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Nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi

La sentenza analizza la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi e di commissione di massimo scoperto nei contratti bancari, sottolineando la necessità che il contratto preveda esplicitamente e disciplini analiticamente i criteri di calcolo per garantire trasparenza e determinatezza. Vengono inoltre esaminati gli obblighi di buona fede e correttezza delle banche nell’erogazione del credito e l’applicabilità dello ius variandi.

Pubblicato il 07 July 2024 in Diritto Bancario, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

————– CORTE DI APPELLO DI ANCONA I° SEZIONE PER LE CONTROVERSIE CIVILI Composta dai seguenti magistrati:
dr. NOME COGNOME Presidente dr.
NOME COGNOME Consigliere rel.
dr. NOME COGNOME ha pronunciato la seguente

SENTENZA N._894_2024_- N._R.G._00000066_2022 DEL_06_06_2024 PUBBLICATA_IL_07_06_2024

nella causa in grado di appello iscritta al n° 66/2022 del ruolo generale e promossa nato a (oggi ) il (c.f.
nato a (oggi (c.f. ) , e nato a (c.f. ), rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME come da mandato a margine C.F. – appellante- CONTRO in persona del legale rappresentante pro tempore (c.f./p.i.) , a mezzo della procuratrice in persona del legale rappresentante pro tempore (c.f./p.i.) elettivamente domiciliata in Fano presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente all’avv. NOME COGNOME come da mandato allegato alla comparsa di costituzione e risposta;
– appellato-

OGGETTO Appello avverso la sentenza n. 901 del 1-9/12/2021 pronunciata dal Tribunale di Pesaro

CONCLUSIONI

DELLE PARTI Per l’appellante:
piaccia all’Ecc.ma Corte di Appello, contrariis reiectis, per i motivi esposti in atto di citazione in appello nonché per le eccezioni e motivi svolte in sede di note di trattazione scritta depositate in data 12/1/2023:
in primis rinnovare l’istruttoria nominando CTU che accerti il credito posto a fondamento del decreto ingiuntivo opposto non tenendo conto di capitalizzazione degli interessi, commissione massimo scoperto, costi vari ed applicando il principio del saldo 0 laddove non risulta continuità tra i vari estratti conto depositati da parte convenuta opposta e laddove non risultano sottoscrizioni specifiche delle clausole;
conseguentemente in accoglimento dei motivi di all’atto di impugnazione e note depositate il 12/1/2012 voglia revocare in toto la sentenza n. 901/2021 oggetto di impugnazione perché:
di legittimazione e titolarità del diritto in capo al cessionario del credito anche per difetto di iscrizione nell’elenco ex art. 106 TUB.

La presente eccezione in deprecata ipotesi di dichiarata tardività dovrà valere come sollecitazione alla Corte a Verificare d’ufficio quanto eccepito, assegnando caso mai termine a parte appellata per dimostrare l’iscrizione ex art. 106 TUB;
nonché la carenza di legittimazione da parte di per non avere dimostrato il titolo in forza del quale agisce quale cessionaria dei crediti e di posizioni cedute dalla banca Credito Valtellinese S.p.a. (il documento allegato da parte convenuta oltre che inammissibile per tardività non appare idoneo a dimostrare la titolarità del credito per cui è causa- né nel corso del giudizio di primo grado è stata data prova della legittimazione ad agire);
difetto dello ius postulandi in capo ai difensori e difetto di rappresentanza sostanziale e processuale da parte di anche perché non risulta iscritta nell’elenco di cui all’art. 106 TUB (la presente da valere anche quale sollecitazione alla Corte a verificare d’ufficio la carenza di iscrizione ex art. 106 TUB);
all’uopo non ci si oppone acché l’Ecc.ma Corte conceda termine a parte appellata affinché depositi documentazione dalla quale risulti l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 106 TUB;
liberazione del fideiussore per non avere il creditore svolto istanze nei sei mesi;
nullità del contratto di conto corrente in quanto monofirma e difetta la prova della consegna di una copia al cliente;
difetto di prova del credito in assenza degli estratti conto in maniera integrale dall’inizio del rapporto alla chiusura;
nullità ed inesistenza della clausola di capitalizzazione trimestrale reciproca degli interessi tra le parti;
inesistenza dei contratti di fido;
dei fideiussori per violazione del merito creditizio- violazione degli artt. 1175, 1176 e 1337 in relazione all’art. 1956 c.c.;
nullità di tutte le clausole concernenti la capitalizzazione degli interessi perché non sono state sottoscritte autonomamente, ma inserite in blocco.
Con vittoria di spese e compenso di avvocato da distrarsi in favore dell’avv. NOME COGNOME che si dichiara antistatario per entrambi i gradi di giudizio.

Per l’appellato: chiede che l’adita Corte d’Appello di Ancona voglia:
respingere in toto le avverse domande in quanto del tutto generiche ed infondate (sul quantum e le prove del credito), nuove e tardive (sulla presunta carenza di legittimazione attiva di e sulla pretesa violazione della disciplina antitrust) di pertinenza della Banca cedente (il presunto contratto monofirma e la violazione del merito creditizio), contraddittorie (sulla contestazione delle garanzie rilasciate, dopo l’affermazione del preciso interesse degli opponenti al loro rilascio funzionale agli affidamenti) e respingere come inammissibili eventuali istanze istruttorie e confermare la sentenza n. 168/2017 del Tribunale di Pesaro, con declaratoria di esecutorietà definitiva dello stesso DI opposto. Con ogni ulteriore riserva.
Vinte le spese del grado.

RAGIONI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Pesaro ha rigettato l’opposizione proposta da al DI n. 168/2017 emesso nei loro confronti, quali fideiussori della RAGIONE_SOCIALE ed in favore di Credito Valtellinese S.p.a. per il pagamento della somma di € 463.398,55, oltre accessori, dovuta a titolo di saldo passivo complessivo risultante dai c/c n. acceso il 9/6/1992, n. acceso l’1/6/2009, n. acceso il 15/3/2002 e n. acceso Part Con Con particolare, il primo giudice, dopo aver assegnato il termine per l’espletamento della procedura di mediazione obbligatoria e rilevato che la stessa si era conclusa con verbale negativo: ha rigettato l’eccezione preliminare di difetto di legittimazione sostanziale e processuale degli opponenti a proporre opposizione, per non essere stato il credito contestato dalla debitrice principale; ha qualificato le garanzie poste a base della domanda di pagamento come contratti autonomi di garanzia ed ha ritenuto gli opponenti legittimati a proporre la sola eccezione di nullità degli interessi per usurarietà, ma non quella di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e di previsione della CMS e di indebita applicazione delle commissioni sostitutive;
ha dichiarato inammissibile perché tardiva e comunque rigettato l’eccezione di nullità delle garanzie prestate per violazione della normativa antitrust;
ha ritenuto provato il credito azionato in via monitoria non solo sulla base dei contratti e degli estratti conto allegati al ricorso per la cui incompletezza non precludeva comunque la ricostruzione del rapporto), ma anche sull’avvenuto riconoscimento del credito nell’atto pubblico per notaio del 5/2/2014 anche questo allegato al ricorso monitorio;
ha rigettato l’eccezione di nullità dei contratti di c/c per la mancata sottoscrizione degli stessi da parte della ha rigettato l’eccezione di usurarietà degli interessi.

Gli opponenti hanno proposto appello, riproponendo le eccezioni già svolte in primo grado ed eccependo in questa sede il mancato rilievo officioso da parte del giudice di primo grado della nullità del procedimento di mediazione per non avervi l’opposta partecipato personalmente, nonché il difetto di legittimazione processuale della società cessionaria costituitasi in primo grado.

Ha quindi concluso come in epigrafe Con note di trattazione scritta depositate in data 12/1/2023 gli appellanti hanno altresì eccepito il difetto di ius postulandi in capo ai difensori della appellata e il difetto di rappresentanza sostanziale e processuale in capo a L’appello appare meritevole di accoglimento nei limiti di cui in prosieguo.

Nullità del procedimento di mediazione Gli appellanti in via preliminare lamentano che il Giudice di primo grado avrebbe omesso di rilevare la nullità del procedimento di mediazione svolto su ordine del medesimo Tribunale, per non avere la società opposta partecipato personalmente, ma a mezzo del proprio difensore privo, tuttavia, di procura specifica per l’incombente.

A riguardo occorre rilevare come né nel verbale di mediazione del 30/11/2017 (cfr. doc. nel fascicolo degli appellanti) né all’udienza immediatamente successiva alla conclusione di detta procedura gli appellanti hanno rilevato l’irregolarità della stessa, eccezione questa non proposta neanche alle udienze successive.

Nessun rilievo è stato parimenti svolto d’ufficio dal giudice in relazione al non rituale svolgimento della procedura di mediazione.

