A norma dell’articolo 2486 c.c., comma 1, al verificarsi di una causa di scioglimento della società e fino alla sua messa in liquidazione, gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale e, a norma del comma 2, gli stessi sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per atti o omissione in violazione del precedente comma.
Dunque, le condizioni della azione di risarcimento danni nei confronti degli amministratori, riconducibile all’attività da essi posta in essere dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, sono il compimento, dopo tale evento, di atti di gestione non aventi una finalità meramente conservativa del patrimonio sociale (liquidatoria), il danno ed il nesso di causalità tra condotta e danno.
In ordine al primo requisito, va osservato che la Suprema Corte ha specificamente affrontato la questione degli oneri di allegazione e probatori relativi alla violazione dell’obbligo dell’amministratore, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, di porre in essere solo operazioni di natura conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio nella pronuncia n. 2156/2015, nella quale è stato perentoriamente affermato che la sentenza che ponga a carico della curatela l’onere di dimostrare l’assenza della finalità liquidatoria degli atti posti in essere dagli amministratori incorre nella violazione del precetto legale sulla ripartizione dell’onere della prova ex articolo 2697 c.c., ed è come tale censurabile in Cassazione per violazione di legge.
E’ stato, in particolare, osservato che la parte che agisce in giudizio (la curatela) ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria.
Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari.
Non vi è dubbio che il compimento da parte dell’amministratore, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, di atti non aventi una finalità liquidatoria dia luogo a quell’inadempimento astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si pretende il risarcimento, prima condizione richiesta per l’affermazione della responsabilità dell’amministratore (Cass. S.U. n. 9100/2015).
Con riferimento agli altri due elementi (danno e nesso di causalità tra condotta dell’amministratore e danno), va osservato che la Suprema Corte, già con la sentenza n. 17033 del 23/06/2008, aveva enunciato il principio di diritto secondo cui, in caso di azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società per violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni (a norma dell’articolo 2449 previgente c.c.) – nozione che è speculare a quella di atto finalizzato alla conservazione del valore e del patrimonio della società a norma dell’attuale formulazione dell’articolo 2486 c.c. – a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’articolo 2447 c.c., non può liquidarsi il danno, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.
Tale conclusione è stata ripresa dalla già richiamata sentenza delle sezioni unite n. 9100/2015, che, seppur in una fattispecie diversa (non riconducibile alla violazione degli obblighi di cui all’articolo 2486 c.c.) in cui il giudice di merito aveva addossato all’amministratore l’intero deficit patrimoniale della società a causa del mancato rinvenimento delle scritture contabili (che avrebbe impedito la ricostruzione dei movimenti contabili), ha ribadito il concetto che non possono farsi gravare sull’amministratore quelle passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, dato che questa non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni costo legato all’esistenza della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate dalla cessazione dell’attività di impresa.
Ciò posto, la sentenza n. 9100/2015, se, da un lato, non ha certo avallato quegli orientamenti giurisprudenziali (citati dalla curatela) diretti ad affermare, in ipotesi di mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, il principio dell’inversione dell’onere della prova, dall’altro, ha statuito che, ove la mancanza (o irregolare tenuta) delle scritture contabili renda difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’articolo 1226 c.c., e perciò chiedere al giudice di provvedere ad una liquidazione del danno in via equitativa.
E’ stato quindi enunciato il principio di diritto secondo cui è consentito l’utilizzo del criterio equitativo per la liquidazione del danno purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore, e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.
Corte di Cassazione, Ordinanza n. 198 del 5 gennaio 2022
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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