REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO
Sezione Decima Civile
nella persona del Giudice dott.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 677/2022 pubblicata il 27/01/2022
Nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 6445/2019 promossa da:
XXX (C.F.)
YYY (C.F.)
ATTORI
contro
MINISTERO DELLA SALUTE (C.F. 80242250589), in persona del Ministro pro tempore,
rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano nei cui Uffici in via Freguglia, n. 1 è domiciliato
CONVENUTO Conclusioni
Le parti, all’udienza del 16.09.2021, hanno precisato le conclusioni come da fogli depositati telematicamente che qui devono intendersi come integralmente trascritte.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
1. Con atto di citazione ritualmente notificato XXX e YYY convenivano in giudizio il Ministero della Salute per sentirlo condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subìti a causa del decesso del proprio prossimo congiunto, ***, rispettivamente padre e marito degli attori, in conseguenza dell’infezione da virus HCV contratta dal signor *** a seguito di plurime trasfusioni effettuate dallo stesso durante il ricovero presso gli Istituti Ospedalieri di *** dal 21.09.1980 al 10.11.1980, infezione cui ha fatto seguito l’insorgenza di malattia cronica e, successivamente, il decesso in data 13.01.2014 per “epatocarcinoma su cirrosi epatica HCV correlata”.
Si costituiva in giudizio il Ministero della Salute, il quale contestava sia il nesso di causa tra le emotrasfusioni a cui era stato sottoposto il signor *** e il contagio da virus HCV e il successivo decesso, sia la sussistenza di responsabilità ministeriale, tenuto conto dell’epoca del contagio e del difetto di obblighi di vigilanza all’epoca delle terapie trasfusionali; in via subordinata, in ipotesi di accoglimento della domanda, eccepiva la detrazione di quanto percepito dagli attori a titolo di indennizzo ai sensi della legge 210 del 1992.
Con provvedimento avente efficacia dal 28.02.2020, la causa veniva assegnata a questo giudice che disponeva accertamenti tecnici e, dichiarata l’inammissibilità dei capitoli di prova articolati per i motivi di cui all’Ordinanza del 7.4.2021, riteneva la causa matura per la decisione, fissando udienza di precisazione delle conclusioni per il giorno 16.09.2021.
A quest’ultima udienza, celebrata nelle forme della c.d. trattazione scritta ex art. 221 D.L. 34/2020 e successive modifiche, le parti precisavano le conclusioni ed il Giudice tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di legge di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
2. Gli attori formulano domanda risarcitoria nei confronti del convenuto Ministero della Salute, domanda che deve ritenersi sussumibile nel disposto normativo di cui all’art. 2043 c.c..
Al riguardo, la Suprema Corte ha ripetutamente statuito, anche recentemente (v. Cass. civ. 21145/2021; Cass. civ. 24163/2019 e Cass. civ. 18520/2018) che, per l’accertamento della responsabilità ministeriale in siffatta materia – tenuto conto delle conoscenze scientifiche esistenti all’epoca di produzione del preparato ed accertata l’esistenza di una patologia da virus HCV in soggetto emotrasfuso – in assenza di altri fattori alternativi, occorre accertare che l’omissione degli obblighi di controllo, prevenzione e vigilanza in ordine alla trasmissione di malattie mediante il sangue infetto sia stata causa dell’insorgenza della malattia (epatite HCV) e del conseguente eventuale decesso, per converso, che la condotta doverosa avrebbe impedito il verificarsi dell’evento lesivo (cfr. Cass. civ., sez. un. 581/2008); conseguentemente, l’omissione delle attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento gli attribuisce il potere (nel caso concernente la tutela della salute pubblica) espone il Ministero a responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. allorquando dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico derivi la violazione di interessi giuridicamente rilevanti dei cittadini-utenti (cfr. sul punto Cass. civ., Sez. Un., n. 576 del 2008).
