Con atto di citazione ritualmente notificato, YYY nella dichiarata qualità di socio e di presidente del consiglio di amministrazione conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Pistoia, la XXX s.p.a. chiedendo: – l’annullamento della delibera con la quale, in data 4/2/2012, l’assemblea dei soci della società convenuta, in violazione degli articoli 2380, 2380 bis, 2381 e 2384 c.c. e degli articoli 11, 16, 21, 22 e 28 dello statuto e con l’abuso della maggioranza ai suoi danni, aveva dato mandato ad una commissione, composta da tre amministratori e tre soci, facenti parte questi ultimi di un patto di sindacato, di ricercare l’accordo per l’ingresso di nuovi azionisti da sottoporre all’approvazione degli organi competenti; – la condanna della società convenuta al risarcimento del pregiudizio non patrimoniale arrecato all’attore.
Il Tribunale di Pistoia, con sentenza del 16/6/2015, rigettava le domande proposte da YYY.
Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto che: a) era fondata l’eccezione, sollevata dalla convenuta, di carenza, in capo all’attore, della legittimazione attiva, rilevando, per un verso, che il singolo amministratore non può impugnare la delibera adottata dall’assemblea della società per azioni poiché il relativo potere spetta, a norma dell’articolo 2377 c.c., all’organo amministrativo nella sua collegialità, e, per altro verso, che la delibera non aveva leso in via diretta ed immediata alcun diritto del presidente del consiglio di amministrazione.
Il Tribunale osserva che la commissione, infatti, non era stata delegata ad assumere alcuna decisione vincolante per la società ma solo a svolgere un compito di verifica preliminare circa la possibilità di ingresso nel capitale sociale della stessa di un nuovo socio per cui, se la delibera avesse effettivamente leso le prerogative del consiglio di amministrazione avendo delegato i relativi poteri ad un organo illegittimamente costituito, solo il consiglio stesso e non il singolo componente avrebbe potuto proporre la relativa impugnazione.
YYY, inoltre, pur avendo allegato di essere socio della società convenuta con una partecipazione al capitale sociale consistente in 500 azioni, non aveva, tuttavia, dedotto di avere una partecipazione al capitale sociale superiore a quella richiesta dall’articolo 2377 c.c. e di avere, quindi, titolo, quale socio, alla impugnazione della delibera.
Era, infine, infondato l’assunto dell’attore di aver subito un danno dall’impugnata delibera per non aver potuto esercitare i poteri di presidente del consiglio di amministrazione e per essere stato di fatto esautorato dalla carica: – la delibera, infatti, ha osservato il Tribunale, non ha revocato il presidente del consiglio di amministrazione dall’incarico né lo ha di fatto esautorato dall’incarico.
L’attore, in effetti, ha continuato ad esercitare i poteri connessi alla carica tant’è che, pur dopo la delibera impugnata, ha convocato il consiglio di amministrazione.
La mancata partecipazione alle sedute del consiglio di amministrazione costituisce, per contro, il frutto di una libera scelta dell’attore non dipendente dalla delibera impugnata e ciò induce a ritenere l’insussistenza sia dell’invocato danno patrimoniale da lucro cessante (in relazione ai compensi per le riunioni consiliari e assembleari alle quali avrebbe potuto presenziare fino alla scadenza del mandato), sia del dedotto danno non patrimoniale (in relazione alla lesione della reputazione e dell’immagine professionale), posto che, in realtà, l’assemblea non aveva emarginato o privato l’attore dei suoi poteri, avendo “semplicemente… deciso, per la soluzione della situazione di crisi della XXX Spa, di perseguire una strada (quella indicata nella impugnata delibera) diversa da quella sostenuta dall’attore e non accolta dall’assemblea”.
YYY, con atto di citazione notificato il 15/1/2016, ha proposto appello avverso la sentenza del tribunale deducendo, tra l’altro, che; – l’assemblea, con la delibera impugnata, aveva illecitamente attribuito a sé stessa la competenza a deliberare su materie riservate per legge al consiglio di amministrazione, surrogando quest’ultimo con un organo non previsto né dalla legge, né dallo statuto; – nel sistema normativo previsto dagli articoli 2380 bis e 2364 n. 5 c.c., l’eventuale pronuncia dell’assemblea su materia estranea alle sue competenze legali, in quanto riservata all’organo gestorio, è sanzionata, a norma dell’articolo 2379 c.c., con la nullità, avendo la stessa un oggetto giuridicamente impossibile o illecito.
Tale disposizione non pone preclusioni all’impugnazione delle delibere nulla da parte di chiunque vi abbia interesse, a partire da ciascuno degli amministratori singolarmente considerati.