Pertanto, poiché l’eccezione in esame doveva essere sollevata dalla parte o rilevata d’ufficio dal giudice a pena di decadenza alla prima udienza (nella specie da individuare in quella immediatamente successiva alla celebrazione del procedimento di mediazione) in conformità ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. da ultimo Cass. ord. n. 205 del 4/1/2024) gli appellanti sono ormai decaduti dal far valere la violazione di cui all’art. 8 d.lgs 28/2010.

Carenza di legittimazione sostanziale e processuale di Sempre in via preliminare gli appellanti si dolgono dell’omessa pronuncia da parte del Tribunale in relazione all’eccezione da loro proposta (per la prima volta in memoria conclusionale di replica) di riguardo, a prescindere da ogni altro rilievo, occorre rilevare come nel costituirsi nel giudizio di opposizione di primo grado l’odierna appellata ha prodotto copia della GU del 14/7/20217 in cui è riportato l’avviso di cessione in blocco ai sensi dell’art. 58 TUB da parte di di “tutti i crediti derivanti da finanziamenti ipotecari e/o chirografari sottoscritti tra il l’1 gennaio 1970 ed il 30 novembre 2016 vantati verso debitori classificati da o altra banca del gruppo bancario Credito Valtellinese, a sofferenza ed individuati in base ad una serie di criteri oggettivi” analiticamente e puntualmente specificati nell’avviso medesimo. In questa sede la società appellata ha altresì prodotto in giudizio copia per stralcio del contratto di cessione sottoscritto da Credito Valtellinese RAGIONE_SOCIALE
in cui sono specificamente riportati i rapporti dedotti in giudizio contrassegnati dal numero NDG NUMERO_DOCUMENTO e dai numeri 106874 (c/c n. ), 106875 (c.c n. 10052), 106876 (c.c. n. 10061) e 106877 (c/c ).

Tale ultima produzione deve ritenersi ammissibile alla luce del principio di diritto affermato dalla Suprema Corte per cui “Il divieto di produzione di nuovi documenti in appello di cui all’art. 345 c.p.c. si riferisce soltanto ai documenti relativi al merito della causa e non a quelli utili a dimostrare la legittimazione processuale, la cui produzione è soggetta a decadenza nel solo caso in cui non venga effettuata entro il termine assegnato dal giudice ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.c.” (cfr. per tutte Cass. sent. n. 17062 del 26/06/2019).

Del tutto destituito di fondamento è anche il ventilato non inserimento delle pagine successive a quella recante il n. 6 stante la diversa colorazione ed il diverso formato della pagina riportante i rapporti dedotti in giudizio ed oscurata per il resto, risultando evidente che nella specie è stato inserito nel contratto un file “banca” riportante i dati relativi al Borrower NDG e al numero dei rapporti dei crediti ceduti alla data di cessione, che in ogni caso risulta confermato dalla sottoscrizione posta in calce al contratto dalla Banca cedente.

Con RAGIONE_SOCIALE crediti oggetto di cessione, pertanto, non solo appaiono sufficientemente individuati nel testo dell’avviso con riferimento al dato temporale della loro insorgenza e della loro natura, ma risultano specificamente e singolarmente individuabili sulla base del documento prodotto in questa sede.

La cessione risulta pertanto adeguatamente provata.

Gli appellanti hanno poi, per la prima volta nelle conclusioni precisate in questa sede, eccepito il difetto di legittimazione della società cessionaria anche per difetto di iscrizione nell’elenco ex art. 106 TUB.

A fronte della precisazione effettuata da in comparsa conclusionale di essere iscritta nell’Elenco delle società veicolo di cartolarizzazione tenuto dalla Banca d’Italia al n. 35356.5, della circostanza che detto elenco è liberamente consultabile tramite internet e che gli appellanti nelle note di replica non hanno insistito nell’eccezione, prendendo atto delle allegazioni svolte dall’appellata, questa Corte ritiene di rigettare l’eccezione in parola senza necessità di acquisire la documentazione de qua pure offerta dall’appellata.

Difetto di rappresentanza in capo e difetto di ius postulandi in capo ai difensori In sede di precisazione delle conclusioni in via preliminare gli appellanti hanno proposto l’eccezione di difetto di iscrizione all’albo ex art. 106 TUB anche con riferimento alla società mandataria Prescindendo anche in questo caso da ogni altra valutazione, questa Corte si limita a rilevare che con ordinanza n. 7243 del 18/3/2024 la Suprema Corte ha rigettato l’eccezione in parola affermando che “Il conferimento dell’incarico di recupero dei crediti cartolarizzati ad un soggetto non iscritto nell’albo di cui all’art. 106 T.U.B. e i conseguenti atti di riscossione da questo compiuti non sono affetti da invalidità, in quanto l’art. 2, comma 6, della l. n. 130 del 1999 non ha immediata valenza civilistica, ma attiene, piuttosto, alla regolamentazione amministrativa del settore bancario e , anche sanzionatori, facenti capo all’autorità di vigilanza e presidiati da norme penali, con la conseguenza che l’omessa iscrizione nel menzionato albo può assumere rilievo sul diverso piano del rapporto con la predetta autorità di vigilanza o per eventuali profili penalistici”. L’eccezione di difetto di ius postulandi in capo ai difensori, anche questa svolta dagli appellanti in sede di precisazione delle conclusioni, deve invece essere dichiarata inammissibile risultando la stessa priva di qualsivoglia argomentazione a sostegno.

Qualificazione delle garanzie azionate in via monitoria e invalidità dei contratti per violazione della normativa antitrust Nel merito gli appellanti hanno impugnato (terzo motivo di appello) il capo di sentenza che ha qualificato le fideiussioni poste a base della domanda monitoria come contratti di garanzia autonoma, sulla base dell’inserimento della clausola di pagamento “a prima richiesta”, nonché delle clausole 2, 7 e 8. Lamentano in particolare che il giudice non avrebbe tenuto conto della qualificazione formale delle garanzie prestate, della qualificazione riconosciuta dalla banca in sede di ricorso monitorio e della volontà delle parti desumibile dalle clausole contrattuali. Il motivo in parte qua è fondato.

In punto di diritto appare opportuno richiamare il principio di diritto, pacifico nella giurisprudenza di legittimità, per cui “la caratteristica fondamentale e qualificante del contratto autonomo di garanzia -che vale a distinguerlo dal negozio fideiussorio previsto dagli artt. 1936 e ss c.c. -è la carenza dell’elemento dell’accessorietà:
il garante si impegna a pagare il beneficiario, che escute la garanzia, senza opporre eccezioni in ordine né alla validità né alla efficacia del rapporto di base (eadem ratio Cass. 2464/04; Cass. 11368/2002” (cfr. pag. 28 appello).

Quello che rileva quindi non è il nomen iuris utilizzato dalle parti, ma la preclusione per i garanti di opporre eccezioni relative al rapporto Corte è pacifica nell’affermare che “Il contratto autonomo di garanzia si caratterizza, rispetto alla fideiussione, per l’assenza dell’accessorietà della garanzia, derivante dall’esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga all’art. 1945 c.c., e dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest’ultimo” (cfr. da ultimo Cass. ord. 19693 del 17/6/2022) e nell’individuare gli elementi caratterizzanti il contratto autonomo di garanzia nella presenza delle clausole “a prima richiesta e senza eccezioni”.

E’ pur vero che la stessa giurisprudenza della Suprema Corte afferma che l’assenza dell’accessorietà della garanzia può derivarsi, in mancanza delle predette clausole, anche dal tenore dell’accordo ed in particolare dalla presenza di una clausola che fissa al garante un ristretto termine per provvedere al pagamento dietro richiesta del creditore, tuttavia precisa che detta previsione contrattuale deve essere accompagnata “dalla esclusione, al contempo, della possibilità per il debitore principale di eccepire alcunché al garante in merito al pagamento stesso” (cfr. da ultimo Cass. n. 15091 del 31/05/2021). Orbene, nel caso di specie non solo i contratti versati in atti non contengono la clausola “senza eccezioni”, ma l’art. 7, pur prevedendo che i fideiussori sono tenuti a pagare immediatamente all’ a semplice richiesta scritta quanto dovuto per capitale, interessi spese e tasse dal debitore principale, non prevede alcuna limitazione del potere degli stessi di far valere questioni relative alla validità ed efficacia del debito garantito.

Né in senso contrario può argomentarsi sulla base dell’art. 9, atteso che lo stesso si limita a prevedere il potere della banca di recedere dai rapporti con il debitore senza che la scelta “del momento”, in cui esercitare detto potere, possa essere oggetto di contestazione da parte dei garanti.

Anche la clausola “solve et repete” non appare idonea ad intaccare l’accessorietà dell’obbligazione
non altera i connotati tipici di garanzia” (cfr. Cass. sent. n. 4446 del 21/02/2008), la clausola, infatti, si limita ad imporre ai garanti l’obbligo del pagamento immediato della somma richiesta dal beneficiario, ma con riserva della loro facoltà di sollevare eccezioni nei confronti del creditore dopo il pagamento.

