REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D’APPELLO DI BARI
– SECONDA SEZIONE CIVILE–
La Corte d’Appello di Bari, Seconda Sezione Civile, riunita in camera di consiglio e composta dai signori magistrati ha emesso la seguente
SENTENZA n. 1102/2019 pubblicata il 13/05/2019
nella causa iscritta al n. del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 2015
tra
XXX, elettivamente domiciliato in, presso lo studio dell’avv., che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv., giusta procura in atti appellante e
YYY, elettivamente domiciliata in, presso lo studio dell’avv., che la rappresenta e difende, giusta procura in atti appellata
Conclusioni: all’ udienza del 18 gennaio 2019, i difensori delle parti hanno concluso come da relativo verbale.
Svolgimento del processo
Con decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. /12 del 21.6.12, emesso dal tribunale di Bari – articolazione territoriale di Altamura, è stato ingiunto a YYY di pagare a XXX la complessiva somma di €43.768,00, di cui €40.000,00 pari al doppio della caparra confirmatoria dovuta per effetto del recesso dal preliminare di vendita immobiliare dell’1.9.11 esercitato dal XXX ai sensi dell’art. 1385, 2° co., c.c., €1.000,00 quale ulteriore acconto versato in esecuzione del preliminare e €2.768,00 a titolo di rimborso delle spese sostenute per la conclusione del contratto (€2.500,00 a titolo di provvigione in favore dell’intermediario immobiliare; €268,00 a titolo di imposta di registro), oltre gli interessi legali dalla costituzione in mora al saldo e le spese giudiziali.
Con citazione del 24.9.12, ha spiegato opposizione avverso il decreto ingiuntivo YYY, chiedendone la revoca, attesa l’insussistenza dei presupposti per la risoluzione del contratto.
Con sentenza n. /15 del 19.6.15, il tribunale di Bari – articolazione territoriale di Altamura ha accolto l’opposizione, revocato il decreto ingiuntivo e condannato l’opposto alla rifusione delle spese di lite.
Con citazione del 28.7.15, XXX ha proposto appello contro la sentenza, chiedendo, in riforma della stessa, il rigetto dell’opposizione, con la conseguenziale conferma del decreto, e, in via subordinata, la restituzione delle somme versate a titolo di acconto e del doppio della caparra confirmatoria. Ha, inoltre, reiterato le istanze di prova orale proposte in primo grado e non ammesse.
Si è costituita l’appellata, eccependo in via pregiudiziale l’inammissibilità dell’appello per violazione nell’art. 342 c.p.c. e dell’art. 345 c.p.c., e, nel merito, chiedendone il rigetto, in adesione alle motivazioni poste a fondamento della sentenza impugnata, con vittoria di spese e condanna dell’appellante al risarcimento del danno da lite temeraria.
All’udienza del 18.1.19, invitate le parti alla precisazione delle conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Va primariamente esaminata, in ordine di antecedenza logico-giuridica, l’eccezione pregiudiziale in rito di inammissibilità dell’appello per violazione degli artt. 342 e 345 cpc.
1.1. L’ eccezione è, sotto entrambi i profili, infondata.
La modifica dell’art. 342 c.p.c. ad opera del d.l. n. 83 del 2012 (conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012), lungi dallo sconvolgere i tradizionali connotati dell’atto di appello, ha in realtà recepito e tradotto in legge ciò che la giurisprudenza di legittimità aveva già affermato in relazione al testo precedente la riforma del 2012, e cioè che, nell’atto di appello, deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.
Resta, inoltre, escluso che l’individuazione di un “percorso logico alternativo a quello del primo giudice” debba necessariamente tradursi in un “progetto alternativo di sentenza”, perché il richiamo, contenuto negli artt. 342 e 434 cpc, alla motivazione dell’atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio. Quel che, invece, viene richiesto – in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che e’ in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata – e’ che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual e’ il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perche’ queste siano censurabili.
