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Partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare

Il Tribunale di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, condannava XXX a pagare al figlio YYY la somma di euro 122. 230-bis c. c. risiede nella tutela dei familiari-collaboratori continuativamente in essa impegnati, attraverso il riconoscimento di diritti di ordine economico esercitabili durante la vita economica dell’impresa e al momento della cessazione dalla partecipazione per qualsiasi causa o del trasferimento dell’impresa.

Il Tribunale di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, condannava XXX a pagare al figlio YYY la somma di euro 122.274,48, oltre accessori, a titolo di quota di partecipazione agli utili ed all’incremento aziendale nella misura del 35% ex art. 230-bis c.c. quale collaboratore nell’impresa agricola del genitore nel periodo maggio 1989 – ottobre 2005.

La Corte d’Appello di Ancona, decidendo sull’appello principale del padre e su quello incidentale del figlio, disposta nuova CTU, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, rideterminava la quantificazione della somma dovuta, tenuto conto di acconto di euro 64.533,69 già versato, in euro 134.966,31.

In particolare, la Corte territoriale osservava che:

– secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il diritto del familiare collaboratore alla partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’impresa familiare è da valutare in modo unitario e da quantificare in base alla quantità e alla qualità dell’apporto prestato;

– il diritto di partecipazione all’incremento del valore dell’azienda si quantifica utilizzando come dividendo la differenza tra il valore iniziale dell’azienda nel momento dell’inizio della collaborazione e il valore finale dell’azienda nel momento della cessazione della collaborazione, e come divisore l’entità del lavoro del collaboratore espresso in percentuale e ragguagliato alla quantità e qualità dell’apporto medesimo;

– ai fini del calcolo del valore iniziale dell’azienda si somma il valore di tutti i beni in essa presenti alla data dell’inizio della collaborazione sulla base del loro valore di mercato nel contesto socioeconomico in cui opera l’azienda, non rilevando il fatto che tali beni siano stati acquistati in epoca precedente, né che siano stati ottenuti con proventi diversi dagli utili conseguiti in data anteriore;

– nel caso concreto, non escludeva la sussistenza di una collaborazione nell’impresa familiare la circostanza che il figlio svolgesse nel medesimo periodo anche attività di musicista;

– erano da recepire le conclusioni dell’ausiliare nominato in appello, che aveva calcolato in euro 570.000 l’incremento patrimoniale dell’azienda nel periodo da giugno 1989 a ottobre 2005; valutata la misura della partecipazione all’impresa familiare del padre in quanto titolare non inferiore al 51%, quella da attribuire agli apporti della moglie e della figlia nel 7% ciascuna, la misura della partecipazione del figlio era da confermare, come in primo grado, nella misura del 35%;

Avverso la sentenza d’appello veniva proposto ricorso per cassazione.

La ratio della disciplina dell’impresa familiare regolata dalla disposizione di cui all’art. 230-bis c.c. risiede nella tutela dei familiari-collaboratori continuativamente in essa impegnati, attraverso il riconoscimento di diritti di ordine economico esercitabili durante la vita economica dell’impresa e al momento della cessazione dalla partecipazione per qualsiasi causa o del trasferimento dell’impresa.

In quest’ottica, la partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento“) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.

La quota spettante al familiare partecipante al momento della cessazione, che va determinata esclusivamente sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto nell’impresa, è relativa nella stessa misura tanto agli utili che agli incrementi, siano essi materiali o immateriali.

Poiché il criterio di determinazione della quota di partecipazione del familiare è quello della quantità e qualità del lavoro svolto dal familiare-collaboratore nella gestione dell’impresa e non della sua effettiva incidenza causale sul conseguimento degli utili ed incrementi, che rappresentano soltanto l’effetto e non la misura dell’attività svolta, una volta cessata l’impresa familiare la liquidazione della quota spettante al familiare che vi ha collaborato deve avere per dividendo gli utili, i beni acquistati con essi e gli incrementi e per divisore (unico) la quantità e qualità del lavoro prestato (così Cass. n. 5224/2016, n. 27108/2017, richiamate nella sentenza impugnata che dei principi suddetti ha fatto coerente applicazione).

E’ stato di recente ulteriormente chiarito (Cass n. 1401/2021) che, in tema di impresa familiare, la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi del familiare va determinata sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell’impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell’andamento del mercato.

Ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all’attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell’impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva espunto dal calcolo della quota l’aumento di valore di mercato degli immobili imputabile all’introduzione della moneta unica).

Infatti, anche qualora l’aumento di valore degli immobili utilizzati nell’esercizio della impresa familiare non sia frutto del reinvestimento in azienda di utili conseguiti e non distribuiti in senso stretto, tuttavia l’aumento di valore degli immobili può assumere rilievo, ai fini della concreta determinazione delle spettanze del familiare, in quanto si sia tradotto in un generale fattore di accrescimento del valore dell’impresa unitariamente considerata ed in definitiva in una maggiore redditività della stessa.

Alla luce della così riassunta ricostruzione dell’istituto, cui la Corte di merito si era conformata, la doglianza del ricorrente in ordine a preteso errore nel calcolo del valore complessivo iniziale e finale dell’azienda (con considerazione anche dei beni acquistati prima dell’inizio della collaborazione del figlio e dei beni acquistati con proventi diversi dagli utili) risultava, invece, in contrasto con i richiamati approdi della giurisprudenza di legittimità, dai quali la Suprema Corte ha ritenuto che non vi fossero motivi per discostarsi.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 3266 del 5 febbraio 2024

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