N. 4511 / 2015 R.G.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di PERUGIA Sezione II^ civile
Il Tribunale ordinario di Perugia in composizione collegiale in persona dei sig.ri magistrati:
dott. NOME COGNOME Presidente dott.ssa NOME COGNOME Giudice dott. NOME COGNOME relatore riuniti in camera di consiglio il 3 settembre 2024 ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A N._1185_2024_- N._R.G._00004511_2015 DEL_03_09_2024 PUBBLICATA_IL_03_09_2024
nella causa civile di primo grado iscritta al registro generale degli affari civili per l’anno 2015 al numero 4511, e vertente TRA , elettivamente domiciliato in Torino, INDIRIZZO presso l’avv. NOME COGNOME che lo assiste e difende unitamente all’avv. NOME COGNOME e all’avv. NOME, giuste procure in atti; ATTORE CONTRO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, domiciliato ex lege in Perugia, INDIRIZZO presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Perugia che lo assiste e difende per legge;
CONVENUTO e avente ad
oggetto:responsabilità civile dei magistrati;
Sulle seguenti conclusioni:
come da verbale di udienza, PER L’ATTORE “In via INDIRIZZO:
dato atto ed accertata la responsabilità per colpa grave del Giudice prime cure dr.
NOME COGNOME per “violazione manifesta di legge” ai sensi dell’art. 2 comma 3 e 3 bis della legge 13 aprile 1988 n. 117 così come modificata dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18, dichiarare tenuta e condannare l’ , in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, a corrispondere al dr. a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali tutti patiti per i fatti di causa l’importo di € 1.000.000,00 (un milione) o veriore importo liquidando oltre interessi di mora dall’evento lesivo al saldo. Con vittoria di spese e compensi di giudizio.
” PER IL CONVENUTO “Voglia il Tribunale ogni contraria istanza e deduzione disattesa dichiarare inammissibile la domanda proposta per tardività e palese infondatezza e, in subordine voglia respingerla in quanto infondata nel merito.
Con ogni conseguenziale statuizione in ordine alle spese di giudizio.
”
RAGIONI DI FATTO
E DI DIRITTO
1. – Con ricorso depositato il 5 agosto 2015 il dott. ha convenuto in giudizio il per sentirlo condannare al risarcimento del danno, a norma della legge n. 117 del 1988, in dipendenza dalla affermata violazione manifesta di legge commessa dal dott. NOME COGNOME, magistrato che, quale giudice monocratico del Tribunale ordinario di Roma, sezione V penale, lo condannava, con sentenza del 21 maggio 2009, per il reato di diffamazione col mezzo della stampa in danno Espone il ricorrente che il 2 ottobre 2005, all’esito di un incontro calcistico tra le squadre Juventus e Inter, egli, all’epoca dei fatti Senatore della Repubblica, rilasciava all’agenzia di stampa ANSA una dichiarazione a commento di un fallo commesso nel giuoco dal Quest’ultimo sporgeva denunzia querela sicchè il veniva citato in giudizio per rispondere del reato di diffamazione a mezzo stampa. All’esito, veniva dunque pronunciata la predetta sentenza di condanna.
Veniva dunque proposto appello, nell’ambito del quale il sosteneva la riconducibilità delle affermazioni compiute nell’ambito della funzione parlamentare svolta:
la Corte d’Appello di Roma trasmetteva dunque gli atti al Senato della Repubblica che deliberava l’insindacabilità dell’opinione espressa dall’allora Senatore , ai sensi dell’art. 68 co.
1 Cost. previsione dell’immunità parlamentare per le opinioni espresse nell’esercizio del mandato – che “il giudice di prime cure era tenuto a trasmettere direttamente gli atti alla camera competente” quindi evidenziando, per un verso che “nessuna valutazione è stata fatta preliminarmente dal giudice di primo grado circa il possibile nesso funzionale delle frasi profferite da con la carica da lui ricoperta.
” E per altro verso che “questa implicita affermazione di sindacabilità della condotta del parlamentare contrasta senza dubbio con il principio sancito nell’art. 68 della costituzione ed è stata lesiva per il protagonista”.