La Corte d’Appello ha rigettato l’appello ed ha, per l’effetto, confermato integralmente la sentenza appellata.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che la domanda di nullità della delibera impugnata, proposta dall’attore per la prima volta in appello, doveva essere considerata, a norma dell’articolo 345 c.p.c., come nuova e, come tale, inammissibile, non potendo, per contro, invocarsi la rilevabilità d’ufficio della nullità sul rilievo che tale principio dev’essere coordinato con quello del rispetto dei limiti della domanda previsto dall’articolo 112 c.p.c. e che, di conseguenza, la pronuncia d’ufficio della nullità può essere in concreto giustificata solo nel caso, non ricorrente nella specie, in cui la pretesa dell’attore presupponga la validità e l’efficacia dell’atto che invece il giudice ritiene nullo e può dichiarare d’ufficio come tale anche in appello a norma dell’articolo 345 c.p.c. trattandosi di eccezione in senso lato.
In ogni caso, ha aggiunto la Corte, anche a voler opinare diversamente, “non si vede come potrebbe essere superato il limite triennale, pacificamente trascorso al momento della proposizione dell’appello, espressamente dettato, per il rilievo officioso della nullità” dall’articolo 2379, comma 2, c.c.: “tutto ciò a prescindere, poi, dal merito dell’asserita nullità di cui trattasi e dalla ricorrenza dell’effettiva legittimazione dell’attuale appellante a richiedere la pronuncia di tale, asserita nullità”.
La Corte, quindi, ha esaminato le censure relative alla ritenuta carenza di legittimazione attiva dell’attore a proporre la domanda di annullamento della delibera impugnata: e le ha ritenute infondate, sul rilievo che: – “i fatti esposti dall’attore potevano sorreggere l’ipotesi di una lesione della posizione e del ruolo del consiglio di amministrazione ma non, direttamente, del presidente di quest’ultimo, la posizione e il ruolo del quale potevano, in astratto, ritenersi lesi solo quale effetto della ipotetica lesione riguardante l’intero organo collegiale” per cui “la legittimazione all’azione di annullamento sarebbe… spettata, in ipotesi, al consiglio di amministrazione, quale organo collegiale, e non all’attore singolarmente”; – il Tribunale aveva correttamente rilevato d’ufficio il difetto di legittimazione dell’attore quale socio non avendo lo stesso dimostrato o dedotto di avere una partecipazione superiore a quella richiesta dall’articolo 2377 c.c. posto che, come risulta dall’articolo 2377, comma 2, c.c., il giudice deve accertare d’ufficio il possesso da parte del socio o dei soci opponenti del numero di azioni previste dall’articolo 2377, comma 3, c.c..
La Corte, peraltro, al di là del difetto di legittimazione attiva dell’attore, ha ritenuto “ad abundantiam… l’infondatezza”, nel merito, “dell’appello”, sul rilievo che: – l’argomento relativo a un “possibile aumento di capitale sociale riservato a nuovi soci”, “che era in discussione quando l’assemblea emise la delibera impugnata”, non è relativo alla gestione dell’impresa, trattandosi, al contrario, di “materia tipica e propria dell’assemblea” e “non implica una lesione delle prerogative dell’organo amministrativo, nemmeno se riguardato nel suo complesso”; – l’assemblea, del resto, non aveva creato un nuovo e atipico organo sociale, conferendo allo stesso il potere di concludere accordi con soggetti terzi, emergendo dal testo della delibera impugnata che, al contrario, “nessun potere di concludere accordi con terzi era stato conferito alla istituenda commissione, posto che gli accordi previsti dalla delibera avrebbero potuto essere, poi, conclusi solo dagli organi normativamente previsti quali titolari dello jus disponendi”; – la delibera impugnata non aveva determinato alcuna “revoca implicita dell’attore dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione”, che, di fatto, ha continuato a presiedere, per cui anche la domanda di risarcimento del danno conseguente a tale asserita revoca implicita doveva ritenersi era infondata.
YYY, con ricorso notificato il 17/12/2018, ha chiesto la cassazione della sentenza.
La Corte di Cassazione ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato.
Il giudice, pertanto, ove sia stato investito da un’azione di nullità di una delibera assunta dall’assemblea di una società per azioni (articolo 2379 c.c.), ha, come previsto dall’articolo 2379, comma 2, c.c., il potere (e il dovere) di rilevare, in via ufficiosa, la nullità della delibera impugnata, anche in difetto di un’espressa deduzione di parte, per vizi di nullità diversi da quelli denunciati nella domanda introduttiva del giudizio, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo e (come stabilito dagli articoli 183, comma 4, e 101, comma 2, c.p.c.) previa provocazione del contraddittorio tra le parti sulla diversa causa di nullità rilevata dal giudice, e di dichiarare (anche in appello: Cass. n. 20170 del 2022, che ha confermato la decisione impugnata nella parte in cui ha esaminato nel merito la domanda di accertamento della nullità di un contratto quadro di intermediazione mobiliare, contenuta nell’atto di appello e fondata su un motivo di nullità diverso da quello dedotto in primo grado, escludendone l’inammissibilità), in dispositivo, la nullità della delibera stessa.
