REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE LAVORO – PRIMO GRADO 3^
IL GIUDICE, Dott., quale giudice del lavoro, all’udienza del 18.6.2019 ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 5930/2019 pubblicata il 18/06/2019
nella causa iscritta al n. /2018 R.G e vertente
TRA
XXX elettivamente domiciliato in rappresentato e difeso dagli Avv.ti per procura in atti.
OPPONENTE
E
YYY SPA, elettivamente domiciliata in, rappresentata e difesa dagli Avv.ti per procura in atti.
OPPOSTO
FATTO E DIRITTO
XXX ha chiesto di dichiarare nullo, inefficace e di revocare il decreto ingiuntivo n. /2018 avente ad oggetto il pagamento dell’importo di € 974.412,40, richiesto da YYY spa a titolo di restituzione di quanto dalla stessa pagato in esecuzione della sentenza resa dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Roma n. del 2012 del 9 febbraio 2012, integralmente riformata con la sentenza della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Roma n. /2017.
A fondamento dell’opposizione ha allegato il difetto di competenza territoriale del giudice adito, essendo il XXX oggi residente e domiciliato in Terracina ed essendo quindi competente il Tribunale di Latina, il giudicato implicito derivante dalla circostanza che la Corte d’Appello non si è pronunciata sull’istanza di restituzione della banca e comunque il fatto che la somma ingiunta sarebbe errata in quanto illegittimamente comprensiva della ritenuta d’imposta. Il giudizio dovrebbe essere sospeso ex art. 337, comma 2, cpc.
YYY spa si è costituita chiedendo di rigettare l’opposizione.
All’udienza del 18.06.2019 il giudice, dopo avere tentato inutilmente la conciliazione, ha invitato le parti alle discussione, si è poi ritirato in camera di consiglio e, all’esito di questa, la causa è stata decisa con la lettura del dispositivo ed il deposito della presente sentenza contestuale contenente l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
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L’opposizione è infondata.
Se, nonostante la produzione della sentenza n. 17989/2016 delle sezioni unite (relativamente alla questione dell’applicazione dell’art. 1182 c.c., comma 3, qualora nel contratto non risulti predeterminato l’importo del corrispettivo di una prestazione, ma tale importo venga autodeterminato dall’attore nell’atto con cui fa valere la propria pretesa creditoria), risulta destituito di fondamento il richiamo, quanto alla competenza per territorio, all’art. 18 CPC e cioè al foro del convenuto, trattandosi della richiesta di restituzione di somme pagate in esecuzione di una sentenza cassata volta a ripristinare la situazione patrimoniale anteriore alla sentenza di 1° grado e correttamente instaurata davanti allo stesso giudice che ha conosciuto la causa di merito (in primo grado e in appello) e quindi le medesime pretese economiche connesse al rapporto di agenzia di cui in questa sede viene chiesta la restituzione (è quindi evidente il collegamento, contrariamente all’opinione del XXX, con il rapporto di agenzia e comunque con il giudizio svoltosi davanti al Tribunale e alla Corte D’Appello di Roma, di cui il presente procedimento costituisce sostanziale prosecuzione), non essendo, come si vedrà, detta azione riconducibile allo schema della ripetizione di indebito, l‘infondatezza dell’opposizione deriva dalla stessa esposizione del ricorso dalla quale si evince che, a seguito della riforma della sentenza di 1° grado, l’opponente è tenuto a restituire la somma oggetto del decreto ingiuntivo, senza che possa rilevare in alcun modo il fatto che la sentenza di 2° grado non sia ancora passata in giudicato e sia stato proposto ricorso per Cassazione (v., tra le più recenti, Cass. n.12773/2017).
Essendo evidente che chi ha ricevuto non ha alcun titolo a trattenere queste somme non potendo vantare alcuna ragione idonea a giustificare la ritenzione.
Si è in presenza di un credito certo, liquido e provato documentalmente essendo venuto meno, in ogni, lo stesso diritto del lavoratore a percepire questa somma. Il credito è certo, in quanto fondato sulla sentenza della Corte di Appello, ed è anche liquido in quanto esattamente determinato nel suo ammontare sulla base della documentazione prodotta dall’opposta nel procedimento monitorio.