Infine, inidonea ad escludere il carattere di accessorietà della garanzia in esame è anche la clausola n. 2 c.d. “di sopravvivenza”, dovendo la stessa essere intesa nel senso che, ove l’obbligazione principale sia dichiarata invalida, la fideiussione resta comunque efficace, al fine di garantire la restituzione delle somme comunque già erogate da parte della banca in esecuzione del contratto invalido.

Anche in questo caso permane l’accessorietà dell’obbligazione del fideiussore rispetto al debito principale, dal momento che per effetto di tale clausola la fideiussione viene a garantire pur sempre l’adempimento dell’obbligazione di restituzione di quanto indebitamente ricevuto in esecuzione di un contratto nullo.

In definitiva, l’obbligo dei fideiussori di garantire la restituzione delle somme comunque erogate, anche se le obbligazioni garantite fossero dichiarate invalide, non comporta che il fideiussore non possa eccepire la validità dell’obbligazione garantita, ma soltanto che l’eventuale dichiarazione di nullità non può influire sull’obbligo di restituzione della sorte capitale effettivamente erogata.
In riforma della sentenza impugnata le garanzie prestate dagli appellanti devono essere qualificate come fideiussioni omnibus, con conseguente potere dei medesimi di far valere nei confronti della cessionaria le eccezioni spettanti al debitore principale in applicazione dell’art. 1945 c.c..

Deve invece essere rigettata l’eccezione di nullità integrale o parziale dei contratti de quibus per violazione della normativa antitrust.

In punto di fatto risulta pacifico e comunque documentato in atti (cfr. doc. 6 nel fascicolo della che gli appellanti ha prestato le garanzie di cui si discute in data 20/5/2009 cioè in epoca di molto successiva al modello ABI 2003 e quindi estranea all’ambito temporale in relazione al quale è stato , pur essendo in linea di principio corretti i principi di diritto indicati da parte appellante, circa l’ammissibilità dell’eccezione nullità in ogni stato e grado del procedimento, tuttavia la stessa predica la necessità di accertare “la coincidenza tra la fideiussione oggetto di causa ed il testo frutto dell’intesa restrittiva della concorrenza“, questione di fatto il cui onere probatorio non può che essere posto a carico della parte che vuol far valere la nullità e che è rimasta priva di qualsivoglia tempestivo riscontro probatorio mediante la produzione dello schema oggetto di censura. Neanche in questa sede sono stati offerti i documenti necessari a tale scopo, ma si tratterebbe comunque di una produzione inammissibile ai sensi dell’art. 345
c.p.c. in quanto tardiva, poiché i documenti sono di molto risalenti all’inizio del giudizio di primo grado e parte appellante non ha neanche allegato l’esistenza di ragioni a sé non imputabili, che ne avrebbero impedito la produzione, ai fini di una remissione in termine.

Tali conclusioni devono essere vieppiù ribadite in relazione alla rilevata circostanza che le garanzie in esame sono di molto successive alla citata delibera della Banca d’Italia, sicché in relazione alle stesse non è possibile affermare il valore di prova privilegiata del parere reso dalla Banca d’Italia con provvedimento n. 55/2005 ai fini della sussistenza del contrasto con la norma imperativa antitrust, con conseguente affermazione dell’onere in capo agli appellanti di fornire prova della permanenza della suddetta illecita restrizione di mercato all’epoca in cui è stata sottoscritta la fideiussione oggetto del presente giudizio. La giurisprudenza di merito successiva alla sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 41994 del 30/12/21 ha, in più occasioni, escluso che il richiamato accertamento della Banca d’Italia possa estendersi de plano anche alle fideiussioni concluse in un periodo successivo a quello oggetto di accertamento (2002-2005), in quanto l’istruttoria svolta dall’organo di vigilanza ha riguardato l’arco temporale compreso tra l’ottobre 2002 ed il maggio del 2005 (cfr. provvedimento Banca d’Italia in allegato alla memoria ex art. 183 c.p.c. di parti appellanti), con conseguente onere gravante sull’attore della prova della sussistenza di una intesa anticoncorrenziale e della applicazione uniforme delle gennaio 2022; Trib. Forlì, 16 maggio 2022, n. 486, ma anche App. Venezia, 13 settembre 2021, n. 2356; nonché sent. n. 547 28.03.2023 e n. 499 del 21.03.2023 di questa Corte).

Ciò in quanto, come pure rilevato da Cass. n. 30818/2018, incombe all’attore che invoca la nullità della clausola, secondo l’ordinario regime di cui all’art. 2967 c.c., la prova del carattere uniforme e non occasionale di applicazione della clausola contestata, suscettibile di procurare una distorsione del mercato, trattandosi di un elemento costitutivo della sua pretesa.

Quindi, secondo detto orientamento, parte appellante avrebbe dovuto, in primo luogo, allegare la circostanza della sussistenza anteriore all’intesa dichiarata nulla della violazione della normativa de qua ovvero il della perdurante intesa illecita all’epoca della sottoscrizione della fideiussione e, poi, depositare le condizioni generali dei contratti di fideiussione omnibus adottati da un significativo numero di istituti bancari italiani, operanti sul mercato nazionale e non meramente regionale o locale, per far emergere che gli stessi avrebbero coordinato la propria azione, e quindi raggiunto un’intesa, al solo fine di impedire alla clientela di godere di condizioni diversificate, ed alternative tra loro, garantite dalla libera concorrenza. Evidenzia poi questa Corte che la questione in diritto va analizzata anche alla luce del principio enunciato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. sent n. 13846 del 22/5/2019) a tenore del quale “quel che assume rilievo, ai fini della predicata inefficacia delle clausole del contratto di fideiussione di cui agli artt. 2, 6 e 8 è, all’evidenza, il fatto che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata, e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita, come rilevato dalla cit. Cass. Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207 (cfr. in tema anche Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810, secondo cui ai fini dell’illecito concorrenziale di cui all’art. 2 della I. n. 287 del 1990, rilevano tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato).

Ciò che andava accertata, pertanto, non era la diffusione di un modulo ABI da cui contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva:
giacché, come è chiaro, l’illecito concorrenziale poteva configurarsi anche nel caso in cui l’ABI non avesse contravvenuto a quanto disposto dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 2 maggio 2005, ma la… avesse egualmente sottoposto all’odierno ricorrente un modulo negoziale includente le disposizioni che costituivano comunque oggetto dell’intesa di cui all’art. 2, lett. a), I. n. 287/1990”.

Ora, anche ammettendo che le clausole denunciate in questa sede siano conformi a quelle sanzionate dalla Banca d’Italia nel 2005, tenuto conto che le stesse sono state dichiarate nulle in quanto in contrasto con il disposto di cui all’art. 2 L. n. 297/1990 e non per la violazione di norme imperative, la circostanza nulla prova – con riferimento all’anno di stipula del contratto dedotto in giudizio- circa la condotta delle altre banche e, soprattutto, in ordine alla esistenza di un’applicazione uniforme di quello schema. Questa Corte in ogni caso rileva che, anche a voler astrattamente ritenere nulla la clausola di rinuncia alla decadenza prevista dall’art. 1957 c.c. contenuta nei contratti dedotti in giudizio in quanto conformi alle clausole Abi dichiarate nulle per violazione della normativa antitrust, l’eccezione de qua è stata proposta per la prima volta solo con la seconda memoria ex art. 183 sesto comma c.p.c ed è quindi evidentemente tardiva.

Gli appellanti infatti avrebbero dovuto svolgere puntuale allegazione fattuale circa il mancato rispetto da parte del creditore del termine semestrale ad agire contro il debitore principale e proporre espressa eccezione di decadenza nell’atto di citazione in opposizione a trattandosi di un’eccezione di merito o in senso stretto e quindi non rilevabile d’ufficio dal giudice (cfr. in tal senso da ultimo Cass. n. 7526 del 21/03/2024).

La domanda di liberazione degli appellanti per violazione del disposto di cui all’art. 1957 c.c. deve pertanto essere rigettata.
Conrigettato l’eccezione di nullità dei contratti di conto corrente azionati in giudizio per mancanza di sottoscrizione della Banca.

La questione di diritto prospettata è parzialmente fondata.

Non è in contestazione il principio di diritto ormai consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte per cui “In tema di contratti bancari, la mancata sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca non determina la nullità per difetto della forma scritta prevista dall’art. 117, comma 3, del d.lgs. n. 385 del 1993, trattandosi di un requisito che va inteso non in senso strutturale, ma funzionale.

Ne consegue che è sufficiente che il contratto sia redatto per iscritto, ne sia consegnata una copia al cliente e vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, potendo il consenso della banca desumersi alla stregua di comportamenti concludenti” (cfr. per tutte Cass. ord. n. 16070 del 18/06/2018; n. 22385 del 06/09/2019; n. 28500 del 12/10/2023).