In questi termini si sono espresse le sezioni unite della Cassazione (nella sentenza n. 27199 del 2017), enunciando il principio di diritto secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo novellato, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
Ciò posto, l’appello in esame è conforme al requisito di specificità richiesto dall’art. 342 cpc, inteso nei termini innanzi predicati, avendo circoscritto il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono ed avendo formulato le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata.
1.2. Quanto al secondo profilo di inammissibilità, l’appellante non ha affatto introdotto in appello domande nuove, ma reiterato le medesime richieste svolte in primo grado, ovvero il rigetto dell’opposizione, con la conseguenziale conferma del decreto ingiuntivo, e, in via subordinata, la restituzione “delle somme versate a titolo di acconto e del doppio della caparra confirmatoria ricevuta” (v. conclusioni comparsa di costituzione in primo grado).
Deve, perciò, escludersi la ricorrenza di un’ipotesi di inammissibilità delle domande ex art. 345 cpc.
2. Venendo all’esame del merito, col primo motivo di appello, si denuncia la violazione dell’art. 112 cpc, per aver il tribunale omesso di pronunciare sulla domanda di accertamento della legittimità del recesso e su quella subordinata – in caso di revoca del decreto ingiuntivo – di restituzione “delle somme versate a titolo di acconto e del doppio della caparra confirmatoria ricevuta”.
2.1. La censura è infondata.
Il tribunale ha espressamente pronunciato sulla domanda di legittimità del recesso, rigettandola, sicché restavano assorbite le domande di restituzione dell’acconto e/o di pagamento del doppio della caparra, che presupponevano la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1385 c.c.
2.2. Col secondo motivo di appello, si censura il rigetto della domanda, per aver il giudice erroneamente fondato la sua decisione sulla ritenuta non essenzialità del termine previsto per la stipula del definitivo, anziché sul grave inadempimento della promittente venditrice, che costituiva il vero oggetto del contendere.
Anche questa censura è infondata.
Vero che il tribunale, nella prima parte della motivazione della sentenza, ha argomentato in ordine alla natura essenziale del termine, ritenendo la questione rilevante al fine del decidere, ma non è questa l’unica ratio decidendi.
Nella seconda parte della decisione, infatti, il giudice ha affermato che “i motivi addotti dalla promittente venditrice per il ritardo di adempimento, e documentati dalla copiosa certificazione medica in atti, consentono di ritenere giustificato il suo comportamento e di certo non contrario a buona fede”.
Il giudice ha, perciò, motivato la sua decisione di escludere il diritto del promissario acquirente di recedere dal preliminare di vendita ritenendo giustificato l’inadempimento della promittente venditrice.
Con il terzo e quarto motivo di appello, si denuncia l’erroneità della decisione di rigettare la domanda per essere illogica, incoerente ed insufficientemente motivata la valutazione della non imputabilità del ritardo a colpa della promittente venditrice.
Col quinto motivo di appello, si censura la mancata ammissione delle prove orali articolate, per violazione del diritto di difesa, e se ne reitera l’istanza.
Col sesto motivo di appello, si censura la condanna dell’appellante alla rifusione delle spese di lite, per essere erronea la sottostante valutazione di soccombenza dello stesso, nonostante la prova dell’altrui grave inadempimento.
2.3. Per ragioni di antecedenza logica, va preliminarmente esaminato il quinto motivo di appello.
La censura è inammissibile.
Il primo giudice non ha omesso di provvedere sulle istanze di prova orale, ma le ha implicitamente disattese, ritenendo la causa matura per la decisione e rinviandola per la precisazione delle conclusioni.
A questo punto, gravava sull’odierno appellante l’onere di riproporre tali istanze istruttorie all’udienza di precisazione delle conclusioni del 19.12.14.