In ordine al profilo degli obblighi gravanti sul Ministero anteriormente al 1990, giova richiamare l’orientamento della Suprema Corte (cfr. ex multis Cass. 26152/2014, Cass. civ. n. 17685 del 2011, Cass. civ. 2232/2016; Cass. civ. 11792/2016; Cass. civ. 18520/2018, Cass. civ. 24163/2019 e, da ultimo, Cass. civ. 21145/2021), integralmente condiviso da questo Tribunale, che riconosce la responsabilità ministeriale in relazione a molteplici casi di contagio di virus HCV a seguito di emotrasfusioni avvenute in epoca anteriore al 1978 (nella specie le pronunce sopra richiamate riguardano emotrasfusioni effettuate nel 1965, nel 1973, nel 1974, nel 1976 e nel 1977), sulla scorta della già nota esistenza, in ambito scientifico, già a partire dagli anni sessanta, di un terzo tipo di epatite, chiamato NANB, non A non B.
Ed infatti, il predetto orientamento della giurisprudenza di legittimità prende le mosse, per l’individuazione del fondamento della responsabilità ministeriale, dalla pluralità di fonti normative dalle quali sorgevano, già in epoca anteriore al 1978, obblighi di controllo e di vigilanza da parte del Ministero in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico.
Al riguardo si ricordano:
1) la L. n. 296 del 1958, art. 1 (che attribuisce al Ministero il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica, di sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici);
2) la L. n. 592 del 1967, art. 1 (attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti la raccolta, la preparazione, la conservazione, la distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, nonché la preparazione dei suoi derivati, e per l’esercizio della relativa vigilanza), art. 20 della medesima legge (che attribuisce al Ministero il compito di proporre l’emanazione di norme relative all’organizzazione, al funzionamento dei servizi trasfusionali, alla raccolta, alla conservazione e all’impiego dei derivati, alla determinazione dei requisiti e dei controlli cui debbono essere sottoposti), art. 21 (che attribuisce al Ministero il compito di autorizzare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico) e art. 22 (che attribuisce al Ministero il potere di autorizzare l’autorità sanitaria a disporre la chiusura del centro, del laboratorio o dell’officina autorizzati);
3) il D.P.R. n. 1256 del 1971 (recante regolamento di attuazione della L. n. 592 del 1967), contenente norme concernenti i poteri di controllo e vigilanza in materia del Ministero e contemplante (art. 44) l’obbligo di controllare se il donatore di sangue sia affetto da epatite virale, vietando in tal caso la trasfusione;
4) il D.M. Sanità 7 febbraio 1972 (contenente norme regolanti l’attività del Centro nazionale per la trasfusione del sangue, nonché la previsione che il Ministero della sanità sia costantemente informato delle attività del Centro);
5) il D.M. Sanità 15 settembre 1972, disciplinante l’importazione e l’esportazione del sangue e dei suoi derivati, contemplante l’autorizzazione ministeriale (almeno nel caso di provenienza da Paesi nei quali non vi sia una normativa idonea a garantire la sussistenza dei requisiti minimi di sicurezza) agli ospedali ed ai centri gestori per la produzione di emoderivati ed alle officine farmaceutiche che, all’esito di accertamento dell’Istituto superiore di sanità, siano risultati idonei ad eseguire i controlli sui prodotti importati;
6) la L. n. 519 del 1973 (attribuente all’Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica);
7) la L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conservando al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale con compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6. lett. b, c), confermando (art. 4, n. 6) che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale;
8) il D.L. n. 443 del 1987, che ha introdotto la c.d. farmacosorveglianza dei medicinali da parte del Ministero della Sanità.