Viceversa, nel caso in cui il giudice sia stato investito non da una domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità di un contratto o di una delibera ma da una domanda (avente ad oggetto un petitum, come l’esecuzione o l’annullamento del contratto o della delibera) che ne presuppone, al contrario, la non-nullità (e che può essere, come tale, oggetto di pronuncia da parte del giudice solo se non sussistono ragioni di nullità dell’atto impugnato), la rilevabilità d’ufficio della nullità da parte del giudice (articoli 1421 e 2378, comma 2, c.c.) nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni (Cass. SU n. 26242 del 2014) dev’essere coordinata con il principio della domanda (articoli 99 e 112 c.p.c.), per cui, se da un lato il giudice (salvo che sulla validità dell’atto si sia formato il giudicato) può sempre rilevare la nullità del contratto o della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato (articolo 345, comma 2, c.p.c.), in funzione del rigetto della domanda (Cass. SU n. 7294 del 2017), non può, dall’altra parte, dichiarare in dispositivo la nullità del contratto o della delibera in mancanza di una domanda ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio a seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata: esclusa, in ogni caso, per il divieto previsto dall’articolo 345, comma 1, c.p.c., la proponibilità di tale domanda per la prima volta in appello (Cass. SU n. 26243 del 2014; Cass. n. 5249 del 2016; Cass. n. 22678 del 2017, in materia di impugnazione di delibere condominiali; Cass. n. 22457 del 2019; Cass. n. 28377 del 2022).
Ciò comporta che, se una delibera è stata impugnata con la domanda di annullamento (che ne presuppone, evidentemente, la non-nullità), la domanda di nullità della stessa delibera, formulata per la prima volta con l’atto d’appello, non può essere esaminata, potendo solo convertirsi nella corrispondente eccezione, né, in tale ipotesi, il giudice d’appello può dichiarare d’ufficio la nullità della delibera traducendosi tale pronuncia nell’inammissibile accoglimento di una domanda nuova (Cass. SU n. 26243 del 2014; in senso conforme, Cass. n. 28377 del 2022; Cass. n. 5249 del 2016).
Nel caso in esame, a fronte della proposizione in primo grado della sola domanda di annullamento della delibera impugnata, l’attore non poteva, quindi, proporre per la prima volta in appello la domanda di nullità di tale delibera, nello stesso modo in cui il giudice d’appello non poteva dichiarare la nullità di tale delibera in mancanza di una domanda di nullità ritualmente e tempestivamente proposta.
Resta, d’altra parte, il fatto (rilevante con riguardo tanto all’una quanto all’altra ipotesi) che: – l’articolo 2379, comma 1, c.c. prevede che “nei casi di mancata convocazione dell’assemblea, di mancanza del verbale e di impossibilità o illiceità dell’oggetto la deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla sua iscrizione o deposito nel registro delle imprese, se la deliberazione vi è soggetta, o dalla trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea, se la deliberazione non è soggetta né a iscrizione né a deposito”; – l’articolo 2379, comma 2, c.c. estende il medesimo termine (di decadenza: la cui decorrenza è, pertanto, rilevabile, a norma dell’articolo 2969 c.c., d’ufficio, come ha fatto la corte d’appello, e può essere, per la stessa ragione, impedita, a norma dell’articolo 2966 c.c., solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, a nulla, per contro, rilevando la mera deduzione in giudizio dei fatti che potrebbero costituirne il fondamento) anche al rilievo ex officio della nullità, statuendo che “nei casi e nei termini previsti dal precedente comma l’invalidità può essere rilevata d’ufficio dal giudice”; – il termine di decadenza triennale è, pertanto, “previsto non solo in relazione all’impugnazione da parte degli aventi diritto ma anche”, onde “evitare che chi abbia omesso di azionare la nullità nel periodo assegnato dalla legge possa poi riuscire ad aggirare il precetto normativo sollecitando tardivamente il rilievo ufficioso, in altro giudizio”, “al rilievo officioso dell’invalidità” (Cass. n. 11224 del 2021, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto che il giudice di merito non potesse rilevare d’ufficio la nullità di una delibera adottata dal consiglio di amministrazione di una società cooperativa, essendo decorso il termine triennale di decadenza), nella specie, tuttavia, incontestatamente omesso (né piu’ operabile attesa l’intervenuta scadenza del termine) tanto dal tribunale, quanto dalla corte d’appello.
Il principio di diritto:
Il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato; – se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata; – nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea.
Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile Ordinanza n. 10233 del 18 aprile 2023
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
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