In sintesi: “il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno ex tunc e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza” (v. Cass., 5/8/2005, n. 16559). Più recentemente, la Corte di Cassazione, confermando che il diritto alla restituzione discende dal solo fatto della rimozione della sentenza di primo grado ad opera di quella di appello, non importa se passata in giudicato, e si connota come diritto soggettivo autonomo, ha ribadito che : “L’art. 336 cod. proc. civ., disponendo che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, con la pubblicazione della sentenza di riforma, vengano meno immediatamente l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione della somma pagata e di ripristino della situazione precedente; e con la ulteriore conseguenza che, a fronte di una domanda in tal senso della parte risultante vincitrice, i giudici d’appello sono tenuti a disporre la totale restituzione delle somme che la parte vittoriosa in sede di gravame era stata obbligata a corrispondere, dovendovisi includere tutte le relative componenti al fine di conseguire il risultato della restitutio in integrum e del ripristino della situazione precedente. Non trovano pertanto applicazione, nel caso all’esame, i principi relativi alla diversa fattispecie di indebito pagamento di retribuzioni da parte del datore di lavoro, anche con riferimento alla limitazione della restituzione, in tale ipotesi, ai soli compensi netti percepiti daldipendente. Il diritto alla restituzione discende dai principi generali perché se cade la sentenza sull’an cade automaticamente anche quella sul quantum” (Cass.n.17245 del 27 agosto 2015).
Dagli esposti principi deriva pure che il giudice non deve sospendere il giudizio, in attesa della pronuncia in cassazione, non essendo rinvenibile un rapporto di pregiudizialità tra l’odierno giudizio e il procedimento di impugnazione (v., per tutte, Cass.ord,n.12773 del 22 maggio 2017:“questa Corte ha enunciato, in più di un’occasione, il principio per cui il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto la restituzione di somme versate a seguito di una sentenza di condanna in primo grado, poi riformata in appello, non può essere sospeso in attesa della decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la stessa sentenza di riforma, non ricorrendo un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tra il procedimento d’impugnazione e quello di opposizione a decreto ingiuntivo, tale da giustificare la sospensione di quest’ultimo giudizio, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. (tra le altre, Cass. n. 6211/2014)….. tale principio è applicabile anche nel caso disospensione di cui all’art. 337 c.p.c., comma 2, (in siffatti termini, Cass. n. 21815/2009, in motivazione), giacchè comune ad entrambe le ipotesi (artt. 295 e 337 cod. pro. civ.) è la ricorrenza del presupposto della necessaria pregiudizialità logicogiuridica tra i (rapporti giuridici dedotti nei) due giudizi implicati, là dove poi l’art. 337 cod. proc. civ. opera in ragione dell’intervento di sentenza non passata in giudicato e, dunque, richiede, ai fini della sospensione, una valutazione del giudice della causa dipendente, tenuto a motivare anche sulla controvertibilità effettiva della decisione impugnata (tra le altre, Cass. n. 9478/2012; Cass. n. 21664/2015; Cass. n. 13823/29016)”).
Quanto poi alla mancata condanna alla restituzione da parte del giudice di 2° grado e al presunto “giudicato interno”, si applicano ancora una volta i principi generali (v., tra le altre, Cass. n. 9929/2014 e, più di recente, Cass. n.12387/2016 e Cass. n. 18062/2018): “Va al riguardo anzitutto precisato che una sentenza d’appello la quale, riformando quella di primo grado, faccia perciò stesso sorgere il diritto alla restituzione degli importi pagati in esecuzione di questa, non costituisce titolo esecutivo se non contenga una espressa statuizione di condanna in tal senso (cfr. Cass. civ. 8 giugno 2012, n. 9287).Ora, come testè anticipato, il solvens, al fine di munirsene, può attivare un autonomo giudizio ovvero proporre la sua domanda in sede di gravame. ….”.
Infine, come si è già visto, è pure infondata, in base alla giurisprudenza della Cassazione (Cass. n.17245/2015 cit., Cass. n.23989/2014 ecc.), la contestazione relativa al quantum perchè, ad avviso del XXX, non sarebbe possibile chiedere la restituzione anche delle somme versate a titolo di ritenuta d’acconto (pari ad € 191.866,55), essendo pure del tutto ovvio che il XXX debba restituire anche le spese liquidate dal giudice dell’esecuzione.