Le fonti sopra richiamate delineano un quadro normativo che consente di rinvenire in capo al Ministero, anteriormente agli anni novanta, molteplici poteri di vigilanza nella preparazione ed utilizzazione di sangue ed emoderivati e di controllo in ordine alla correlata sicurezza: si evince, infatti, come sin dalla fine degli anni sessanta – inizi anni settanta il rischio di trasmissione di epatite virale era ben noto, dal momento che, già da tale epoca, il Ministero aveva disposto, con una serie di circolari del 1971 e 1972, la ricerca sistematica dell’antigene Australia unitamente a controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto e la rilevazione (indiretta) dei virus risultava possibile mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAg (cfr. sul punto Cass. civ. n. 8069 del 1993 e, da ultimo, Cass. civ. 21145/2021). Sin dalla metà degli anni sessanta erano infatti esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT – indicatori della funzionalità epatica – fossero alterati rispetto ai limiti prescritti (cfr., in tal senso, Cass. civ. n. 9315 del 2010 e, da ultimo, Cass. civ. 21145/2021).
Ne consegue che fin dalla fine degli anni sessanta, inizi anni settanta, fossero ben noti i rischi di trasmissione di epatite virale e fosse possibile la rilevazione (indiretta) dei virus attraverso la determinazione delle transaminasi ALT e il metodo dell’anti-HbcAg, a nulla rilevando in senso inverso, come ripetutamente affermato dalla Suprema Corte (cfr. ex multis Cass. 26152/2014, Cass. civ. n. 17685 del 2011, Cass. civ. 2232/2016; Cass. civ. 11792/2016; Cass. civ. 18520/2018, Cass. civ. 24163/2019 e, da ultimo, Cass. civ. 21145/2021) ed anche dalla Corte d’Appello di Milano (cfr. sentenza n. 1507/2015 e sentenza n. 2491/2008), la data della scoperta del virus dell’epatite C, in quanto non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità psico-fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale (trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità) e pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge (cfr. in questi termini Cass. civ. 17685/2011 e App. Milano sentenza n. 1507/2015 e n. 2491/2008).
Declinando, pertanto, i predetti principi alla fattispecie in esame, può ritenersi che, sulla base delle ricerche scientifiche in relazione all’esistenza del virus non A non B, del riconoscimento della sua modalità di contagio per via emotrasfusionale, della possibilità di individuare i possibili donatori infetti mediante gli opportuni marcatori, dell’eziologia del tipo di virus non A non B che veniva identificato di fatto escludendo nei donatori coinvolti la presenza del Hbs Ag, cioè del marcatore diretto del virus B e la positività degli stessi alle indagini seriologiche del virus A, anche all’epoca delle terapie trasfusionali effettuate al signor ***, nel 1980, il Ministero era ben consapevole del rischio di contagio di questo nuovo virus e degli strumenti utilizzabili per prevenirne la diffusione e avrebbe dovuto vigilare sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati, al fine di verificarne la sicurezza per l’emotrasfuso nello svolgimento del suo compito istituzionale di indirizzo e vigilanza ai fini della tutela della salute e della riduzione del rischio di contagio da sangue infetto.
In ordine al profilo soggettivo dell’illecito, la colpa della P.A., sia generica che specifica, risulta integrata dalla negligenza e dall’inosservanza delle leggi, dei regolamenti, degli ordini e delle discipline: la stessa si rinviene agevolmente – come altresì spiegato dalla Suprema Corte nella pronuncia sopra richiamata n. 17685/2011 – nella violazione dei comportamenti dovuti di vigilanza e controllo, imposti dalle fonti normative sopra ricordate, costituenti limiti esterni all’attività discrezionale ed integranti la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (cfr., sul punto, altresì, Cass. civ., 27/4/2011, n. 9404 e, da ultimo, Cass. civ. 21145/2021), in base alle quali essa è tenuta ad un comportamento di vigilanza, sicurezza e controllo circa l’effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione di quanto loro prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto (cfr. ex multis Cass. civ. n. 11301 del 2011), non risultando esaustiva – degli obblighi di diligenza attribuiti al Ministero de quo – la mera attività normativa assolta.