Secondo un principio di diritto ripetutamente affermato dalla S.C., infatti, in tema di nova in appello, occorre tener distinto il regime delle istanze istruttorie da quello delle domande ed eccezioni (come del resto è reso palese della struttura dell’articolo 345 cpc, che separatamente disciplina le une dalle altre), con la conseguenza che le istanze istruttorie non accolte in primo grado e reiterate con l’atto di appello, le quali non siano state riproposte in sede di precisazione delle conclusioni, devono ritenersi rinunciate, a prescindere da ogni indagine sulla volontà della parte interessata, così da esonerare il giudice del gravame dalla valutazione sulla relativa ammissione o dalla motivazione in ordine alla loro mancata ammissione (in termini, Cass. 5028/18; 16886/16; 9410/11).
Lo stesso principio vale anche laddove il giudice istruttore, decidendo sulle istanze istruttorie proposte dalle parti, non ne abbia presa in considerazione alcuna: anche in questo caso, la mancata reiterazione, con la precisazione delle conclusioni, dell’istanza non considerata assume la valenza di rinuncia.
Identica regola si applica anche nel caso in cui il diniego alle richieste istruttorie sia stato compiuto dal giudice di appello, con l’effetto che la mancata specifica reiterazione in sede di conclusioni in sede di appello preclude la deducibilità del vizio scaturente dalla asserita illegittimità del diniego quale motivo di ricorso in cassazione (Cass. 5741/19).
Orbene, in esatta applicazione di tali principi, ritiene il collegio che, non avendo l’appellante espressamente riproposto, all’udienza di precisazione delle conclusioni del 19.12.14 (in cui la causa è stata trattenuta in decisione), l’istanza di ammissione dei mezzi istruttori, questa deve intendersi implicitamente rinunciata, esimendo perciò questa corte dal dovere di pronunciarsi in merito ad essa, “a prescindere da ogni indagine sulla volontà della parte interessata”.
Né potrebbe ragionevolmente obiettarsi che tale onere di riproposizione sia stato assolto attraverso il generico richiamo ai precedenti atti, atteso che – secondo quanto più volte affermato dalla S.C. – “la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle sole richieste – istruttorie e di merito – definitivamente proposte” (Cass. n. 19352/17; 10748/12).
L’importanza della precisazione delle conclusioni “sta nel fatto che, in ossequio al principio del contraddittorio, ciascuna parte ha l’esigenza di conoscere la formulazione definitiva e non più mutabile delle posizioni assunte dalle altre parti”, sicché “ciò che è omesso nella precisazione della conclusioni è corretto che si intenda rinunciato, rispetto alla controparte che non avrà l’esigenza di controdedurre su quanto non espressamente richiamato, e rispetto al giudice” (cit. Cass. 9410/11).
D’altro canto, come evidenziato nella citata sentenza della Cassazione n. 9410/11, l’eccezionalità della fase istruttoria nel processo di appello – come riformato nel 1990 e, ancor di più, sulla base della giurisprudenza poi recepita nella riforma attuata con la l. 18 giugno 2009, n. 69 – impone un’interpretazione “restrittiva”, anche se si tratta di istanze istruttorie già entrate a far parte del processo di primo grado. Afferma, al riguardo, la SC: “Se è vero che il giudizio di appello è una revisio prioris istantiae, è pur vero che l’ambito dello stesso è definito anche dalle richieste concernenti le istanze istruttorie e non solo dalle domande ed eccezioni delle parti”. Pertanto, “qualora le istanze istruttorie siano state negate dal primo giudice, l’esame da parte del giudice di secondo grado dipenderà solo da una scelta della parte, legata alla linea difensiva. Scelta, che potrà compiersi nell’ambito delle regole del processo, le quali registrano come momenti essenziali l’atto introduttivo e la precisazione delle conclusioni”.