Ha quindi affermato che essa ha dato inizio a un procedimento durato sette anni (…)” e che “la condanna emessa in primo grado (…) è ha rappresentato la principale ragione per la quale costui non è stato più candidato al Senato della Repubblica” lamentando un danno patrimoniale e morale da stimarsi in circa un milione di euro.
2. – Ritualmente citata si è costituita la sostenendo preliminarmente l’applicabilità al caso di specie della disciplina di cui alla legge n. 117/1988 nella formulazione precedente alla riforma di cui alla l. n. 18 del 2015 (entrata in vigore il 19 marzo 2015).
Ha conseguentemente eccepito la tardività della domanda e dunque la decadenza, per essere stato depositato il ricorso il 6 agosto 2015, quando il termine, in tesi, periva il 22 luglio 2015, cioè due anni dopo la definitività della sentenza pronunciata in grado di appello.
Nel merito ha comunque evidenziato la difesa pubblica che in ogni caso il fatto contestato al magistrato rientra nell’ambito della c.d. clausola di salvaguardia, trattandosi di attività valutativa, atteso che – fermo che il , ritualmente citato a giudizio e dunque a conoscenza del procedimento penale, non era comparso, non aveva partecipato al giudizio e il difensore d’ufficio non aveva eccepito l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 68 cost. e dalla legge n. 140/2003 – si trattava evidentemente di una valutazione del fatto e che, in ogni caso, in difetto di eccezione di parte, non sussisteva per il giudice l’obbligo di interessare la camera di appartenenza.
In ogni caso ha quindi rilevato la parte convenuta che per un verso i danni lamentati (per l’aver dato avvio al procedimento penale) non sono ascrivibili al giudice, per essere lo stesso stato avviato ben prima della sentenza, e che non sia stata offerta alcuna prova del nesso causale tra sentenza e mancata ricandatura, sostenendo, in ogni caso, che i danni l’insindacabilità dell’opinione espressa (così essendo necessaria la trasmissione alla camera di appartenenza per le relative valutazioni), non ebbe a farlo. 3. – A norma dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988 il dott. NOME COGNOME è stato reso edotto della pendenza del procedimento.
4. – Autorizzato lo scambio delle memorie ex art. 183 co. 6 c.p.c., in difetto di istanze istruttorie per prova orale, la causa è stata rinviata per la precisazione delle conclusioni;
all’esito di alcuni rinvii la stessa è stata chiamata per la precisazione delle conclusioni all’udienza del 24 aprile 2024 e quindi trattenuta in decisione sulle conclusioni di cui in epigrafe con i termini di cui all’art. 190 co. 1 c.p.c. 5. – Deve in primo luogo esaminarsi l’eccezione di decadenza per tardività del ricorso, questione in ogni caso sottratta alla disponibilità delle parti e rilevabile ex officio (v. Cass. civ, Sez. III, 5 maggio 2011, n. 9910).
Deve al riguardo osservarsi che l’azione è stata esercitata con le forme del ricorso poi passato per la notifica, unitamente al decreto di fissazione, il 13 novembre 2015 e quindi notificato il 19 novembre 2015.
Al riguardo, è in ogni caso opportuno precisare, quand’anche non immediatamente rilevante per le ragioni che si espongono (essendo il ricorso in ogni caso tardivo anche guardando alla data di deposito) che il corretto mezzo processuale di introduzione della domanda è la citazione, che è il mezzo ordinario di espressione del potere di esercitare l’azione in giudizio, anche alla luce della circostanza che si tratta di domanda posta alla cognizione del collegio e dunque non trovava applicazione l’art. 702 bis c.p.c. nella formulazione antecedente alla c.d. riforma Cartabia; infatti, con la soppressione del vaglio di ammissibilità della domanda, che aveva indotto motivatamente la Suprema Corte a ritenere l’applicabilità del mezzo processuale del ricorso, considerando la prima fase del giudizio originariamente disegnato dal legislatore quale assimilabile ad un procedimento in camera di consiglio, la tesi che sosteneva la proposizione con ricorso non ha più ragion d’essere (cft. Cass. civ., Sez. I, 29 novembre 2002, n. 16935; conf. , ma con riferimento a atto introduttivo del 2013, Sez. III, 28 giugno 2018, n. 17037; nel senso ora espresso, Trib. Perugia, 25 gennaio 2023, n. 160).