La giurisprudenza di legittimità ha avuto altresì modo di chiarire che, a fronte di tali obblighi normativi, non può essere invocata la discrezionalità amministrativa per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Invero, precisa la Suprema Corte che “il dovere del Ministero della salute di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula d’altro canto l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure necessarie per verificarne la sicurezza, essendo esso tenuto ad evitare o ridurre i rischi a tali attività connessi” (cfr. Cass., Sez. Un., n. 581 del 2008).
Pertanto, in ragione dell’unicità dell’evento lesivo – infezione da HCV e quindi lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato) in conseguenza dell’assunzione di sangue infetto e relativo evento morte – derivato dall’emotrasfusione (Cass. civ., sez. III, 29 agosto 2011, n. 17685; Cass. Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576), la responsabilità può accertarsi nell’omissione, da parte del Ministero, dei controlli, consentiti dalle conoscenze mediche e dei più datati parametri scientifici del tempo, sull’idoneità del sangue ad essere oggetto di trasfusione (tra le altre: Cass. 14 luglio 2011, n. 15453; Cass. 30 agosto 2013, n. 19995), in epoca anche anteriore alla più risalente delle scoperte dei mezzi di prevenibilità delle relative infezioni (cfr. Cass. civ. n. 2232 del 2016).
Quanto al profilo eziologico tra il trattamento trasfusionale cui è stato sottoposto il signor *** nel 1980 presso gli Istituti Ospedalieri di *** e il contagio da virus HCV, l’insorgenza di epatite cronica HCV correlata ad evoluzione cirrotica con segni di ipersplenismo e il successivo decesso, lo stesso è stato in primo luogo accertato dalla Commissione Medica Ospedaliera, in data 29. 11.2002, che ha ascritto la patologia contratta alla III categoria della tabella A, allegata al d.P.R. 30. 12.1981, n. 834 (v. doc. 8, fasc. att.) e, successivamente, dalla Commissione Medica Ospedaliera in data 30.01.2015 che ha ritenuto sussistente il nesso causale diretto del decesso con la patologia “HCC in cirrosi epatica scompensata” (v. doc. 24, fasc. att.)
Lo stesso c.t.u. nominato in corso di causa ha confermato tale correlazione, in termini di elevata probabilità, affermando che “Il signor *** fu sottoposto a plurime trasfusioni di sangue nel settembre 1980, a causa delle gravissime perdite ematiche conseguenti a ferita di arma da fuoco accidentale. Venti anni dopo l’incidente, precisamente nell’agosto 2000, il signor *** veniva a conoscenza della positività per epatite virale di tipo C. In quella circostanza si rendeva inoltre evidente che l’infezione HCV aveva causato una malattia cronica che era evoluta a cirrosi epatica. Poiché è noto che la storia naturale dell’infezione acuta C può determinare l’insorgenza di cirrosi epatica e carcinoma epatocellulare in un tempo variabile tra i 20 e i 30 anni dall’infezione, appare del tutto verosimile datare l’acquisizione dell’infezione HCV da parte del signor *** a 20 anni prima della diagnosi di cirrosi, ovvero al 1980, confermando l’esistenza del nesso di causalità tra l’evento trasfusionale, lo sviluppo di cirrosi e carcinoma epatocellulare e, in ultimo, il decesso […] l’elevato numero di trasfusioni subite dal paziente e il rischio di trasmissione del virus attraverso sangue e/o emoderivati all’epoca dei fatti (negli anni ’80, nei Paesi occidentali, il rischio di epatite C post-trasfusionale era circa il 20% per unità di sangue trasfuso) rendono estremamente elevata la probabilità che l’infezione HCV contratta dal signor *** sia correlata a tali trasfusioni” (v. relazione peritale, pag. 24).
Accertati dunque, nei termini predetti, i presupposti strutturali della fattispecie aquiliana, in assenza di altri fattori alternativi non provati da parte convenuta, può ritenersi che, nella fattispecie, secondo un giudizio probabilistico in applicazione del principio del “più probabile che non”, la condotta omissiva del Ministero convenuto sia stata causa dell’insorgenza della patologia contratta (cirrosi e carcinoma epatocellulare) e del successivo decesso (cfr. relazione peritale, pag. 24), e che la condotta doverosa ministeriale, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento lesivo.