E’ stato, peraltro, escluso dalla S.C. che tale interpretazione degli artt. 189, 345 e 346 c.p.c. possa porsi in contrasto con gli artt. 47 e 52 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con gli artt. 2 e 6 del trattato di Lisbona 13 dicembre 2007 (ratificato con l. 2 agosto 2008 n. 130), o con gli artt. 24 e 111 cost., non determinando alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo, poiché dette norme processuali, per come interpretate, senza escludere né rendere disagevole il diritto di «difendersi provando», subordinano, piuttosto, lo stesso ad una domanda della parte che, se rigettata dal giudice dell’istruttoria, va rivolta al giudice che decide la causa, così garantendosi anche il diritto di difesa della controparte, la quale non deve controdedurre su quanto non espressamente richiamato (cit. 10748/12).
Al contrario, questa interpretazione è stata ritenuta “rispondente al valore costituzionale del contraddittorio tra le parti e dello svolgimento dello stesso nel pieno dispiegamento del diritto di difesa, coordinato con la lealtà necessaria per l’esplicazione della difesa della controparte” (ancora, cit. Cass. 9410/11).
Dal che deriva la preclusione, per questa Corte, ad esaminare le istanze istruttorie respinte dal tribunale, ma non reiterate all’udienza di precisazione delle conclusioni.
2.4. Seguono, in ordine logico, il terzo e quarto motivo di appello, relativi al merito della decisione di rigettare la domanda di accertamento della legittimità del recesso, per ritenuta non imputabilità del ritardo a colpa della promittente venditrice.
La censura è fondata.
Per giurisprudenza costante, il recesso di cui all’art. 1385, 2° comma, c.c. costituisce uno speciale strumento di risoluzione di diritto del contratto, collegato alla pattuizione di una caparra confirmatoria, analogo a quelli previsti dagli art. 1454, 1456 e 1457 c.c., che ha in comune con la risoluzione giudiziale i presupposti (l’inadempimento di non scarsa importanza della controparte) e le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti del contratto). In termini, cfr. Cass. 2969/19; 25623/17; 21838/10.
La colpa dell’inadempiente, quale presupposto per la risoluzione del contratto, è presunta sino a prova contraria e tale presunzione è superabile solo da risultanze positivamente apprezzabili, dedotte e provate dal debitore, le quali dimostrino che, nonostante l’uso della normale diligenza, non è stato in grado di eseguire tempestivamente le prestazioni dovute per cause a lui non imputabili (Cass. 2853/05; 3328/83).
Ebbene, non ritiene questa corte che la promittente venditrice abbia assolto a tale onere probatorio, essendosi limitata a dedurre “motivi strettamente riservati personali”, “gravi motivi personali”, “motivi di salute sopraggiunti”, “ragioni di salute e di natura familiare che le impediscono di lasciare l’immobile promesso in vendita nel possesso dell’acquirente prima di detta data [ovvero del 30.9.12]”; “gravi motivi già espressi di carattere personale e familiare della stessa, non ultimo il recente decesso del proprio genitore, che le impediscono giustappunto di lasciare il possesso dell’immobile promesso in vendita prima di tale data” , senza tuttavia dimostrare di non aver potuto stipulare il definitivo nel termine pattuito del 15.5.12, ma neanche successivamente (essendosi il suo inadempimento protratto in corso di causa), per cause non imputabili alla sua volontà.
Dalla documentazione in atti emerge, infatti, soltanto che la YYY, sin dal luglio 2010, utilizzava “ventilatori polmonari (v. certificato del 17.1.13 ASL Bari), in quanto affetta dalla sindrome delle apnee ostruttive del sonno, e che percepiva una pensione di invalidità civile (all. 14 fasc. I grado), ma non si vede come tale stato di salute possa averle impedito di rispettare l’impegno negoziale assunto.
Peraltro, trattandosi di circostanza preesistente al preliminare, concluso in data 1.9.11, quando cioè l’appellata soffriva già della suddetta patologia, costei era nelle condizioni di poterne tenere conto al momento di assumere l’obbligo di vendere, ed avrebbe dovuto farlo, ove effettivamente si fosse trattato di un fatto idoneo ad incidere sui tempi di conclusione del definitivo, onde porre la controparte nelle condizioni di valutare compiutamente la persistenza del proprio interesse a contrarre.