Ciò posto, è noto che l’art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella formulazione conseguente alle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18, dispone che “L’azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato.
” e che, in precedenza, il termine decadenziale era di anni due.
La legge 27 febbraio 2015, n. 18, è entrata in vigore il 19 marzo 2015.
Come ritenuto dalla Suprema Corte, l’introduzione della modifica legislativa – che non prevede diritto transitorio o intertemporale – ha comportato che, sotto il profilo processuale le domande introdotte dopo l’entrata in vigore della legge sono disciplinate dal rito come modificato, cosicchè, in particolare, non sono sottoposte, quand’anche concernenti fatti avvenuti nel vigore della disciplina previgente, al vaglio di ammissibilità della domanda.
Al contrario, trattandosi di fattispecie sanzionatoria, la valutazione del fatto e dei margini di responsabilità dell’incolpato deve essere compiuta alla luce della disciplina applicabile ratione temporis alla data del fatto illecito.
In questo senso, cioè, gli aspetti che attengono alla sussistenza del diritto fatto valere, e non al rito, trovano la loro disciplina nella legge vigente al tempo del fatto affermato dannoso (la Suprema Corte, Sez. III, con la sentenza 7 aprile 2016, n. 6810, ha affermato che
“In tema di responsabilità civile dei magistrati, la legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non contempla una disciplina transitoria diretta ad applicare, con efficacia retroattiva, il novellato art. 2 della l. n. 117 del 1988 ai fatti illeciti commessi anteriormente alla novella legislativa, non si pone in contrasto con alcuna norma costituzionale, giacché, per contro, una simile regolamentazione sarebbe lesiva degli artt. 3, 24 e 111 Cost., oltre che con dell’art 117, comma 1, della Carta fondamentale, in relazione all’art. 6 CEDU, producendo l’effetto di attribuire retroattivamente rilievo – sul piano della responsabilità – a comportamenti che la legge non considerava illeciti al momento in cui furono compiuti. ” rilevando altresì che “In tema di responsabilità civile dei magistrati, il termine decadenziale dell’azione risarcitoria di cui all’art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1988 decorre, nei casi in cui avverso l’atto o il provvedimento che si assume pregiudizievole non siano previsti rimedi, dal momento in cui si è esaurito il grado del procedimento nel cui ambito si è verificato “il fatto che ha cagionato il danno”, che va inteso come fatto dannoso” e non come “danno conseguenza” poiché la verificazione del danno non rientra tra i requisiti di ammissibilità della domanda risarcitoria, sicché è manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dovendosi ritenere il termine biennale di decadenza così computato sufficientemente congruo da consentire agli interessati l’esercizio del diritto di difesa. ”).
Ebbene, entro la disciplina sostanziale rientra anche il termine decadenziale per l’esercizio dell’azione, che attiene ai concreti margini di sanzionabilità del fatto:
come noto, infatti, la disciplina dell’azione per far valere un diritto attiene al regime sostanziale e non processuale dello stesso.
“ritiene il collegio, in linea generale che il termine decadenziale biennale continua ad applicarsi alle domande risarcitorie che abbiano ad oggetto fatti dannosi avvenuti prima dell’intervento di detta legge, anche se la domanda sia proposta dopo il 19 marzo 2015” (Trib.
Perugia, n. 1351/2021) la Suprema Corte di cassazione, con recente ordinanza del 27 luglio 2024, n. 21079, in un caso nel quale, in modo del tutto sovrapponibile alla questione oggi all’esame di questo collegio, il fatto affermato dannoso era del 2014 e la domanda risarcitoria del 2018 e, quindi, medio tempore era intervenuta la legge di modifica del termine decadenziale, (in disparte ogni altra questione sull’individuazione del dies a quo) ha affermato che “tanto il Tribunale quanto la Corte d’appello hanno correttamente stabilito che nel caso in esame il termine di decadenza dell’azione risarcitoria era biennale e non triennale.