Contestano tuttavia gli appellanti la non corretta applicazione di detto principio da parte del Tribunale, non avendo il primo giudice accertato l’esistenza del presupposto indefettibile richiesto dalla Suprema Corte perché sia integrata la forma ad substantiam e cioè quello della avvenuta consegna di copia del contratto al cliente.

L’eccezione è fondata nei limiti di cui in prosieguo.

Dalla documentazione prodotta dalla società opposta in primo grado risulta che tutti i contratti dedotti in giudizio, fatta eccezione del c/c n. recano in calce la firma del correntista anche per ricevimento di copia del contratto medesimo all’atto della sottoscrizione:
pag. 14 del contratto n. 545 (doc. 2a), pag. 6 del contratto n. 10061 (doc. 4a) e pag. 6 del contratto n. 10052 (doc. 5a).

Quanto al contratto n. 267 occorre innanzitutto evidenziare che lo stesso è stato stipulato in data 9/6/1992 e quindi in data anteriore all’entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria n. 154/1992, allorché non era prevista la forma scritta, vieppiù a pena di nullità, dei contratti bancari.

E’ evidente quindi come la ConIn relazione a tale ultimo contratto occorre pertanto fare applicazione del diverso principio di diritto affermato dalla Suprema Corte con ordinanza n. 19298 del 15/6/2022, per cui con riferimento ai contratti conclusi “prima dell’entrata in vigore delle norme sulla “nullità di protezione”, dettate a presidio del cd. mercato dei contratti asimmetrici, in caso di violazione della forma scritta nei contratti bancari, la pattuizione di interessi ultralegali era soggetta al requisito stringente della forma scritta ad substantiam imposto dall’art. 1284 cod. civ., la cui violazione comportava l’ordinaria forma di nullità assoluta, con conseguente necessità, ai fini della validità del patto, della sottoscrizione di entrambe le parti, sia pure con atti distinti, purché inscindibilmente connessi, e senza dunque possibilità di ritenere assolto il requisito per il tramite di contratti cd. “monofirma”, secondo il nuovo approccio ermeneutico inaugurato nel 2018 dal massimo organo nomofilattico di questa Corte”.

Nella specie la che ne era onerata, non ha fornito alcuna prova di avere fornito alla cliente la copia da essa sottoscritta né ha dedotto circostanze da cui poter presumere che la sua firma “fosse contenuta in altra scrittura, smarrita, trattenuta o non esibita, tale ipotesi integrando la fattispecie di perdita incolpevole del documento legittimante la prova presuntiva anche dei contratti a firma solenne” (Cass. sent. n. 3813 del 12/11/1975).

La clausola contrattuale di previsione degli interessi contenuta nel contratto di c/c n. deve pertanto essere dichiarato nulla per difetto della necessaria forma scritta, a prescindere da ogni altra considerazione circa il contenuto della pattuizione medesima.

Al contratto in esame devono pertanto essere applicati gli interessi legali di cui all’art. 1284 c.c. fino all’entrata in vigore della L. 154/1992 e poi l’art. 5 di tale legge e l’art. 117 comma 7 lettera a) TUB.

Onere della prova circa l’esistenza del credito azionato Con il quinto ed il dodicesimo motivo di impugnazione gli appellanti censurano il capo di sentenza che ha ritenuto accertato il credito azionato con decreto ingiuntivo pur in difetto della produzione in giudizio di numerosi periodi contabili degli estratti conto.

Con Salvi gli effetti dell’accertata nullità e di quelle derivanti dalle ulteriori questioni che saranno in seguito esaminate, occorre rilevare che il Tribunale ha fondato il proprio accertamento non solo sul rilievo della non incidenza della (peraltro limitata) mancanza di alcuni estratti conto, ma anche e soprattutto sulla circostanza che gli odierni appellanti con atto del notaio del 5/2/2024 avevano riconosciuto l’esistenza del credito nella misura azionata quale risultante dalla documentazione bancaria posta a sostegno della domanda monitoria. Tale capo della sentenza non risulta neppure genericamente contestato, con conseguente relevatio ab onere probandi della dal provare l’esistenza e l’entità del credito ed onere del debitore, il quale intenda resistere all’azione di adempimento, di provare o l’inesistenza o l’invalidità dello stesso rapporto fondamentale, ovvero la sua estinzione in forza del disposto di cui all’art. 1988 c.c..

Quanto alla mancata comunicazione del rendiconto periodico, del cui invio non è stata fornita alcuna prova, la circostanza non consente di privare gli estratti conto prodotti in giudizio del valore di prova del rapporto intercorso con la società debitrice.

La conseguenza della omessa comunicazione non può infatti ravvisarsi nella insussistenza o nell’inesigibilità del credito, ma solo nella non applicazione della decadenza dalla contestazione dell’estratto conto fissata dal secondo comma dell’art. 1832 c.c..

Afferma infatti la Suprema Corte (cfr. da ultimo Cass. ord. n. 29415 del 23/12/2020) “In tema di contratti bancari in conto corrente, la presunzione di veridicità delle scritturazioni del conto, quando il cliente, ricevuto l’estratto o documento equipollente, non sollevi specifiche contestazioni, trova applicazione anche qualora l’estratto non sia stato trasmesso con raccomandata o secondo le altre modalità indicate nel contratto, ma venga portato comunque a conoscenza del correntista, a sostegno della pretesa di pagamento del saldo passivo, con la conseguenza che tale pretesa non può essere respinta in presenza di un generico diniego della posizione debitoria da parte del cliente, non accompagnato da specifiche contestazioni”. In particolare, la Corte di Cassazione (cfr. da ultimo Cass. sent.
17242 del “trasmissione”, ai sensi dell’art. 1832 cod. civ., onerando il correntista delle necessarie specifiche contestazioni al fine di impedire che lo stesso possa intendersi approvato”.

Nel caso di specie, all’esito del deposito da parte della (in sede di tempestiva costituzione in giudizio) di quasi tutti gli estratti conto anche scalari del rapporto di conto corrente stipulato con la società debitrice principale, gli odierni appellanti non hanno svolto alcuna contestazione (che avrebbe dovuto essere necessariamente specifica) in ordine alle annotazioni ivi contenute.

Detta condotta processuale ha comportato la decadenza dal diritto di impugnare gli estratti conto, con conseguente riconoscibilità agli stessi del valore di piena prova, sotto il profilo meramente contabile, di quanto in essi scritturato (cfr. anche Cass. sent.
n. 870 del 18/01/2006).

Le considerazioni svolte impongono il rigetto delle osservazioni svolte dagli appellanti ai criteri di raccordo applicati dal CTU per la rideterminazione dei saldi dei rapporti dedotti in giudizio.

Nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi Con il sesto, il nono e l’undicesimo motivo di impugnazione, gli appellanti reiterano l’eccezione di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi.

L’esame dell’eccezione deve essere necessariamente diversificato in considerazione della data di conclusione dei contratti.

Con riferimento al contratto di c/c n. , sottoscritto in data 9/6/1992, si osserva che l’art. 7 prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori e quella annuale degli interessi creditori.

Detta clausola non può quindi che essere dichiarata nulla in applicazione dei principi di diritto ormai consolidati nella giurisprudenza della Suprema Corte per cui “In ragione della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 25, comma 3, del d.lgs. n. 342 del 1999, le clausole anatocistiche inserite in contratti di conto corrente conclusi prima dell’entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000 sono radicalmente nulle, con conseguente impraticabilità del giudizio di comparazione previsto dal comma 2 dell’art. 7 della delibera del CICR teso a verificare se le nuove pattuizioni abbiano o Concontratti perché sia introdotta validamente una nuova clausola di capitalizzazione degli interessi, è necessaria una espressa pattuizione formulata nel rispetto dell’art. 2 della predetta delibera” (cfr. per tutte Cass. n. 9140 del 19/05/2020). Né per il periodo successivo all’emanazione della CICR 5/2/2000 può affermarsi la validità della clausola medesima per essersi la banca uniformata alla ricordata deliberazione pur in difetto di specifica pattuizione scritta.

Solo succintamente appare opportuno ripercorrere brevemente la disciplina dell’istituto dell’anatocismo nel nostro ordinamento.

L’art. 1283 c.c. prevede espressamente che “In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”.

Fino alla pronuncia sentenza n. 2374/99 della Cassazione a Sezioni Unite in relazione alle condizioni contrattuali praticate dagli istituti bancari alla loro clientela si è sempre ritenuto che le norme bancarie uniformi integrassero il rango di uso contrario evocato dall’art. 1283 c.c., sicché i medesimi istituti bancari sono sempre stati considerati legittimati a praticare la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, anche in deroga all’art. 1283 c.c. attesa la periodicità inferiore ai sei mesi previsti quale termine minimo. La citata sentenza ha sancito che la normativa interna bancaria, disciplinante le condizioni contrattuali aventi ad oggetto anche gli interessi anatocistici trimestrali, sia da considerarsi esclusivamente alla stregua di uso meramente negoziale, in quanto carenti dei requisiti propri degli usi normativi.