Ad abundantiam: “Non c’è ragione, in assenza di disposizioni speciali che riguardino la materia lavoristica, perché qui non debba valere il medesimo insegnamento. Se il datore di lavoro è il vincitore finale della lite giudiziaria, rimetterlo nella situazione precedente l’attribuzione patrimoniale, privata ex art. 336 c.p.c. di titolo, significa – come è evidente – che il lavoratore dovrà restituire al datore medesimo anche quanto da quest’ultimo pagato al fisco. Sarà poi il lavoratore a poter recuperare dal fisco. Come del resto è espressamente previsto dalla legge. L’art. 10, comma 1, lettera d-bis, TUIR (D.P.R. 917/86), riguardante gli oneri deducibili dal reddito complessivo, consente di dedurre, ai fini IRPEF, “le somme restituite all’ente erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti”, e stabilisce ulteriormente che “l’ammontare, in tutto o in parte, non dedotto nel periodo d’imposta di restituzione può essere portato in deduzione dal reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi; in alternativa, il contribuente può chiedere [e senza essere assoggettato a termini di decadenza] il rimborso dell’imposta corrispondente all’importo non dedotto”. L’introduzione (che risale, nella prima stesura, all’art. 5, comma 1, lett. b, D. Lgs. 314/97) di un nuovo onere deducibile – corrispondente all’importo delle somme che in un periodo d’imposta sono state assoggettate a tassazione secondo il criterio di cassa, e sono state poi restituite al soggetto erogatore – risponde all’esigenza di permettere il recupero dell’imposta pagata su tali somme e si è resa necessaria proprio in quanto il sistema dei rapporti tra erario, sostituto e sostituito comporta di regola che il recupero, a carico del contribuente, delle somme a suo tempo a lui erogate avvenga al lordo delle imposte che l’ente erogatore ha versato all’erario in qualità di sostituto (in termini, Risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate 110/05 e 71/0..). …. Inconferente è, parimenti, il precedente costituito dalla sentenza 1464/12 della Suprema Corte … giacché questa pronuncia riguarda il differente caso del datore di lavoro che corrisponda – per suo errore – una retribuzione maggiore del dovuto (e operi di conseguenza ritenute fiscali erronee per eccesso); in tale evenienza – insegna correttamente la Cassazione – il datore di lavoro, salvi i rapporti col fisco, potrà ripetere l’indebito nei confronti del lavoratore secondo i principi generali ex art. 2033 c.c., e quindi nei soli limiti di quanto effettivamente percepito da quest’ultimo (restando esclusa, nell’ottica propria della condictio indebiti, la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente). Erroneo di certo è pertanto il richiamo a questa sentenza 1464/12 da parte della successiva ordinanza 23093/14 della stessa Suprema Corte, e con esso l’applicazione da parte di quest’ultima (non accompagnata da alcuna argomentazione ulteriore) del medesimo principio alla fattispecie che ci occupa.>>. Quanto precede deve essere ribadito, in assenza di argomentazioni concludenti di segno contrario… trovando conforto anche alla luce della recente statuizione della SC di cui alla sentenza 23989-14, nella cui motivazione si legge:<<Ed invero allorquando, come nel caso di specie, ricorre l’ipotesi di somme indebitamente versate in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva, successivamente cassata, non si applica la disciplina della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., dovendosi riconoscere all’interessato il diritto di essere reintegrato dall’accipiens dell’intera diminuzione patrimoniale subita, con restituzione della somma versata aumentata degli interessi ovvero, se di maggior misura, della rivalutazione, con decorrenza dal giorno del pagamento non dovuto (cfr. Cass., n. 25589/2010). Il ristoro dell’intera diminuzione patrimoniale subita comporta quindi l’obbligo di restituzione della somma erogata al lordo, a prescindere dalla circostanza che una quota del relativo importo sia stata materialmente versata all’Erario, in adempimento di un obbligo di legge>> (cfr. anche da ultimo Cass. n. 17245/15)..”. )” (così, Corte D’Appello di Roma, sent. n. 5674/2017).
In definitiva alla luce dei principi sopra indicati, poiché la somma che il datore di lavoro versa all’Erario altro non è che una parte della retribuzione e poiché in caso di riforma della sentenza di condanna il datore di lavoro ha diritto alla restituzione dell’intera somma versata in favore del lavoratore (tra cui vi è anche la quota versata all’Erario che è pur sempre versata in favore del lavoratore quale sostituto di imposta), si deve affermare che spetti al datore di lavoro il diritto ad ottenere l’integrale rimborso della somma versata anche comprensiva delle somme versate all’Erario, spettando poi al lavoratore l’onere di richiedere il rimborso da parte delle Erario delle somme suddette (ovvero di compensarle con propri debiti di imposta).
Tale conclusione è pienamente conforme a quanto statuito costantemente dalla Suprema Corte secondo la quale titolare del diritto al rimborso della ritenuta d’imposta indebita è soltanto il sostituito, percettore del reddito ed obbligato principale nei confronti del Fisco (Cass. 18 dicembre 2000, n. 14922): il debitore principale verso il fisco è il percettore del reddito imponibile e non il sostituto che esegua la ritenuta ed il successivo versamento, onde è al medesimo debitore principale cui compete il diritto di ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso (Cass. 19 novembre 2007, n. 23886).
Nel caso in esame, pertanto, l’opponente aveva l’obbligo di restituire l’intero importo corrisposto dal datore di lavoro al lordo delle ritenute di imposta, nella misura che risulta dai documenti prodotti, esattamente corrispondente all’importo richiesto con il decreto ingiuntivo opposto.
L’opposizione va pertanto respinta.
Le spese, come liquidate in dispositivo ex D.M. 55/2014, seguono la soccombenza
P.Q.M.
Respinge l’opposizione e, per l’effetto, conferma il decreto ingiuntivo opposto.
condanna XXX a rifondere alla parte opposta le spese di lite, liquidate in
€ 9000.00 per compensi, oltre rimborso spese forfettario (15%), iva e cpa.
Roma 18.06.2019
Il Giudice
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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