3. Alla luce delle superiori considerazioni, così ricostruita la responsabilità ministeriale, giova, a questo punto, individuare l’area del danno risarcibile agli attori e, successivamente, procedere alla determinazione e liquidazione dei soli danni risarcibili.
3.1. Gli attori, rispettivamente figlio e moglie di ***, agiscono in giudizio iure proprio ai fini del riconoscimento preliminarmente del ristoro per il danno non patrimoniale derivato dalla perdita del congiunto e dunque per il danno c.d. da “perdita” del rapporto parentale, inteso quale turbamento psichico soggettivo e transeunte identificato con la sofferenza provocata dall’evento dannoso.
3.1.1. Com’è noto, il pregiudizio lamentato si sostanzia nella lesione “dell’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito familiare oltre all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana in seno alla famiglia, quale formazione sociale costituzionalmente tutelata. Trattasi di un interesse protetto, avente rilevanza costituzionale, per la cui lesione il risarcimento rappresenta la forma minima ed imprescindibile di tutela. Il danno lamentato incide, infatti, sulla valenza del bene supremo della vita e si riflette sul rapporto che correva tra la vittima ed i prossimi congiunti. Detta protezione costituzionale degli affetti familiari, in quanto concernente i diritti inviolabili della persona umana, non si arresta al solo ambito interno ma trova riconoscimento anche nella dimensione europea della tutela della vita familiare” (cfr. ex multis Cass. Civ. n. 19405 del 2013).
Il fatto illecito dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nelle conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, restando irrilevante, per l’operare di detta presunzione, la sussistenza di una convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro (cfr. Cass. Civ. 12146/2016).
Al riguardo, questo giudice condivide pienamente l’orientamento della Suprema Corte, ove è chiaramente espresso il principio di unitarietà del risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della relazione parentale, ancorata a criteri obiettivi: “In caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascun danneggiato – in forza di quanto previsto dagli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost., nonché degli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 1 della cd. “Carta di Nizza” – è titolare di un autonomo diritto all’integrale risarcimento del pregiudizio subìto, comprensivo, pertanto, sia del danno morale (da identificare nella sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo, non solo nell’immediatezza dell’illecito, ma anche in modo duraturo, pur senza protrarsi per tutta la vita) che di quello ‘dinamico-relazionale’ […]. Ne consegue che, in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare” (Cass. civ. n. 9231/2013).
In tema di pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno o entrambi i profili di cui si compone l’unitario danno non patrimoniale subìto dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale, nonché ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso concreto (cfr., da ultimo, Cass. Civ. 24689/2020).
Declinando i predetti principi alla fattispecie, è dunque necessario tenere presenti sia le particolari circostanze del decesso del de cuius – il significativo decorso della malattia che ha condotto il signor *** sino alla morte – sia l’età della vittima – giacché tanto maggiore sarà quest’ultima, tanto minore sarà il periodo di tempo per il quale verosimilmente si protrarrà l’anticipata sofferenza dei congiunti (cfr. Cass. civ. n. 3357 del 2009) – nonché il peculiare legame con gli odierni attori, come può evincersi dalla prossimità del legame parentale (coniuge e figlio), e la sussistenza di un rapporto di convivenza, elemento probatorio idoneo a dimostrare l’ampiezza e la profondità del rapporto medesimo.
Le superiori circostanze assurgono, dunque, ad elementi indiziari e presuntivi che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del Giudice nel senso della prova presuntiva del danno non patrimoniale da perdita parentale (cfr., ex multis, Cass. Civ., n. 20667/2010 e n. 7844/2011; Cass. civ. 14392/2019 e 24689/2020).
