REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte Di Appello di Roma
II SEZIONE LAVORO
La Corte nelle persone dei magistrati:
a seguito di trattazione ex art. 221, comma quarto, decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 convertito in legge 17 luglio 2020, n. 77 e ss.mm. e ii., in sostituzione dell’udienza del 18.5.2021, ha emesso la seguente
SENTENZA n. 2079/2021 pubblicata il 19/05/2021
nella causa civile in grado di appello iscritta al n del Ruolo Generale per gli affari contenziosi dell’anno 2017 vertente
TRA
XXX
RAPPR. E DIF. DAGLI AVV.TI
Parte appellante
E
EREDI DI YYY
ZZZ QUALE EREDE DI YYY
RAPPR. E DIF. DALL’ AVV.
Parti appellate
OGGETTO: appello avverso la sentenza 9385/2016 emessa dal Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro, depositata in data 27.10.2016.
CONCLUSIONI: come in atti.
Svolgimento del processo e motivi della decisione
Con ricorso depositato in data 26.4.2017 XXX proponeva appello avverso la sentenza in epigrafe con la quale il Tribunale di Roma, aveva parzialmente accolto il ricorso proposto nei confronti di YYY.
L’appellante deduceva la erroneità della sentenza e chiedeva l’integrale accoglimento delle domande proposte.
A seguito del decesso della signora YYY, avvenuto dopo il deposito del ricorso in appello, in data 21.10.2017, il giudizio veniva riassunto nei confronti degli eredi al quale il ricorso veniva notificato ai sensi dell’art. 303 comma 2 c.p.c.
Si costituiva ZZZ quale erede della appellata YYY, per resistere al gravame.
A seguito di trattazione ex art. 221, comma quarto, decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 convertito in legge 17 luglio 2020, n. 77 e ss.mm. e ii., in sostituzione dell’udienza del 18.5.2021, la causa è stata decisa come da dispositivo.
Con l’originario ricorso, XXX, premesso di avere lavorato come muratore alle dipendenze di YYY, titolare di omonima ditta edile, dal 26.11.2012 al 30.4.2014, di essere stato licenziato con lettera del 2.5.2014 ricevuta il 6.5.2014; che tale licenziamento era stato revocato in data 21.7.2014 con invito a riprendere il lavoro entro tre giorni; deduceva di non avere accettato la revoca del licenziamento e, qualora la revoca fosse stata intesa come nuova proposta di lavoro, la sussistenza della giusta causa delle dimissioni comunicate il 21.7.2014 per il mancato, puntuale pagamento delle retribuzioni e per la mancata adozione delle misure di sicurezza sul lavoro e per “ le offese che il datore di lavoro gli rivolgeva affinché lavorasse più velocemente”; chiedeva:
-accertata e dichiarata la illegittimità, invalidità ed inefficacia del licenziamento intimato in data 30.4.2014, la condanna della convenuta alla riassunzione del ricorrente nel posto di lavoro in precedenza occupato o, in alternativa, alla corresponsione in proprio favore della indennità fissata dall’art. 8 L. 604/1966;
-in via subordinata, accertata e dichiarata la giusta causa delle dimissioni, la condanna della resistente al pagamento dell’indennità di mancato preavviso ed al risarcimento “di tutti i danni prodottisi e/o producendi in misura non inferiore ad Euro 5.000,00”;
-in ogni caso, la condanna della resistente al pagamento della somma di Euro 3.454,45, di cui euro 74,04 a titolo di saldo della mensilità di aprile 2014, euro 2.986,41 a titolo di straordinario ed euro 394,00 a titolo di indennità di mancato preavviso oltre al versamento dei contributi sulle maggiori somme spettanti.
Il primo giudice respingeva la domanda diretta alla declaratoria della illegittimità del licenziamento in considerazione della validità della revoca dello stesso e ritenendo che, a fronte della revoca del licenziamento, il rapporto di lavoro si fosse protratto fino alle dimissioni rassegnate il 21.7.2014.