Erra, perciò, il tribunale nel ritenere giustificato l’inadempimento, da parte della promittente venditrice, dell’obbligo di stipulare il definitivo nel termine pattuito, non avendo quest’ultima fornito la prova liberatoria a suo carico.
Data, quindi, per assodata l’imputabilità dell’inadempimento all’appellata, se ne deve verificare la gravità, ai sensi dell’art. 1455 c.c.
Ritiene questa corte che l’inosservanza, da parte dell’appellata, del termine per l’esecuzione dell’obbligo di stipulare il definitivo costituisca un inadempimento di non scarsa importanza, sulla base della complessiva valutazione delle circostanze emergenti nella fattispecie concreta (Cass. 3477/12), quali appresso evidenziate.
Innanzitutto, le parti avevano espressamente indicato il termine del 15.5.12 come “essenziale nell’interesse del promissario acquirente” e previsto che “l’eventuale differimento della data del rogito notarile relativo al trasferimento della proprietà delle unità immobiliari potrà eventualmente slittare oltre la suindicata data nell’ipotesi che la pratica di finanziamento non fosse completamente istruita, senza che ciò possa costituire fonte di responsabilità per la parte promissaria acquirente”.
L’espressione adoperata dai contraenti è, dunque, sufficientemente precisa e circostanziata, facendo esplicito riferimento al carattere “essenziale” del termine del 15.5.12, alla parte nel cui interesse è posto
(ovvero il promissario acquirente) ed all’unico evento che avrebbe potuto giustificarne un differimento, ovvero un ritardo nella concessione del prestito chiesto dal XXX al fine di corrispondere il saldo del prezzo (pari a €145.000,00 su complessivi €165.000,00), così rendendo evidente la volontà del promissario acquirente di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo.
Volontà che, peraltro, il XXX ha coerentemente tenuto ferma anche dopo la conclusione del preliminare, respingendo tutte le richieste della YYY di differimento della stipula del definitivo al 30.9.12 (v. lettere del 9.5.12, 12.5.12, 22.5.12, 28.5.12, 7.6.12), persino quando, con lettera del 22.5.12, pur rendendosi disponibile ad un brevissimo differimento al 18.6.12, ha ribadito la sua volontà di “dar seguito agli accordi assunti nel contratto preliminare […] nel rispetto del termine perentorio ed essenziale del 15.5.12”, volontà poi immediatamente ribadita nella successiva lettera del 28.5.12, in cui, preso atto del persistente ed ingiustificato rifiuto della controparte di adempiere prima del 30.9.12, ha ribadito la propria contrarietà a prorogare la data di stipula dell’atto definitivo ed esercitato il recesso dal contratto per altrui grave inadempimento, pretendendo il doppio della caparra ai sensi dell’art. 1385, 2° co., c.c., ed ancora nella lettera del 7.6.12, in cui ha reiterato la volontà espressa nella missiva del 28.5.12.
Né, del resto, una volontà in senso contrario può desumersi dalla menzionata lettera del 22.5.12, con cui il XXX, nel manifestare la propria disponibilità ad un brevissimo rinvio della data di stipula al 18.6.12, ha chiaramente dimostrato di non voler intervenire sulla natura giuridica del termine (v. sul punto Cass. n. 7450/18[1]), tanto da averne ribadito il carattere essenziale nell’ambito della stessa lettera, e da aver rifiutato ogni richiesta della YYY di proroga del termine al 30.9.12, accompagnando tale rifiuto con l’esercizio del recesso (v. lettere del 28.5 e 7.6.12).