Occorre tenere presente, infatti, che la modifica dell’art. 4, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, disposta dall’art. 3, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 – secondo cui il termine di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria è stato innalzato da due a tre anni – non può trovare applicazione nel caso in esame, nel quale il comportamento asseritamente fonte di responsabilità, costituito dal decreto di perquisizione del 13 maggio 2014, si è consumato uno actu in data antecedente all’entrata in vigore della riforma del 2015, senza che sia ipotizzabile un’applicazione retroattiva della normativa sopravvenuta.
Tale ricostruzione è coerente con la giurisprudenza di questa Corte la quale, prendendo le mosse dalla constatazione per cui la novella del 2015 non ha previsto anche una normativa transitoria, ha escluso che le modifiche da questa introdotte possano trovare applicazione anche in relazione a fatti intervenuti in epoca antecedente rispetto alla sua entrata in vigore (v. in tal senso le sentenze 15 dicembre 2015, n. 25216, e 7 aprile 2016, n. 6810).
” L’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività, dunque, è fondata atteso che, il dies a quo per la proposizione della domanda deve individuarsi, al più tardi, al momento nel quale l’azione è esperibile (cioè “quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione”, v. art. 4 co.2, legge n. 117/1988) e dunque – al più tardi e a tutto voler concedere – con il passaggio in giudicato della sentenza di appello che risulta pacifico essere irrevocabile dal 22 luglio 2013 (cft. comparsa conclusionale di parte ricorrente, pag. 10, rigo 24, dove si computa il termine assunto triennale dal 22 luglio 2013).
Poiché, dunque, il ricorso è stato depositato il 5 agosto 2015, lo stesso è tardivo.
Né ad ogni buon conto colgono nel segno le argomentazioni esposte solo con la comparsa conclusionale da parte ricorrente che assumono, a pagina 10, l’applicabilità del termine triennale all’esito di una ricostruzione della genesi della legge n. 18/2015;
fermo retroattiva, deve infatti osservarsi che il termine decadenziale biennale non si poneva (come del resto neppure quello odierno triennale) in contrasto con la disciplina eurounitaria.
Al riguardo, è infatti del tutto condivisibile quanto affermato dalla Suprema Corte che ha avuto modo di stauire che “In materia di danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie, il termine decadenziale biennale ex art. 4, comma 2, ultimo periodo, della l. n. 117 del 1988 (nel testo anteriore all’entrata in vigore della l. n. 18 del 2015) non si pone in contrasto con i principi di equivalenza ed effettività della tutela derivanti dal diritto dell’Unione europea, atteso che la norma, oltre ad assicurare un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per approntare adeguatamente l’azione, costituisce espressione del principio di ragionevole durata del processo, rilevante ai sensi sia dell’art. 111 Cost., che dell’art. 6 della CEDU. ” (v. Cass. civ., Sez. 10 gennaio 2017, n. 258).
In definitiva, dunque, il ricorso è inammissibile.
6. – In ogni caso il ricorso è infondato anche nel merito.
Afferma parte ricorrente, invero meramente esponendo la tesi e non argomentandola, che il dott. COGNOME sarebbe in colpa grave nella violazione manifesta della legge perché egli era tenuto a trasmettere direttamente gli atti alla camera di appartenenza del senatore , e che l’implicita (o non effettuata, secondo la prospettazione così formulata) ritenuta sindacabilità delle opinioni espresse contrasti con il principio espresso dall’art. 68 della Costituzione.
Ebbene, giova al riguardo rammentare che l’art. 68 co. 1 della Costituzione – all’esito di un percorso costituzionale che trova le sue origini dapprima nel Bill of rights del 1689 inglese e quindi, nella costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787 (art. 1 sez. 6), nella Costituzione francese del 1791 (sezione V, art. 7 e 8) e, per quanto riguarda l’Italia, contemperando tradizione anglosassone con tradizione francese, nello Statuto del regno del 1848 (art. 51) – dispone che “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Il legislatore ordinario ha quindi attuato tale disposizione, prevedendo, con la legge 20 giugno 2003, n. 140, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato” all’art. 3 che “1. L’articolo 68, primo comma, della Costituzione si applica in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di Parlamento.