Il che ha comportato l’inevitabile declaratoria di nullità delle clausole aventi ad oggetto gli interessi anatocistici trimestrali siccome contrarie al precetto di cui all’art. 1283 c.c..

Principio questo ormai ritenuto pacifico ed univocamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito.

A seguito di tale pronuncia il legislatore ha delegato al C.I.C.R. (Comitato Interministeriale Credito e Risparmio) il compito di stabilire le regole per la produzione degli interessi anatocistici trimestrali nell’esercizio dell’attività bancaria e tale organo vi ha provveduto con delibera del 9 febbraio 2000.

Per quanto qui interessa, all’art. 7 la suddetta delibera ha regolamentato la procedura prevista, per ogni istituto bancario, per adeguare le condizioni contrattuali aventi ad oggetto gli interessi anatocistici trimestrali stipulate anteriormente all’entrata in vigore della delibera medesima.

Il secondo comma dell’art. 118 TUB a sua volta ha previsto che “Qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali deve essere comunicata espressamente al cliente secondo modalità contenenti in modo evidenziato la formula:
“Proposta di modifica unilaterale del contratto”, con preavviso minimo di due mesi, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente.

Nei rapporti al portatore la comunicazione è effettuata secondo le modalità stabilite dal CICR.

La modifica si intende approvata ove il cliente non receda, senza spese, dal contratto entro la data prevista per la sua applicazione.

In tale caso, in sede di liquidazione del rapporto, il cliente ha diritto all’applicazione delle condizioni precedentemente praticate”.

E’ quindi sorta la questione se la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a condizione di reciprocità avesse o meno valenza peggiorativa e quindi se, avendo essa banca provveduto a darne pubblicità nelle forme previste dalla delibera CICR 2/9/2000, detta clausola avrebbe potuto essere applicata non essendo necessaria la forma scritta imposta dal terzo comma dell’art. 118 TUB.

La Suprema Corte sul punto (cfr. Cass. ord. n. 7105 del 12/3/2020) ha ritenuto che “la sostituzione della reciproca capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi e passivi all’assenza di capitalizzazione per effetto della declaratoria di nullità della clausola contrattuale anatocistica, rende evidente che vi sia stato un peggioramento delle condizioni contrattuali precedentemente applicate al conto corrente per cui è causa, sicché, proprio in applicazione dell’art. 7, comma 3 della peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela”) sarebbe stato necessario nella fattispecie in esame un nuovo accordo espresso tra le parti, non essendo ammissibile un adeguamento unilaterale. ” Ed ancora sempre la Corte di Cassazione con la pronuncia n. 267779/2019, ha affermato “che è inappropriato spacciare per miglioramento il passaggio al regime della trimestralizzazione per tutti gli interessi, giacché il raffronto deve essere effettuato tra l’assenza di capitalizzazione degli interessi debitori, quale conseguenza della nullità della clausola e la loro capitalizzazione trimestrale a seguito dell’intervento del CICR 2000”

Sul punto specifico, anche codesta Corte, con orientamento consolidato formulato per la prima volta con sentenza 420/16, ha affermato che: “…l’art. 7 della delibera CICR 9.2.00, che ha dettato una regolamentazione dei rapporti bancari precedentemente costituiti, così dispone:

1) Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30.6.00 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1 luglio.
2) Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30.6.00, possono provvedere all’adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile, e, comunque, entro il 30.12.00.
3) Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela.

Orbene, escluso che per stabilire la natura migliorativa o meno delle condizioni del contratto si possa far riferimento alla pregressa situazione fattuale (il calcolo dell’anatocismo trimestrale), è evidente che il termine di raffronto è il regolamento contrattuale nei limiti della rispondenza alla legge, vale a dire il difetto di ogni anatocismo.
di un siffatto sistema di calcolo ed il rapporto negativo tra gli interessi passivi e quelli attivi) e dunque richiede l’intervento di un accordo tra le parti. che, nel caso, non risulta”.

A riguardo occorre inoltre rilevare che da ultimo è espressamente intervenuta anche la Corte di Cassazione con sentenza n. 17634 del 21/6/2021, statuendo che “nei contratti di conto corrente bancario stipulati in data anteriore all’entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000 -come nel caso di specie, ndr-, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 25 del d.lgs. n. 342 del 1999, pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 425 del 2000, pur non avendo interessato il secondo comma di tale disposizione, che costituisce il fondamento del potere esercitato dal CICR mediante l’adozione della predetta delibera, ha inciso indirettamente sulla disciplina transitoria dettata dall’art. 7 di tale provvedimento, in quanto, avendo fatto venir meno, per il passato, la sanatoria delle clausole che prevedevano la capitalizzazione degl’interessi, ha impedito di assumerle come termine di comparazione ai fini della valutazione dell’eventuale peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, in tal modo escludendo la possibilità di provvedere all’adeguamento delle predette clausole mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, come consentito dal comma secondo dell’art. 7, e rendendo invece necessaria una nuova pattuizione (cfr. Cass., Sez. I, 19/05/2020, n. 9140; 21/10/2019, nn. 26769 e 26779).

A sostegno di tali conclusioni, si è osservato che a) la pronuncia di incostituzionalità ha investito il solo tema della validazione delle clausole anatocistiche fino al momento in cui è divenuta operante la delibera 9 febbraio 2000, ma non ha direttamente inciso sull’attribuzione al CICR del potere di regolamentare il transito dei vecchi contratti nel nuovo regime, b) la portata retroattiva della pronuncia d’incostituzionalità impone tuttavia di considerare nulle le clausole anatocistiche inserite in contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della delibera CICR, c) la circostanza che la delibera sia stata adottata anteriormente alla pronuncia d’incostituzionalità non comporta che, ai fini del giudizio di comparazione previsto dal comma secondo dell’art. 7 della delibera, possa conferirsi rilievo all’applicazione di fatto delle oggetto le condizioni contrattuali nel loro complesso, ma solo la clausola anatocistica, da valutarsi in relazione al principio della pari periodicità nel conteggio degl’interessi, stabilito dall’art. 2, comma secondo, della delibera, e) in mancanza di una clausola valida che preveda, per almeno una delle due tipologie di interesse (attivo o passivo) una capitalizzazione da attuarsi con una data frequenza, è impossibile stabilire se il predetto criterio sia favorevole o sfavorevole per il correntista. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che l’invio al correntista degli estratti conto recanti l’indicazione dello adeguamento alla delibera CICR, pubblicato anche sulla Gazzetta Ufficiale, non risultasse sufficiente ad assicurare, neppure per il periodo successivo alla entrata in vigore del provvedimento, la validità della clausola che prevedeva la capitalizzazione degl’interessi, a tal fine occorrendo invece un’apposita convenzione scritta, al pari di quella richiesta per la stipulazione dei contratti soggetti alla nuova disciplina. In assenza di tale convenzione, deve escludersi l’applicabilità dell’art. 120 del d.lgs. n. 385 del 1993, come modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 342 del 1999, il quale non recava una compiuta regolamentazione delle clausole anatocistiche, ma ne demandava la fissazione al CICR, limitandosi a stabilire, quale principio ispiratore della disciplina da adottare, quello della pari periodicità nel conteggio degl’interessi debitori e creditori.

Non può quindi operare, in riferimento a tale disposizione, il meccanismo di sostituzione automatica previsto dall’art. 1339 cod. civ., il quale non può trovare applicazione neppure in relazione alla disciplina introdotta dalla delibera CICR:

l’impossibilità di procedere al giudizio comparativo richiesto dall’art. 7, comma secondo, di quest’ultima, se per un verso impediva il ricorso alle modalità semplificate contemplate da tale disposizione, per altro verso non esonerava la banca dall’obbligo, imposto dal comma primo, di provvedere all’adeguamento delle condizioni contrattuali nelle forme previste dall’art. 6 della medesima delibera, la cui inosservanza comportava l’inefficacia della clausola anatocistica”.

Quanto agli ulteriori contratti, tutti conclusi in data successiva alla delibera CICR del 5/2/2000, gli appellanti lamentano il mancato accertamento da parte del primo giudice del requisito di reciprocità necessario per l’affermazione della validità della clausola.

Premesso che l’eccezione in parola avrebbe dovuto essere svolta anche qualificando le garanzie prestate come contratti autonomi di garanzia (in tal senso cfr. da ultimo Cass. ord. n. 9071 del 31/03/2023), il motivo appare meritevole di accoglimento nei limiti di cui in prosieguo.

I conti correnti n. , n. e n. come anticipato sono stati tutti sottoscritti in data successiva alla pubblicazione della delibera CICR del 9/2/2000 e recano tutti la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi con identica periodicità:
la clausola risulta quindi puntualmente convenuta per iscritto in conformità a quanto previsto dall’art. 117 TUB.