Il Tribunale riteneva la sussistenza della giusta causa delle dimissioni, non avendo “la parte convenuta contestato di avere retribuito con ritardo il ricorrente per il mese di aprile 2014”, con il diritto parte ricorrente alla indennità sostitutiva del preavviso pari ad euro 394,00 oltre accessori.
Respingeva le domande aventi ad oggetto il compenso per lavoro straordinario per la genericità delle allegazioni in ricorso.
Dichiarava la inammissibilità della domanda di versamento dei contributi previdenziali per difetto di interesse ad agire.
Con il primo motivo, l’appellante deduce che il Tribunale “non avrebbe dovuto considerare legittima la revoca del licenziamento o, in subordine, avrebbe dovuto condannare il datore di lavoro a corrispondere all’opponente la retribuzione spettante fino alla data delle dimissioni del lavoratore”.
La parte appellante assume la erroneità della sentenza per avere ritenuto applicabile, anche alle imprese rientranti nella tutela cd obbligatoria per i licenziamenti, l’art. 18 comma 10 legge 1970 n. 300, come novellato dall’art. 1 comma 42 legge 2012 n. 92 il quale prevede il ripristino del rapporto di lavoro ex tunc nell’ipotesi in cui la revoca del licenziamento sia comunicata al lavoratore entro 15 giorni dalla impugnazione stragiudiziale del recesso.
La parte appellante ribadisce che la mancata accettazione della revoca del licenziamento, palesemente illegittimo, non faccia venir meno l’applicazione dell’art. 8 legge 1966 n. 604 e, in via subordinata, qualora si volesse attribuire alla revoca l’effetto del ripristino del rapporto di lavoro, reclama le retribuzioni spettanti per i mesi da maggio alle dimissioni del luglio successivo, pari ad euro 4.485,35.
Rileva il Collegio che risulta documentalmente provato che XXX è stato assunto con le mansioni di muratore (livello 2 OP del ccnl edili artigiani) dal 26.11.2012 ed è stato licenziato con lettera del 30.4.2014, sottoscritta per ricevuta dal lavoratore.
La società, con la lettera raccomandata del 20.5.2014 spedita in data 21.5.2014 sia all’appellante presso il domicilio comunicato dal lavoratore all’azienda che al suo difensore, non ricevuta dal destinatario per cambio del domicilio già comunicato al datore di lavoro, aveva comunicato la revoca del licenziamento impugnato dal lavoratore con lettera ricevuta in data 6.5.2015 ed invitato l’appellante a riprendere servizio, precisando “sarà messa a sua disposizione la retribuzione e tutto quanto dovutole per i giorni non lavorati a far data dalla comunicazione di licenziamento oggetto della presente revoca sino all’effettiva ripresa della attività lavorativa”.
La comunicazione di revoca del licenziamento veniva nuovamente inviata con raccomandata del 1.7.2014 indirizzata al nuovo domicilio dell’appellante e da questi ricevuta in data 11.7.2014.
Con raccomandata del 21.7.2014 l’appellante contestava la efficacia della revoca; comunicava che la revoca dovesse intendersi come proposta di un nuovo contratto e che egli non intendeva accettarla “essendo venuta meno la fiducia che riponeva nei confronti dell’Impresa in indirizzo, tale da legittimare anche le dimissioni per giusta causa”.
Il primo giudice ha ritenuto la sussistenza di una valida revoca del licenziamento per la applicabilità dell’art. 18 comma 10 cit., considerando che “la norma si limita dunque a precludere l’applicazione delle tutele previste dall’art. 18 L. n. 300/70 nel caso in cui la revoca del recesso datoriale sia intervenuta entro 15 giorno dalla comunicazione dell’impugnazione del medesimo, non precludendo pertanto la revoca del recesso datoriale nelle piccole imprese”.