Ebbene, con riguardo alla moglie YYY, di anni 56 al momento dell’evento lesivo-morte del marito, relativamente giovane considerata l’aspettativa di vita media, convivente con il marito, in considerazione del legame affettivo che caratterizza il rapporto di coniugio, in questo caso di carattere stabile e duraturo dal momento che avevano anche un figlio di 33 anni, considerata l’età della vittima al momento dell’evento morte (61 anni), considerato che risulta provato in giudizio ex art. 115 c.p.c., in quanto allegato e non specificamente contestato, che la signora Ferrari ha assistito il marito nel corso dei ricoveri del 2012 e del 2014 sino alla morte, tenuto conto altresì dei criteri di liquidazione alla luce delle tabelle del Tribunale di Milano, considerato il carattere colposo del fatto, si ritiene equo liquidare il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale nella somma omnicomprensiva di Euro 250.000,00.
Quanto, invece, al figlio, XXX, di anni 33 al momento dell’evento lesivo occorso al padre, tenuto conto del legame di filiazione, della convivenza con il padre (v. doc. 28, fasc. att.) e della presumibile sofferenza in capo allo stesso che ha visto preclusa ogni possibilità di sviluppo di una relazione con il proprio padre, considerato che risulta provato in giudizio ex art. 115 c.p.c. in quanto allegato e non specificamente contestato che XXX ha assistito il padre nel corso dei ricoveri del 2012 e del 2014 sino alla morte, tenuto conto altresì dei criteri di liquidazione alla luce delle tabelle del Tribunale di Milano, considerato il carattere colposo del fatto, si ritiene equo liquidare il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale nella complessiva somma di Euro 200.000,00.
3.1.2. Sulle predette somme, liquidate all’attualità, devono essere altresì riconosciuti gli interessi compensativi del danno derivante dal mancato godimento tempestivo dell’equivalente pecuniario del bene perduto.
Gli interessi compensativi, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., n. 1712 del 1995), decorrono dalla produzione dell’evento di danno sino al tempo della liquidazione e si calcolano non sulla somma già rivalutata ma, di anno in anno, sulle somme iniziali, ossia devalutate alla data del fatto illecito, a mano a mano incrementate nominalmente secondo la variazione dell’indice Istat.
Pertanto, recependo i principi di cui alla sentenza n. 1712 del 1995 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, appare congruo adottare, anche in applicazione del principio equitativo ex artt. 1226 e 2056 c.c., come criterio di risarcimento del pregiudizio da ritardato conseguimento della somma dovuta, tenuto conto della natura del danno, dell’arco temporale considerato e di tutte le circostanze accertate, quello degli interessi legali, calcolati con le seguenti modalità: sulle somme come sopra liquidate devalutate all’epoca dell’evento lesivo-morte (13.01.2014) e poi progressivamente rivalutate, di anno in anno, secondo gli indici I.S.T.A.T. dal 13.01.2014 fino alla presente sentenza; sull’importo come determinato all’attualità sono successivamente dovuti gli ulteriori interessi legali, ex art. 1282 c.c., dalla presente pronuncia e fino al saldo effettivo.
3.2. Quanto al danno patrimoniale lamentato dagli attori iure proprio, le domande devono ritenersi meritevoli di accoglimento nei limiti di seguito espressi.
In ordine alla domanda formulata per il danno emergente lamentato in relazione alle spese funerarie, la stessa deve ritenersi accoglibile limitatamente a XXX in quanto le fatture di pagamento sono a lui intestate e dunque esclusivamente XXX è soggetto effettivo titolare del diritto fatto valere; sono, pertanto, dovute le spese funerarie sostenute e pari a complessivi Euro 3.350,00, il cui esborso risulta provato dai documenti prodotti (cfr. sub doc. 27, fasc. att.), oltre interessi compensativi, trattandosi di danno emergente, da calcolarsi secondo i criteri enunciati supra, sub 3.1.2..