La stessa risulta, inoltre, specificamente approvata con apposita sottoscrizione in calce a ciascun contratto mediante richiamo non solo numerico, ma anche del suo contenuto.

Deve quindi esserne affermata la validità in applicazione del consolidato principio di diritto per cui “Nel caso di condizioni generali di contratto, l’obbligo della specifica approvazione per iscritto a norma dell’art. 1341 c.c. della clausola vessatoria è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che, in quest’ultima ipotesi, non sia accompagnato da un’indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto” (cfr. da ultimo Cass. ord. n. 4126 del 14/02/2024). In relazione ai contratti n. 10052 e n. 10061 dalle condizioni economiche precisate nel prospetto di sintesi è dato poi apprezzare che, sia pur in misura contenuta, la percentuale del TAE degli interessi creditori è superiore rispetto a quella del TAN (TAN 0,1250% e TAE 0,1251% per entrambi i rapporti).

Risultano quindi per tabulas rispettati gli artt. 2, comma 2, e 6 della delibera CICR del 9/2/2000.

Con ’anatocismo non richiede affatto che i tassi a favore della banca siano identici a favore del correntista, essendo i superiori tassi di interesse a favore della banca il compenso per la sua attività né da nessuna norma, sentenza o dottrina è ricavabile la tesi sostenuta da parte appellante” e dall’altro, dopo aver chiosato che “la previsione di un tasso attivo minimo di 0,01 % nominale annuo non rende il tasso equivalente a zero.

È infatti ovvio, nella sua evidenza matematica, che 0,01 non è zero” ha aggiunto che “sebbene nella misura minima del tasso, l’effetto accrescitivo dell’anatocismo non è escluso in casi simili, perché l’anatocismo in favore del cliente non si annulla affatto in semplice dipendenza della minor rilevanza (e della fissità) del tasso percentuale.

L’accrescimento è conseguenza diretta della capitalizzazione dell’interesse, qualunque sia il tasso;
e la circostanza che il tasso a credito non ottenga nel tempo alcun incremento non ha incidenza sul fenomeno anatocistico in sé considerato.

È quindi errato il profilo sottinteso alla censura, in quanto il concetto di progressivo accrescimento resta comunque correlato alla capitalizzazione;
mentre, dal lato passivo, l’asimmetria non discende dall’anatocismo ma dalla variazione del tasso debitore, che però dipende dall’incremento dell’indebitamento”.

Con riferimento a detti conti correnti deve quindi essere affermata la validità della clausola di previsione della capitalizzazione trimestrale degli interessi fino all’entrata in vigore della legge di stabilità 2014 (Legge n. 147 del 27 dicembre 2013, comma 629), che ha modificato l’art. 120, comma 2, del D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo Unico Bancario), introducendo il nuovo divieto dell’anatocismo bancario.

Il prospetto di sintesi di cui al contratto di c/c n. in relazione agli interessi attivi riporta invece la percentuale del TAN e del TAE nella pari misura dello 0,01000%.

La clausola deve pertanto essere dichiarata nulla in applicazione del principio di diritto affermato dalla Suprema Corte con ordinanza n. 4321 del 10/2/2022, per cui “la previsione di un tasso di interesse effettivo corrispondente a quello nominale equivale alla mancata indicazione del tasso annuo calcolato per effetto della Conqualche misura numericamente apprezzabile), il contratto di conto corrente mancante della detta indicazione non soddisferebbe una delle condizioni cui è subordinata, secondo quanto si è detto, la pattuizione dell’anatocismo”. Quello che rileva in altre parole al fine di escludere la validità della clausola in questione non è l’eventuale ridotta misura degli interessi creditori (ritenuta dalla Corte non concludente), bensì a coincidenza dei due tassi.

E ciò perché “o la capitalizzazione è solo figurativa, nel senso che la misura oltremodo esigua del tasso di interesse creditore non genera, di fatto, alcun effetto anatocistico:
e allora la mancata indicazione dell’incremento del tasso discende dal fatto che, in concreto, gli interessi creditori non si capitalizzano affatto e, a fortiori, non si capitalizzano con la medesima periodicità degli interessi passivi, secondo quanto invece esige l’art. 3 della delibera;
oppure la contabilizzazione degli interessi sugli interessi genera un qualche reale incremento:
e in questo caso occorre indicare il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione, giusta l’art. 6 della delibera stessa”.

La dichiarata nullità della clausola determina la non applicabilità al contratto in esame della capitalizzazione trimestrale sia degli interessi debitori che di quelli creditori, stante la natura dell’accertamento e il rapporto di reciprocità posto alla sua base.

Inesistenza dei contratti di affidamento/fido relativi a tutti i contratti di conto corrente Con il settimo motivo di gravame gli appellanti lamentano l’omessa pronuncia in ordine all’eccezione di inesistenza di contratti di apertura di credito riferibili ai contrati di conto corrente azionati, con conseguente necessità di ricalcolare gli stessi con applicazione dell’art. 117 TUB.

In punto di diritto sono gli stessi appellanti a richiamare i principi di diritto in più occasioni (cfr. da ultimo Cass. sent.
27836 del 22/11/2017; ord. n. 926 del 13/01/2022) affermati dalla Suprema Corte, per cui “in materia di disciplina della forma dei contratti bancari, l’art. 3, comma 3, della legge n. 154 del 1992 e, successivamente, l’art. 117, comma 2, del t.u.l.b.
, nella parte in cui dispongono che -da questo conferito alla Banca d’Italia – di emanare disposizioni che integrano la legge e, nei limiti dalla stessa consentiti, possono derogarvi e che, perciò, costituiscono norme di rango secondario, la cui legittimità non è esclusa dalla mancata indicazione delle motivate ragioni tecniche della deroga, dovendo l’onere della motivazione ritenersi adempiuto mediante l’indicazione del tipo di contratto e la precisazione che esso deve riferirsi ad operazioni e servizi già individuati e disciplinati in contratti stipulati per iscritto. (Nella specie, la SRAGIONE_SOCIALE. ha ritenuto legittime le disposizioni (…. ) in forza delle quali il contratto di apertura di credito, qualora risulti già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, non deve, a sua volta, essere stipulato per iscritto, a pena di nullità) (Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 14470 del 2005)”.

Ha tuttavia precisato che “tale principio deve essere correttamente inteso perché, com’è stato precisato, anche successivamente da questa stessa sezione, «l’intento di agevolare “particolari modalità della contrattazione” non (può) comportare – in una equilibrata visione degli interessi in campo (…) – una “radicale” soppressione della forma scritta, ma solo una relativa attenuazione della stessa che, in particolare, salvaguardi (.. ) la necessaria indicazione delle condizioni economiche del contratto ospitato» (Cass. Sez. 1, sent.
n. 9068 del 2017; e si veda altresì Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 7763 del 2017…)”.

L’attenuazione della necessaria forma scritta richiede pertanto che il contratto di conto corrente già preveda esplicitamente e disciplini analiticamente il successivo contratto di apertura di credito (cfr. anche Cass. sent. n. 7763 del 27/03/2017).

Nel caso di specie i contratti dedotti in giudizio (ad eccezione di quello recante il n. 267) prevedono la sola disciplina giuridica applicabile ai contratti di apertura di credito, ma non contengono alcun regolamento economico neppure meramente ipotetico relativo a contratti di apertura di credito e neppure “l’indicazione di condizioni quadro, generali ed astratte, che la s’impegnava a seguire (ed il cliente a osservare) in caso di stipula di un’apertura di credito successiva con lo stesso sottoscrittore del conto corrente bancario” (cfr. Cass. sent. 27836/17 cit).

posto, questa Corte non può esimersi dal rilevare da un lato che non è stata azionata dalla nessuna somma derivante dalla concessione di fidi e, dall’altro, che l’accertata assenza di contratti apertura di credito in ogni caso non può incidere sulle condizioni economiche validamente pattuite nei contratti di conto corrente e a questi sicuramente riferibili.

Né la circostanza che il CTU nel proprio elaborato abbia affermato che “l’ammontare dell’accordato coincide con la base imponibile della CMS oppure con il massimo saldo negativo del trimestre” appare rilevate ai fini del presente giudizio, tenuto conto del fatto che nella specie risultano puntualmente applicati i tassi espressamente pattuiti.

CMS e clausole sostitutive Con i motivi ottavo e quinto gli appellanti lamentano l’omessa pronuncia del primo giudice in ordine alla nullità delle clausole di previsione della Cms, per mancanza di causa e per indeterminatezza delle modalità di calcolo, e la mancanza di una pattuizione scritta in ordine alle commissioni sostitutive.

Quanto alle CMS questa Corte rileva che ormai costituisce principio di diritto consolidato quello per cui detta commissione costituisce la remunerazione dell’istituto di credito per il costo sostenuto per la messa a disposizione di una certa somma in favore del correntista a prescindere dalla concreta utilizzazione, con conseguente indisponibilità per la banca della somma concessa (cfr. Cass. sent.
n. 870 del 18/1/2006).