Osserva il Collegio che, secondo il consolidato orientamento del S.C. (formatosi antecedentemente alla legge n. 92 del 2012, che con l’ art. 1, comma 42, lett. b) ultimo comma ha modificato il regime della revoca del licenziamento), a seguito del licenziamento il rapporto di lavoro si risolve e poiché, come per la costituzione, anche per la ricostituzione del rapporto è necessario il consenso del lavoratore, la revoca dell’atto non può avere, di per sé, l’effetto di ricostituire il rapporto stesso (Cass. sez. lav., 13.6.2002 n. 8493; Cass. 12.6.2000 n. 8015; Cass. 5.12.1997 n. 12366; Cass. n. 36 del 3.1.2011).
L’art. 18, comma 10, Legge n. 300/1970, nel testo novellato risultante dalla modifica introdotta dall’art. 1, comma 42, della Legge 92/2012 cit. prevede: “ Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo“.
Tale norma sottrae il datore di lavoro all’applicazione delle sanzioni per il licenziamento illegittimo in deroga ai principi generali sopra richiamati, secondo cui la revoca costituisce una nuova proposta contrattuale che richiede, per la ricostituzione del rapporto di lavoro, la accettazione da parte del lavoratore.
Ritiene il Collegio che il diritto potestativo del datore di lavoro di ripristinare il rapporto ex tunc attraverso la tempestiva revoca del licenziamento impugnato, diretto a favorire un ripensamento del datore di lavoro, trovi applicazione, ratione temporis, limitatamente la regime sanzionatorio previsto dal novellato art. 18.
Tale interpretazione si basa sulla interpretazione letterale e sistematica dell’art. 18 comma 10, atteso che la revoca preclude le sanzioni disciplinate dai commi da 4 a 7 dell’art. 18 che fanno riferimento alle imprese con un numero di dipendenti superiore a 15.
Ciò trova indiretta conferma nell’art 5 d.lgs. 2015 n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), il quale prevede all’art. 5 (Revoca del licenziamento):
Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto.
Tale disposizione ha espressamente disciplinato l’istituto della revoca per tutti i regimi sanzionatori previsti ed a prescindere dal requisito dimensionale del datore di lavoro.
Nel caso in esame, è pacifico che non trovi applicazione la disciplina dettata dall’art. 18 legge 1970 n. 300 e che il lavoratore non avesse accettato la revoca.
In mancanza di un ripristino ex tunc del rapporto di lavoro, deve essere esaminata la questione della legittimità del licenziamento intimato all’appellante con la lettera del 30.4.2014 del seguente contenuto: “La sottoscritta YYY Le comunica che intende risolvere il rapporto di lavoro a far tempo dal 30.4.2014”.
Sono fondati, al riguardo, i rilievi della parte appellante che assume la illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 2 comma 2 legge 1966 n. 604, come modificato dall’art. 1 comma 37 legge 2012 n. 92 il quale prevede: “La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.
Va pertanto dichiarata la illegittimità del licenziamento comunicato all’appellante con lettera del 30.4.2014 e la parte appellata costituita, quale erede della signora Albanese, e gli altri eredi vanno condannati, ex art. 8 legge 1966 n. 604, in considerazione della cessazione della ditta individuale per decesso della titolare ( che preclude la riassunzione), al risarcimento, pro quota, del danno versando una indennità nella misura di tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alle modeste dimensioni della ditta, alla non rilevante anzianità di servizio del lavoratore ed anche alla revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla risoluzione del rapporto di lavoro.
Con il secondo motivo, l’appellante si duole della omessa ammissione delle prove testimoniali con riferimento alla svolgimento di lavoro straordinario e alla violazione dell’art. 2087 cod. civ.
Per quanto riguarda la domanda di compenso per lavoro straordinario, si osserva che, per costante giurisprudenza, “Sul lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per lavoro straordinario grava un onere probatorio rigoroso, che esige il preliminare adempimento dell’onere di una specifica allegazione del fatto costitutivo, senza che al mancato assolvimento di entrambi possa supplire la valutazione equitativa del giudice” (Cass. 2018 n. 16150; Cass. 2018 n. 4976).
