tribunale secondo cui, ove manchi la prova della consapevolezza nel lavoratore di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti, l’esercizio in giudizio delle proprie ragioni da parte del dipendente resta condotta pienamente lecita che non integra giusta causa di licenziamento.
Resta da stabilire se la scelta datoriale di imputare all’iniziativa giudiziale del lavoratore conseguenze lesive del vincolo fiduciario integri il motivo ritorsivo unico e determinante, al quale fa riferimento il primo giudice.
Ritiene il Collegio che i risultati ai quali giunge il Tribunale, nel fare applicazione dei criteri di riparto degli oneri probatori nella specifica materia, contrastino con i consolidati principi formatisi sul punto presso i giudici di legittimità.
In proposito, occorre muovere dall’affermazione, ormai ratificata dalla Corte di Cassazione in forma di Ordinanza, secondo cui “In tema di licenziamento ritorsivo, l’accoglimento della domanda di accertamento della nullità è subordinata alla verifica che l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali va quindi escluso ogni giudizio comparativo. ” (Cass., Ord.n.
6838/2023).
Chiarisce la Suprema Corte nella parte motiva della richiamata pronuncia “….secondo questa Corte (tra le più recenti v. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022, alle quali si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp.
att. c.p.c.), per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005;
Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011);
2.2.
dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697
c.c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742 del 2018;
Cass. n. 18283 del 2010);
in particolare, ben può il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, del recesso (Cass. n. n. 23583 del 2019);
2.3.
è stato altresì specificato che l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso;
ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 27325 del 2017; Cass. n. 26035 del 2018);
2.4.
non è dubbio che il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano nella specie la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali è riservata (per tutte Cass. n. 26399 del 2022); …….spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’íd quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017)…”
Ebbene, il complesso degli elementi acquisiti agli atti, anche all’esito delle prove testimoniali, induce a ritenere che l’iniziativa giudiziaria del lavoratore odierno reclamato abbia potuto contribuire ad alimentare la decisione della parte datoriale di risolvere il rapporto, rappresentando per questa uno degli eventi complessivamente comportanti il superamento della soglia di tollerabilità della personalità del reclamato, ma non ha avuto efficacia determinante esclusiva di detta volontà. In particolare, gli esiti dell’istruttoria espletata in primo grado offrono sufficiente riscontro oggettivo alla materiale sussistenza dei comportamenti addebitati al lavoratore, seppure gli stessi, per le ragioni innanzi esposte, non sono processualmente emersi come fatti idonei a legittimare la massima misura disciplinare espulsiva.
Si può, dunque, affermare che l’iniziativa disciplinare della reclamante sia frutto di un’autentica situazione di reciproca tensione creatasi tra le parti per effetto di diversi comportamenti realmente tenuti dal dipendente, e non si riduca alla pretestuosa ed artificiosa rappresentazione di tali comportamenti, anche se gli esiti dell’odierna indagine giudiziale non consentono di definire legittima l’adozione della misura disciplinare del licenziamento.
Non può, insomma, dal mero giudizio di illegittimità della misura disciplinare adottata ricavarsi l’unicità ed essenzialità del motivo ritorsivo, difettando minimi elementi, anche solo indiziari – l’onere della cui offerta incombeva tutto al lavoratore – in ordine alla circostanza che i strumentale all’estromissione del reclamato dalla compagine lavorativa, per il solo fatto che costui avesse adito l’autorità giudiziaria.
Semmai, l’iniziativa giudiziaria del reclamato ben può avere contribuito ad acuire nella reclamante l’atteggiamento severo ed intransigente nei confronti del dipendente, di cui aveva già in passato stigmatizzato le obiettive mancanze con sanzioni conservative, come emerge dalla documentazione in atti.
Passando ad esaminare il profilo della tutela da accordare al reclamato in conseguenza della declaratoria di illegittimità del licenziamento impugnato, è adeguatamente emersa, e d’altro canto non è stata contestata in questa sede, la natura di organizzazione di tendenza afferente all’odierna Confederazione reclamante, come tale non avente scopo di lucro in quanto non operante con criteri di economicità.
Sul punto, è sufficiente richiamare il consolidato orientamento dei giudici di legittimità secondo cui “In tema di licenziamento illegittimo, la speciale deroga al regime generale della tutela reale, prevista dall’art. 4 della l. n. 108 del 1990 in favore delle associazioni di tendenza, trova applicazione all’ente che preveda tra gli scopi sociali, non solo, quello di rappresentanza sindacale, ma anche quello di assistenza e sostegno dell’attività professionale (assistenza fiscale, contabile, tributaria, fiscale, legale, contrattuale, del lavoro, previdenziale ed assistenziale) esclusivamente in favore della categoria rappresentata, purché tale attività non sia svolta con autonomia gestionale separata da quella dell’ente e non sia caratterizzata da imprenditorialità, ancorché preveda corrispettivi predeterminati senza margini profitto. (Cass., Sez. L – , Sentenza n. 16349 del 03/07/2017).
Al riguardo, la prova di una gestione della Confederazione improntata a criteri di imprenditorialità e finalizzata alla realizzazione di profitti avrebbe dovuto essere fornita dal reclamato, che non ha in alcun modo assolto a tale incombente probatorio.
Peraltro, lo stesso reclamato nei propri scritti difensivi ammette di avere sempre svolto un ruolo strettamente attinente alla funzione istituzionale della essendo egli stato sin dall’inizio addetto a mansioni di carattere sindacale, per poi essere nominato segretario della zona sud di e responsabile del CAF CNA.
L’applicabilità al caso di specie dell’art. 4 l.n. 108/1990 non può escludersi nemmeno alla luce di quanto sancito dall’art.9, secondo comma, del d.lgs.n. 23/2015, a mente del quale “2.
Ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, si applica la disciplina di cui al presente decreto.
”, posto che l’art. 1, primo comma, del medesimo decreto legislativo, sotto la rubrica “Campo di applicazione” puntualizza:
“1. Per i lavoratori che rivestono la qualifica di dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto”.
Ne discende l’inapplicabilità del d.lgs n. 23/2015 al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sorto tra le parti in epoca di gran lunga anteriore all’entrata in vigore della legislazione in esame.
Alla stregua dei suesposti argomenti, di valenza assorbente rispetto ad ogni altra questione sollevata, la sentenza di primo grado va riformata in senso parzialmente conforme alle istanze della reclamante, tenuta a riassumere il dipendente o in mancanza a versare in suo favore la somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge, con diritto alla restituzione delle somme eccedenti detto importo, eventualmente versate in esecuzione della sentenza impugnata.
Le spese di lite dell’intero giudizio, in onore al criterio della parziale soccombenza, possono essere compensate tra le parti in misura della metà e per la metà residua sono poste a carico della reclamante e liquidate in dispositivo in favore del reclamato
La Corte così provvede:
1) Accoglie il reclamo per quanto di ragione e, in riforma della sentenza impugnata, dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato da con lettera del 17 febbraio 2021;
condanna la reclamante alla riassunzione di o, in mancanza, al versamento in suo favore della somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge;
ordina a la restituzione di quanto eventualmente percepito in eccedenza alle suddette somme ed in esecuzione della sentenza impugnata;
2) compensa tra le parti le spese di lite dell’intero giudizio nella misura della metà e condanna la reclamante alla rifusione della metà residua, liquidandola in favore del reclamato nel già ridotto importo di euro 1.756,50 per il primo grado e di euro 1.900,00 per il presente grado, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e CNPAF nella misura di legge.
Così deciso in Ancona, all’esito della Camera di Consiglio del 23 maggio 2024 Il consigliere est. Il Presidente
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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