Risulta tuttavia altresì consolidato il principio per cui la relativa previsione negoziale è tuttavia valida ex artt. 1346 e 1418 c.c. solo allorché sia determinato l’ammontare di quanto dovuto per il relativo servizio mediante l’indicazione non solo del valore percentuale da applicare, bensì anche la previsione del criterio di calcolo, rendendo cioè determinabile il concreto criterio di computo della commissione e lo specifico impatto sui saldi di chiusura periodica del conto corrente bancario.

Ed infatti, con la generica dizione di commissione di massimo scoperto, le banche, prima delle modifiche normative del 2009 (art. 2 bis DL n. 185/2008 conv. in L. n. 2/2009 e DL n.78/2009 conv. in L. n. 102/2009) e del 2012 (DL n. 201/2011 conv. in L. n. 214/2011, DL n. 1/2012 che spaziavano dal pagamento di una somma percentuale calcolata sul fido accordato e non utilizzato (commissione mancato utilizzo), al pagamento di una somma percentuale sull’ammontare massimo del fido utilizzato (commissione massimo scoperto), alla combinazione di entrambi i modelli, parametrando l’utilizzo od il mancato utilizzo talvolta ad una durata minima e talvolta no, e ciò con riferimento talvolta anche ai fidi di fatto, cd. scoperture o sconfinamenti di conto corrente.

In altre, parole la CMS non era riconducibile ad un’unica fattispecie giuridica, e trattandosi di un autonomo elemento retributivo non regolato da specifiche norme di legge, era necessaria non solo una espressa pattuizione scritta, ma ai sensi dell’art. 1346 c.c. come ogni obbligazione contrattuale era necessario che la stessa fosse determinata o quantomeno determinabile.

In tal senso di è espressamente pronunciata la Suprema Corte con le sentenze n. 870 del 18/1/2006 e n. 11772 del 6/8/2002.

Per il periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 2 bis della legge 28 gennaio 2009, n. 2, la commissione di massimo scoperto va riconosciuta soltanto in presenza delle condizioni indicate dalla norma, dovendo altrimenti essere considerata nulla e disapplicata (art. 2 bis:

1. Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido).
Inoltre, il quarto comma dell’art. 117 TUB impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere richiesto dalla banca, disposizione questa sicuramente riferibile anche alla CMS.

Nel caso di specie le condizioni pattuite in tutti i contratti di conto corrente dedotti in giudizio si limitano a prevedere la percentuale della commissione da applicare e la sua periodicità, ma nulla invece dicono sul criterio di calcolo da applicare in concreto e cioè se essa vada calcolata sul picco massimo di utilizzo del fido nell’arco del trimestre (c.d. criterio assoluto) ovvero sull’importo massimo di utilizzo del fido di almeno dieci giorni, anche non consecutivi (c.d. criterio relativo) criterio misto). Non è precisato neppure se la base di calcolo tenga conto dello sconfinamento calcolato sul complesso dei prelievi effettuati dal correntista oppure no.

E’ evidente come ciascuno dei diversi criteri comporta la quantificazione della commissione in misura diversa in contrasto con il principio di determinatezza e specificità che sola consente al correntista di conoscere quando e come sorgerà l’obbligo di dover corrispondere la suddetta commissione alla banca.

Le conclusioni raggiunte trovano ampia conferma nella giurisprudenza di legittimità che ha espressamente affermato che “In tema di conto corrente bancario, è nulla per indeterminatezza dell’oggetto la clausola negoziale che prevede la commissione di massimo scoperto indicandone semplicemente la misura percentuale, senza contenere alcun riferimento al valore sul quale tale percentuale deve essere calcolata” (cfr. Cass. ord. n. 19825 del 20/06/2022).

Le clausole de quibus devono pertanto essere dichiarate nulle per indeterminatezza.

Quanto alle commissioni sostitutive, in punto di diritto si rileva che l’art. 2 bis d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in l. 28 gennaio 2009, n. 229, al fine di disciplinare la materia evitando la proliferazione di commissioni diverse aventi la stessa funzione della CMS e al fine di regolamentare quest’ultima, ha previsto che “Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni ovvero a fronte di utilizzi in assenza di fido.

Sono altresì nulle le clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di conto corrente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedono una remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, salvo che il corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura onnicomprensiva e proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente, e l’indicazione dell’effettivo utilizzo avvenuto nello stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente in ogni momento. L’ammontare del corrispettivo omnicomprensivo di cui al periodo precedente non può comunque superare lo 0,5 per cento, per trimestre, dell’importo dell’affidamento, a pena di nullità del patto di remunerazione.

Il Ministro dell’economia e delle finanze assicura, con propri provvedimenti, la vigilanza sull’osservanza delle prescrizioni del presente articolo”.

Tale disposizione è stata abrogata dall’art. 27, comma 4, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, ma la relativa disciplina risulta trasfusa nell’art. 117 bis del d.lgs. 385/91, inserito dall’articolo 6-bis, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito con Legge n. 214 del 22 dicembre 2011, entrata in vigore il 28 dicembre dello stesso anno), che a sua volta stabilisce:

“I contratti di apertura di credito possono prevedere, quali unici oneri a carico del cliente, una commissione omnicomprensiva, calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente… L’ammontare della commissione non può superare lo 0,50%, per trimestre, della somma messa a disposizione del cliente”.

All’esito dell’entrata in vigore delle ricordate disposizioni non risulta provata dalla appellata società cessionaria la conclusione di un accordo che preveda l’applicazione delle ricordate commissioni sostitutive.

Deve a questo punto essere esaminata la questione relativa alla verifica della sussistenza o meno del potere della Banca di introdurre ex novo mediante l’esercizio dello ius variandi ex art. 118 TUB clausole di previsione di oneri economici non contenuti in contratto.

A riguardo questa Corte, pur consapevole del dibattito ancora aperto nella giurisprudenza di merito, ritiene di aderire all’orientamento che ritiene che lo ius variandi possa essere esercitato al solo al fine di modificare clausole e condizioni, sia di carattere economico che di natura normativa, già presenti la prerogativa in esame, ma solo limitatamente ai tassi, ai prezzi e alle altre condizioni “previste dal contratto”, dall’altro la considerazione che il potere di modifica unilaterale del contratto riconosciuto all’intermediario dalla citata disposizione, in quanto eccezione alla regola generale della immodificabilità del contratto senza il consenso di entrambe le parti, non può spingersi sino al punto di introdurre clausole e condizioni del tutto nuove, tali da incidere in maniera sostanziale sull’equilibrio contrattuale, modificandone addirittura parzialmente la natura. L’introduzione di un corrispettivo prima non espressamente previsto in contratto implicherebbe infatti una alterazione del rapporto, giacché la componente del servizio rappresentata già dalla messa a disposizione verrebbe a trasformarsi da sostanzialmente ‘gratuita’ in dichiaratamente ‘onerosa’.

Tali conclusioni sono state affermate in più occasioni dalle decisioni dell’Arbitro Bancario e Finanziario (cfr. per tutte , n. 249/2010; n. 4529/2015; n. 3724/2015; n. 2670/2018).

In particolare il Collegio di coordinamento, con decisione n. 26498 del 12 dicembre 2018, dopo aver affermato che “lo jus variandi, ai sensi dell’art. 118 T.U.B., rappresenta un’eccezione alla regola (generale) dell’immodificabilità del contratto in assenza del consenso di tutte le parti, soprattutto se configurato come un diritto potestativo, notoriamente eccezione legale al principio generale di intangibilità della sfera giuridica altrui”, ha sottolineato che anche la Circolare del Ministero dello Sviluppo Economico del 21/2/2007, n. 5574, aveva chiarito che “le “modifiche” disciplinate dal nuovo art. 118 TUB, riguardando soltanto le fattispecie di variazioni previste dal contratto, non possono comportare l’introduzione di clausole ex novo e che parimenti la Banca d’Italia nel provvedimento del 29/07/2009 (Trasparenza delle operazioni e dei servizi degli intermediari finanziari) aveva ribadito che “Le condizioni e i limiti alla facoltà per l’intermediario di modificare unilateralmente le condizioni del contratto sono disciplinate dall’art. 118 del T.U.. Secondo il Ministero dello sviluppo economico le “modifiche” di cui all’art. 118 del T.U. riguardano soltanto le fattispecie di variazioni previste dal contratto, non possono comportare l’introduzione di nuove clausole.

…” (così la Sezione IV, , una controprestazione o qualsivoglia altro termine o condizione (economica o normativa) nel contratto, che non sia già previsto nell’assetto originario determinato dalle parti.

Infatti, tali variazioni si traducono nell’aggiunta di nuovi costi, in quanto non si pongono come mera modifica di oneri già previsti nel contratto e realizzano, così, un’alterazione del sinallagma negoziale in senso sfavorevole al cliente.