4. In ordine all’eccezione di parte convenuta di detrazione dal quantum risarcitorio della somma riconosciuta alla moglie YYY a titolo di assegno una tantum ex L. 210 del 1992, con riferimento al principio della compensatio lucri cum damno, in forza del quale “la diversa natura giuridica dell’attribuzione indennitaria ex L. n. 210 del 1992, e delle somme liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da Hiv ed Hcv a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal soggetto contagiato nei confronti del Ministero della sanità, per aver omesso di adottare adeguate misure di emovigilanza, non osta a che l’indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del soggetto tenuto al pagamento” (cfr. Cass. civ. 992/2014 e Cass. civ. 584/2008 v. anche Cass. 26757/2020 e Cass. 8532/2020), la stessa merita accoglimento.
Ebbene, l’avvenuta corresponsione dell’assegno una tantum può evincersi dal documento allegato alla memoria istruttoria del 28.06.2019 (v. doc. 1, fasc. conv.), laddove si evince sia il riferimento al soggetto beneficiario dell’indennizzo, YYY, sia gli estremi del provvedimento che lo ha accordato, su istanza di parte, ovvero il provvedimento del Direttore Sanitario n. 46 del 2015; considerato che in relazione all’assegno una tantum non si pone alcun problema di determinazione o determinabilità dell’importo, posto che si tratta di una somma prefissata dalla legge; ritenuta pertanto acquisita agli atti l’avvenuta erogazione dell’assegno legislativamente previsto, deve procedersi alla sua detrazione.
Orbene, atteso che il predetto assegno è pari ex lege ad Euro 77.468,53, dalle somme come sopra determinate a favore della sola attrice YYY, a titolo di danno non patrimoniale, deve essere detratta la somma ricevuta a titolo di assegno una tantum ex L. 210/1992, art. 2, rendendo omogenei alla stessa data l’indennizzo ed il risarcimento. In particolare, rivalutando la somma liquidata a titolo di indennizzo dalla data di pagamento ad oggi, detraendo tale importo dal danno non patrimoniale sopra indicato, calcolando gli interessi compensativi secondo i criteri indicati supra, sub 3.1.2.
5. In ordine al regolamento delle spese di lite, le stesse seguono il principio di soccombenza e sono liquidate come in dispositivo ex D.M. 55/2014, come modificato con D.M. 37/2018, a carico del Ministero della Salute, tenuto conto dell’attività difensiva effettivamente espletata, della somma concretamente attribuita, delle questioni giuridiche e di fatto trattate e della presenza di più parti, da distrarsi a favore dell’avv. Luigi Delucchi come da dichiarazione ex art. 93 c.p.c..
Secondo i medesimi criteri devono essere definitivamente poste a carico della pubblica amministrazione convenuta le spese di c.t.u., come sostenute in corso di causa.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, sezione decima civile, definitivamente pronunciando nella causa civile di cui in epigrafe, ogni altra istanza, difesa, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:
− condanna il Ministero della Salute al pagamento a favore di YYY della somma di Euro 250.000,00, a titolo di danno non patrimoniale, oltre accessori come in motivazione, detraendo da tale importo la somma di Euro 77.468,53 ricevuta a titolo di assegno una tantum ex L. 210/1992, secondo i criteri indicati in motivazione;
− condanna il Ministero della Salute al pagamento a favore di XXX della somma di Euro 200.000,00, a titolo di danno non patrimoniale, oltre accessori come in motivazione, e la somma di Euro 3.350,00 a titolo di danno patrimoniale, oltre accessori come in motivazione;
− condanna il Ministero della Salute a rifondere le spese di lite sostenute dagli attori che si liquidano in Euro 15.353,00 per compensi, Euro 545,00 per esborsi, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge, da distrarsi a favore dell’avv. come da dichiarazione ex art. 93 c.p.c.;
− pone definitivamente a carico del Ministero della Salute le spese della consulenza tecnica d’ufficio come liquidate in corso di causa con decreto di pagamento del 31.3.2021.
Milano, 27 gennaio 2022
Il Giudice
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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