2. Quando in un procedimento giurisdizionale è rilevata o eccepita l’applicabilità dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, il giudice dispone, anche d’ufficio, se del caso, l’immediata separazione del procedimento stesso da quelli eventualmente riuniti.
3. Nei casi di cui al comma 1 del presente articolo e in ogni altro caso in cui ritenga applicabile l’articolo 68, primo comma, della Costituzione il giudice provvede con sentenza in ogni stato e grado del processo penale, a norma dell’articolo 129 del codice di procedura penale;
nel corso delle indagini preliminari pronuncia decreto di archiviazione ai sensi dell’articolo 409 del codice di procedura penale.
Nel processo civile, il giudice pronuncia sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione;
le parti sono invitate a precisare immediatamente le conclusioni ed i termini, previsti dall’articolo 190 del codice di procedura civile per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, sono ridotti, rispettivamente, a quindici e cinque giorni.
Analogamente il giudice provvede in ogni altro procedimento giurisdizionale, anche d’ufficio, in ogni stato e grado.
4. Se non ritiene di accogliere l’eccezione concernente l’applicabilità dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, proposta da una delle parti, il giudice provvede senza ritardo con ordinanza non impugnabile, trasmettendo direttamente copia degli atti alla Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto.
Se l’eccezione è sollevata in un processo civile dinanzi al giudice istruttore, questi pronuncia detta ordinanza nell’udienza o entro cinque giorni. (…)
7. La questione dell’applicabilità dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione può essere sottoposta alla Camera di appartenenza anche direttamente da chi assume che il fatto per il quale è in corso un procedimento giurisdizionale di responsabilità nei suoi confronti concerne i casi di cui al comma 1.
La Camera può chiedere che il giudice sospenda il procedimento, ai sensi del comma 5. (…)”.
Ebbene, ad una piana lettura dell’articolato in commento, emerge evidentemente che non sussiste alcuna forma di pregiudiziale parlamentare generale, sicchè il Tribunale, in difetto di eccezione, non è obbligatoriamente tenuto a trasmettere gli atti del procedimento alla camera di appartenenza dell’imputato, essendogli rimessa la funzione di giudicare la sussistenza del reato e potendo ritenere inapplicabile l’immunità prevista dalla Costituzione e dalla legge.
Ciò si evince, in primo luogo dalla mancata previsione, nel testo della legge, di un siffatto obbligo:
non si rinviene infatti la previsione per la quale qualunque espressione di camera di appartenenza.
Ed invece, si trae un evidente argomento di segno contrario dalla espressa previsione di tale obbligo (invece del tutto inutile ove ogni e qualisvoglia espressione di pensiero di un parlamentare dovesse essere valutata dal competente ramo parlamentare) ove la questione sia eccepita nel corso del giudizio;
e, ancora, dalla circostanza che lo stesso imputato ben può rimettere la questione alla camera di appartenenza (o di pregressa appartenenza al tempo del fatto), previsione, anch’essa del tutto inutile se il legislatore avesse costruito un sistema entro il quale, in ogni caso, ogni reato che avesse come fatto materiale una espressione di pensiero del parlamentare dovesse essere rimessa al parlamento.
Ciò posto, non può che rilevarsi che anche solo per tale ragione processuale la sentenza emessa dal dott. COGNOME quale giudice monocratico del Tribunale di Roma non potrebbe che ritenersi frutto di attività valutativa insindacabile:
in difetto di una espressa previsione di legge che lo obbligasse incondizionatamente a rimettere la questione al Senato della Repubblica, in difetto di eccezione di parte (quale è pacifico che nel caso di specie non fu proposta), la stessa opzione interpretativa circa il non sussistere l’obbligo incondizionato sarebbe comunque frutto di interpretazione della legge (e, in effetti, comunque chiaramente fondata).