Dal complesso normativo e dal ricordato orientamento costante dell’ABF si ricava che lo ius variandi è finalizzato a garantire la permanenza dell’equilibrio sinallagmatico, per cui, devono considerarsi inammissibili le variazioni che non presentano correlazione tra le tipologie di contratti e le tariffe interessati dalle variazioni, da un lato, e l’incremento dei costi posto a base della modifica.

Nello stesso senso, il Collegio di coordinamento, con decisione n. 1889/2016, ha rilevato che la finalità dello ius variandi è quella di “conservare l’equilibrio (sinallagmatico) tra le singole prestazioni contrattuali, passando attraverso il mantenimento dell’equilibrio sinallagmatico dell’intero complesso delle prestazioni contrattuali, tipologicamente simili, effettuate dall’imprenditore nei confronti di un numero indefinito di controparti” (cfr. ad es., Collegio di Roma, decisione n. 2202 del 23.04.2013)”. Deve pertanto essere affermata la non debenza in relazione a tutti i contratti dedotti in giudizio delle commissioni sostitutive in esame.

Liberazione dalle garanzie per violazione da parte della di principi in materia di merito creditizio Con il decimo motivo gli appellanti lamentano l’erroneità del capo di sentenza con il quale il Tribunale ha rigettato l’eccezione di liberazione dalla garanzia ex art. 1956 c.c.
per avere la Banca concesso ulteriori crediti, che avevano aggravato la posizione di essi garanti, per non avere considerato la violazione da parte dell’istituto di credito delle norme di correttezza e buona fede in materia di merito creditizio.
principale.

La circostanza risulta in ogni caso provata dal doc. 14 prodotto dalla sede di costituzione nel giudizio di primo grado.

A fronte del rilievo che precede deve essere qui confermata la decisione del primo giudice che ha ritenuto pretestuosa la doglianza degli appellanti di non essere stati informati dell’eventuale aggravamento della posizione della debitrice principale, in violazione del principio di correttezza e buona fede posto a carico della dagli artt. 1175 e 1375 c.c..

Appare infatti paradossale che la banca avesse l’obbligo di informali dell’andamento della gestione delle attività sociali da loro stessi compiuta.

Ai fini della non applicabilità al caso di specie della liberatoria prevista dall’art. 1956 c.c. in ragione della qualifica formale rivestita dagli appellanti è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza sul punto a tenore della quale “Nella fideiussione per obbligazione futura, l’onere del creditore, previsto dall’art. 1956 c.c., di richiedere l’autorizzazione del fideiussore prima di far credito al terzo, le cui condizioni patrimoniali siano peggiorate dopo la stipulazione del contratto di garanzia, assolve alla finalità di consentire al fideiussore di sottrarsi, negando l’autorizzazione, all’adempimento di un’obbligazione divenuta, senza sua colpa, più gravosa; tale onere non sussiste allorché nella stessa persona coesistano le qualità di fideiussore e di legale rappresentante della società debitrice principale, giacché, in tale ipotesi, la richiesta di credito da parte della persona obbligatasi a garantirlo comporta di per sé la preventiva autorizzazione del fideiussore alla concessione del credito” (cfr. Cass. ord. n. 7444 del 23/03/2017; n. 31227 del 29/11/2019).
Parimenti condivisibile è l’ulteriore ragione della motivazione fondata sul rilievo che a norma dell’art. 5 dei contratti di fideiussione gli appellanti avevano assunto l’obbligo di informarsi sull’andamento della società.

In relazione all’ulteriore profilo dell’eccezione in esame, relativo alla violazione da parte della , con dolo o colpa, ad un’impresa “che si palesi in una situazione di difficoltà economico- finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi”, e precisa che, integrando detta condotta “un illecito del soggetto finanziatore, per essere questi venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione” la stessa obbliga “il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa” (cfr. per tutte Cass. ord. n. 18610 del 30/06/2021).

La medesima Corte ha precisato altresì che detta responsabilità sussiste “nei confronti dei terzi che, in ragione di ciò, abbiano confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa, allorché sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa” (cfr. da ultimo Cass. n. 11695 del 14/05/2018).

In punto di fatto, questa Corte ritiene che nel caso di specie le allegazioni svolte dagli appellanti a sostegno dell’eccezione in esame sono assolutamente generiche e del tutto sfornite di supporto probatorio.

Lamentano infatti che nell’agosto del 2011 la ha concesso un affidamento di € 400.000,00 senza tuttavia fornirne alcuna prova (ed al contrario nel corso del giudizio ha affermato l’inesistenza di contratti di apertura di credito) neanche in relazione al fatto che a quella data la debitrice principale versasse in un stato di crisi di liquidità (gli indici di bilancio desumibili dai bilanci 2012-2013 depositati dalla cessionaria sub doc. 13 sono tutti positivi tranne quello relativo alla redditività) o comunque fosse priva di “concrete prospettive di superamento della crisi”. Assolutamente indeterminata e addirittura priva di riferimenti temporali, oltre che sfornita di elementi anche indiziari di prova, è poi l’affermazione che per cui “nonostante le notevoli esposizioni bancarie” della debitrice principale anche con altri istituti di credito “venivano concesse aperture di credito e fidi con sconto di titoli e fatture SBF”.

Anche sotto tale profilo il motivo di impugnazione appare quindi infondato.

Usura , con il quinto motivo di gravame gli appellanti reiterano l’eccezione di usurarietà del tasso di interesse pattuito con riferimento ai conti correnti n. e n. , motivato mediante richiamo alle conclusioni rese dalla propria CTP dr.

Orbene, il CTU nominato in primo grado, facendo applicazione delle istruzioni della Banca d’Italia tempo per tempo emanate ed applicabili a ciascun contratto ratione temporis, ha accertato che i tassi previsti nei predetti conti non hanno mai superato il tasso soglia per tutta la durata dei relativi rapporti.

La CTP degli odierni appellanti ha contestato le conclusioni rassegnate dal CTU, lamentando la mancata preventiva corretta identificazione della categoria di appartenenza.

Sul punto il Ctu ha risposto precisando di avere inquadrato i rapporti de quibus nella categoria “apertura di credito in conto corrente” utilizzando le relative soglie ai fini della verifica dell’usurarietà, risultando detta scelta “coerente con la tipologia di conto corrente ordinario indicato dalla stessa dott.ssaNOMECOGNOMEa pag. 3 della propria perizia di parte depositata in atti (doc. 8 allegato all’atto di citazione in opposizione)”.

In questa sede gli appellanti affermano che per entrambi i conti in oggetto avrebbe dovuto essere applicato il tasso soglia previsto per “i conti anticipi” (che prevedevano rispettivamente per il primo ed il secondo trimestre un tasso soglia “inferiore al 10%” e pari al 10,32%) risultando di fatto detti conti utilizzati come conti anticipi.

I rilievi svolti tuttavia non hanno trovato alcun riscontro nei documenti acquisiti al giudizio né risultano a tal fine evidenziate dagli appellanti o dalla loro consulente circostanze anche indiziarie utili per pervenire al richiesto inquadramento.

Le conclusioni rassegnate dal CTU nominato in primo grado devono pertanto essere qui confermate, con conseguente rigetto dell’eccezione di usurarietà.

Quanto al conto corrente n. , in relazione al quale il CTU ha rilevato una ipotesi di usura sopravvenuta al 30/9/2013, questa Corte in conformità al principio di diritto per cui “…allorché il Conrapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto” (cfr. per tutte Cass. Sez. Un. sent. n. 24675 del 19/10/2017), deve invece dichiararne l’irrilevanza, con conseguente comutazione anche per detto periodo degli interessi maturati.

Le conclusioni fin qui raggiunte impongono la rimessione della causa sul ruolo con separata ordinanza per accertare i saldi dei rapporti di conto corrente di cui si discute in conformità ai principi di diritto affermati.
Spese al definitivo.

La Corte d’Appello di Ancona, non definitivamente pronunciando sull’appello proposto avverso la sentenza n. 901 del 1-9/12/2021 pronunciata dal Tribunale di Pesaro, così decide nel contraddittorio delle parti:
in parziale accoglimento dell’appello e in modifica della sentenza impugnata, qualifica le garanzie prestate dagli appellanti in data 20/5/2012 come fideiussioni omnibus;
rigetta le domande di liberazione dalle predette garanzie ex artt. 1956 e 1957 c.c. avanzate dagli appellanti;
dichiara le nullità di cui in parte motiva e di conseguenza revoca il DI n. 168/2017 emesso nei confronti degli appellanti ed in favore del cedente Credito Valtellinese S.p.a. e dispone con separata ordinanza la causa sul ruolo per accertare il saldo finale dei contratti dedotti in giudizio.
Il Presidente dr. NOME COGNOME Il Consigliere Est.
NOME
NOME COGNOME

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