Nel caso in esame, il primo giudice ha correttamente valutato, sulla contestazione della parte convenuta in merito ai tempi di lavoro, la genericità delle allegazioni in ricorso, avendo la parte appellante dedotto di avere lavorato per 5/6 giorni settimanali (dal lunedì al venerdì ed a volte anche il sabato), osservando un orario di lavoro di 8/9 ore giornaliere.
A parte il rinvio per relationem ad un prospetto redatto dall’interessato, prodotto in atti, il primo giudice, con motivazione non censurata in modo specifico, ha valutato la mancata indicazione nel ricorso introduttivo dell’inizio e fine lavoro, ma anche la incertezza degli orari giornalieri (8/9) e delle giornate lavorative (5/6 giorni) oltre alla deduzione “a volte il sabato” che non consente di individuare esattamente la quantità di lavoro prestata.
Va pertanto condiviso il giudizio espresso dal primo giudice che non ha dato ingresso alle prove testimoniali in quanto vertenti su circostanze generiche.
Per quanto riguarda la domanda di condanna degli appellati al risarcimento del danno per violazione dell’art. 2087 cod. civ., non merita censura la sentenza per avere ritenuto la genericità delle allegazioni riferite a “ continue e ripetute offese da parte della datrice di lavoro affinché lavorasse “ più velocemente”; oppure alla circostanza che egli “ era costretto ad operare con dotazioni inadeguate per la tipologia di lavoro cui era preposto”; oppure allo svolgimento con carattere di prevalenza di mansioni usuranti.
Si osserva che l’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi ( Cass. 2013 n 2038)
Ed ancora, la prova della responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., richiede l’allegazione da parte del lavoratore, che agisce deducendo l’inadempimento, sia dei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa, sia del nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti (Cass. 2019 n. 28516).
Nel caso in esame, non è dedotta la sussistenza di danni alla salute o comunque non patrimoniali subiti dal lavoratore e, quanto alle continue offese, non è riportato il contenuto delle offese ed i singoli episodi a carattere vessatorio; quanto alla inadeguatezza degli strumenti di lavoro, è vero, come deduce l’appellante, che si tratta di giudizio tecnico rimesso al Tribunale ma tale valutazione presuppone la allegazione quantomeno della tipologia degli strumenti impiegati e della carenza degli stessi da un punto di vista lavorativo.
Con ultimo motivo, l’appellante censura la sentenza per avere dichiarato inammissibile la domanda di versamento dei contributi previdenziali “sulle maggiori somme che saranno riconosciute in conseguenza del presente giudizio” per difetto di interesse ad agire.
Il motivo di gravame è assorbito dal rigetto della domanda avente ad oggetto le differenze retributive riproposte in appello limitatamente al compenso per lavoro straordinario e non avendo, la parte appellante, censurato la sentenza per omessa pronuncia in ordine alla domanda relativa al saldo della retribuzione relativa al mese di aprile 2014.
In considerazione dell’esito complessivo del giudizio, va disposta la compensazione delle spese del giudizio nella misura di 1/3 con la condanna delle parti appellate alla rifusione, in favore, della parte appellante della quota residua.
P.Q.M.
In riforma della sentenza appellata, respinta ogni altra domanda, dichiara la illegittimità del licenziamento intimato all’appellante in data 30.4.2014 e, per l’effetto, condanna, pro quota, ZZZ quale erede di YYY, nonché gli altri eredi al risarcimento del danno nella misura di 3 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Compensa nella misura di 1/3 le spese del giudizio e condanna le parti appellate, in via solidale, alla rifusione, in favore dell’appellante, della quota residua delle spese che si liquidano, per l’intero, per il primo grado in euro 2.100,00 e, per il presente grado, in euro 1.900,00.
Roma, 18.5.2021
Il Presidente estensore
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Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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