Ebbene, l’essenzialità del termine pattuita nel solo interesse del promissario acquirente e mai rinunciata, unita all’univoco e coerente comportamento tenuto dallo stesso successivamente alla conclusione del contratto, sono indici chiaramente sintomatici del suo disinteresse alla conclusione del contratto definitivo oltre il termine pattuito.
Infine, non può farsi a meno di considerare che il ritardo della promittente venditrice si è protratto anche in corso di causa, quindi ben oltre il termine da essa indicato del 30.9.12, tenuto conto che la sua prima offerta di adempiere risale al 7.3.13, è cioè successiva di dieci mesi alla scadenza del termine pattuito (del 15.5.12), e peraltro interviene quando l’appellante aveva già instaurato nei suo confronti un procedimento di espropriazione forzata (per l’esecuzione del debito per cui è causa), che aveva ad oggetto proprio il bene oggetto di preliminare, a quella data prossimo alla vendita.
Non si vede, quindi, come possa negarsi che il ritardo imputabile alla promittente venditrice abbia superato ogni ragionevole limite di tolleranza, alla stregua di ciò che le parti avevano pianificato in sede contrattuale e del comportamento delle stesse posteriore alla conclusione del preliminare, sicché risulta senz’altro legittimo il recesso esercitato dal promissario acquirente ai sensi dell’art. 1385 c.c. e conseguentemente dovutagli la somma di €41.000,00, di cui €40.000,00, pari al doppio della caparra confirmatoria (v. contratto preliminare dell’1.9.11) e €1.000,00 versati a titolo di ulteriore acconto (v. scrittura integrativa del preliminare del 12.3.12 e relativo assegno emesso in pari data e ricevuto dalla YYY).
Non spetta, invece, all’appellante l’ulteriore somma di €2.768,00 richiesta a titolo di risarcimento del danno, corrispondente alla spesa sostenuta per il pagamento della provvigione all’intermediario immobiliare *** (€2.500,00) e dell’imposta di registro (€268,00).
In caso di inadempimento di un contratto con caparra confirmatoria, infatti, la parte non inadempiente può agire in giudizio esercitando il diritto di recesso e il diritto di ritenere la caparra, ma non può chiedere anche il risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento (Cass. 26206/17; Cass. 387/05).
Ciò in quanto la caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c. ha la funzione di liquidare convenzionalmente il danno da inadempimento in favore della parte non inadempiente che intenda esercitare il potere di recesso conferitole ex lege, sicché, ove ciò avvenga, essa è legittimata a ritenere la caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata (Cass. 8417/16; 9367/12).
Ne consegue, pertanto, che, in riforma della sentenza, va parzialmente accolta l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dall’appellata, la quale deve essere condannata a pagare all’appellante la somma di €41.000,00 (in luogo di quella richiesta di €43.768,00), oltre gli interessi legali dalla costituzione in mora (30.5.12) al saldo, revocato il decreto ingiuntivo.
La regolazione delle spese del doppio grado, da liquidarsi come in dispositivo, segue la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Bari, Seconda Sezione Civile, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da XXX, con citazione del 28.7.15, avverso la sentenza n. /15 del 19.6.15 emessa dal tribunale di Bari – articolazione territoriale di Altamura, così provvede:
1. accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza, accoglie parzialmente l’opposizione proposta, con citazione del 24.9.12, da YYY avverso il decreto ingiuntivo n. 289/12 del 21.6.12 emesso dal tribunale di Bari – articolazione territoriale di Altamura in favore di XXX e, per l’effetto, revocato il decreto, condanna YYY a pagare a XXX la somma di €41.000,00, oltre gli interessi legali dal 30.5.12 al saldo;
2. condanna l’appellata a rifondere all’appellante le spese di lite, liquidate in €6.738,00 per il primo grado e in €6.615,00 per l’appello, oltre rimborso spese generali, iva e cpa come per legge. Così deciso, nella camera di consiglio del 3 maggio 2019.
Il Consigliere estensore Il presidente
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