La caparra confirmatoria ha natura composita – consistendo in una somma di denaro o in una quantità di cose fungibili – e funzione eclettica – in quanto è volta a garantire l’esecuzione del contratto, venendo incamerata in caso di inadempimento della controparte (sotto tale profilo avvicinandosi alla cauzione).
Essa consente, in via di autotutela, di recedere dal contratto senza la necessità di adire il giudice; indica la preventiva e forfettaria liquidazione del danno derivante dal recesso – ove riconosciuto legittimo – che la parte sia stata costretta ad esercitare a causa dell’inadempimento della controparte.
Si esclude, invece, in via generale che essa abbia anche funzione probatoria e sanzionatoria, così distinguendosi sia rispetto alla caparra penitenziale, che costituisce il corrispettivo del diritto di recesso, sia dalla clausola penale, diversamente dalla quale non pone un limite al danno risarcibile, sicché la parte non inadempiente ben può recedere senza dover proporre domanda giudiziale (salva, ovviamente, la mancata produzione degli effetti favorevoli in caso di esito negativo dell’iniziativa stragiudiziale) o intimare la diffida ad adempiere, e trattenere la caparra ricevuta o esigere il doppio di quella prestata senza dover dimostrare di aver subito un danno effettivo.
La parte non inadempiente può anche non esercitare il recesso e chiedere la risoluzione del contratto e l’integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali (articolo 1385 c.c., comma 3), e cioè sul presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza, nel qual caso non può incamerare la caparra, essendole invece consentito trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria o in acconto su quanto spettantele a titolo di anticipo dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati (v., tra le altre, cass. n. 5095/2015).
Il recesso previsto dall’articolo 1385 c.c., comma 2, presupponendo l’inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell’inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale, configura uno strumento speciale di risoluzione di diritto del contratto, da affiancare a quelle di cui agli articoli 1454, 1456 e 1457 c.c., collegato alla pattuizione di una caparra confirmatoria, intesa come determinazione convenzionale del danno risarcibile.
Al fenomeno risolutivo, infatti, lo collegano sia i presupposti, rappresentati dall’inadempimento dell’altro contraente, che deve essere gravemente colpevole e di non scarsa importanza, sia le conseguenze, ravvisabili nella caducazione “ex tunc” degli effetti del contratto.
Qualora, anziché recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacche’ in tale ipotesi essa perde la suindicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli articoli 1453 e segg. c.c..
Anche dopo aver proposto la domanda di risarcimento, e fino al passaggio in giudicato della relativa sentenza, la parte non inadempiente può decidere di esercitare il recesso, in tal caso peraltro implicitamente rinunziando al risarcimento integrale e tornando ad accontentarsi della somma convenzionalmente predeterminata al riguardo.
Ne consegue che ben può, pertanto, il diritto alla caparra essere fatto valere anche nella domanda di risoluzione (cfr., ad es., Cass. n. 2032/1994 e Cass. n. 22657/2017).
Ciò premesso da un punto di vista generale ed applicando la disciplina della caparra alla fattispecie dedotta nel giudizio in esame, la Corte ha osservato quanto segue.
La Corte di Appello ha illegittimamente ravvisato nel fatto, in base al quale l’aver ricevuto semplicemente in restituzione l’assegno bancario di Euro 30.000,00, costituente l’acconto prezzo e caparra versato a garanzia della futura conclusione del contratto definitivo, rappresentasse una circostanza che, di per sé sola, era idonea a comportare la caducazione del titolo giustificativo per l’esercizio del recesso, rilevando, in sostanza, che il rapporto di caparra si sarebbe dovuto considerare risolto per mutuo consenso implicito delle parti, ovvero per “facta concludentia“.
Senonché, la Corte bresciana ha omesso di considerare – nella sua corretta dimensione – il fatto pacifico del rifiuto di adempiere al contratto preliminare (quale promittente venditrice), poiché essa dopo soli quattro giorni dalla stipula del preliminare aveva comunicato al promittente acquirente che non intendeva più vendere l’immobile (e, quindi, concludere il contratto definitivo), ritenendo erroneamente che la sola ricezione (quale comportamento neutro non accompagnato da alcuna manifestazione di volontà adesiva) dell’assegno in restituzione da parte del (OMISSIS) avrebbe implicato l’irrilevanza dell’accertamento dell’inadempimento in capo alla società xxx, circostanza, questa, che – a suo avviso – comportava, perciò, il superamento della necessità di procedere alla valutazione, in sede giudiziale, della sussistenza delle condizioni per ravvisare la legittimità o meno del recesso operato dalla promittente venditrice, ai sensi dell’articolo 1385 c.c., comma 2, ai fini dell’ottenimento da parte dello stesso del doppio della caparra.
In realtà, la Corte di appello non avrebbe potuto esimersi dall’indagare sulle ragioni dell’inadempimento della società xxx al fine di rinvenire una sua eventuale giustificazione, peraltro – come la stessa Corte riconosce nemmeno addotta dalla promittente venditrice, che aveva deciso – per una sua autonoma determinazione – di non dare seguito all’assolvimento del suo obbligo di concludere il contratto definitivo, che aveva assunto con la stipula del preliminare, ricevendo l’assegno consegnatogli dal promissario acquirente (e, poi, restituitogli dopo soli quattro giorni).
Pertanto, dall’impugnata sentenza, non si evince affatto che la predetta società abbia fornito la prova dell’asserita accettazione senza riserve della caparra da parte del promissario acquirente e della sua rinuncia ad esercitare il potere di recesso a fronte dell’inadempimento della controparte.
Ed invero va osservato che la volontà abdicativa del creditore al suo diritto (nel caso di specie del promissario acquirente ad ottenere il doppio della caparra in dipendenza dell’inadempimento dell’altra contraente, con riferimento al quale aveva esercitato il recesso) esige e postula che il diritto di credito si estingua conformemente alla volontà remissoria e nei limiti a questa riconducibili, il che vale a dire che l’estinzione si verifica solo e in quanto voluta univocamente dallo stesso creditore, eventualmente anche a mezzo di comportamenti concludenti (nel caso di specie non accertati dal giudice di appello) che non si risolvano in condotte di dubbia interpretazione, ma che, invece, si desumano da una serie di circostanze inequivoche del tutto incompatibili con la volontà di volersi avvalere del diritto.
Da ciò deriva il seguente principio di diritto: in tema di caparra confirmatoria, nel caso in cui la parte inadempiente restituisca la somma versatale a titolo di caparra dall’altra parte contrattuale (nella specie, a mezzo assegno bancario), non viene meno il diritto della parte adempiente a pretendere il doppio della caparra, da far valere, ove non emerga in senso contrario un’univoca volontà abdicativa del suo diritto da parte del creditore, mediante l’esercizio del recesso, anche con la proposizione di apposita domanda giudiziale in caso di mancata conformazione spontanea dell’inadempiente al relativo obbligo.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 19801 del 12 luglio 2021
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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