Quanto poi alla decisione assunta – cioè alla ritenuta implicita pronuncia di non riconduzione del fatto, cioè delle opinioni espresse, nell’ambito di espressione di funzioni parlamentari e dunque di sindacabilità del fatto – non può in alcun modo negarsi che la questione rientra evidentemente nell’ambito della valutazione del fatto.
COGNOME, quale giudice investito del dovere di decidere sull’ascrizione di responsabilità penale in capo al – e che non era tenuto a motivare espressamente sulla insussistenza dell’immunità del (atteso che la questione non era stata sollevata da alcuno) – ha giudicato una fattispecie nella quale poteva astrattamente dubitarsi che le espressioni usate non fossero immediatamente riconducibili alla funzione parlamentare, specie se tiene conto, per un verso della coeva giurisprudenza di legittimità sul punto (v. Cass. civ., Sez. III, 6 settembre 2007, n. 18689, ove si legge che “Le dichiarazioni rese dai parlamentari “extra moenia”, ove lesive dell’onore e della reputazione di terzi, intanto possono essere coperte dalla garanzia di insindacabilità in quanto, come stabilito dall’art. 68, primo comma, Cost. e ribadito dall’art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 140, siano collegate da un nesso funzionale ad un’attività parlamentare precedentemente svolta. ”;
conforme, Cass. civ., Sez. III, 19 dicembre 2008, n. che la stessa Giunta per le immunità parlamentari ha deliberato sull’immunità prendendo atto dei chiarimenti resi dallo stesso ex senatore.
In definitiva, dunque, sia che la deduzione del ricorrente dovesse intendersi come ascrizione di responsabilità del magistrato per non aver rimesso gli atti al Senato della Repubblica per esservi in tesi tenuto, sia come ascrizione di responsabilità per aver giudicato colpevole l’imputato, così opinando per l’insussitenza dell’immunità nel merito, in ogni caso non può ritenersi che il dott. COGNOME sia versato in colpa grave ed in inescusabile violazione di legge, trattandosi in ogni caso di interpretazione della legge e di valutazione del fatto.
7. – Non può infine non evidenziarsi che la domanda è infondata anche sotto un ulteriore profilo.
Espone infatti il ricorrente spettargli il risarcimento del danno perché dall’assunta condotta lesiva è derivato, in tesi, un danno corrispondente alla mancata ricandidatura del parlamentare nella successiva legislatura, sicchè egli avrebbe patito un danno patrimoniale e non patrimoniale.
Ebbene, è del tutto evidente che, neppure con la comparsa conclusionale (dove pure nuove circostanze di fatto sono come noto inammissibili, in quanto preclusa ne è la deduzione) vengono forniti elementi di fatto idonei a dimostrare come la sua mancata ricandidatura sia univocamente riconducibile, in un rapporto di causa ed effetto, alla sentenza pronunciata dal dott. COGNOME
al di là di un mero rapporto di affermata coincidenza temporale non sono offerte o richieste specifiche prove sul punto, e del resto la circostanza che la XV legislatura cessò per essere state sciolte le camere il 6 febbraio 2008, ben prima della pronuncia della sentenza in questione il 21 maggio 2009, non depone certamente per l’esistenza di un nesso tra la sentenza e la mancata candidatura nei ranghi del partito per la XVI legislatura, iniziata il 29 aprile 2008.
In ogni caso, infine, non può tacersi come il mancato rilievo di parte della assunta sussistenza dell’immunità sarebbe certamente quantomeno concausativo del danno affermato dal 8. – Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo alla luce del valore della controversia determinato in base alla domanda, nonché dello svolgimento di tutte le fasi di giudizio (minimi:
14.598 euro; massimi: 43.791 euro).
ogni diversa istanza o eccezione ed assorbita ogni altra questione, così definitivamente provvede:
– dichiara il ricorso inammissibile e comunque infondato nel merito.
– condanna al pagamento delle spese di lite in favore della che liquida in misura di euro 15.000 oltre spese generali (15%) iva e c.p.a.
come per legge;
Così deciso in Perugia, nella camera di consiglio del 3 settembre 2024 Il giudice rel.
est. Il presidente dott. NOME COGNOME dott. NOME COGNOME
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
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