REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di L’Aquila, Sezione Lavoro e Previdenza, composta dai seguenti magistrati: ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 321/2020 pubblicata il 02/07/2020
emessa con le modalità previste dall’art. 83, comma settimo, lettera h), D.L. 17 marzo 2020 n.18, conv. con modificazioni in l. 24 aprile 2020 n.27 ed ulteriormente modificato dal d.l. 30 aprile 2020 n.28 nella causa per reclamo ex art.1, comma 58 della legge 28 giugno 2012 n.92 promossa con ricorso depositato in data 09.03.2020, e vertente
TRA
XXX S.r.l., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, con sede in, rappresentata e difesa dall’Avv., presso cui ha eletto domicilio
RECLAMANTE – RECLAMATA INCIDENTALE E
YYY, residente in, rappresentata e difesa
dall’Avv., presso cui ha eletto domicilio
RECLAMATA – RECLAMANTE INCIDENTALE
CONCLUSIONI
Per la parte reclamante-reclamata incidentale: “Rigettare l’avversa domanda, perché inammissibile, improcedibile e comunque infondata in fatto ed in diritto, per le ragioni tutte esposte nel presente ricorso in opposizione; – In via subordinata, in applicazione dell’art. 18, comma 5, L. 300/70, ritenere comunque risolto il rapporto di lavoro, con riconoscimento in favore dell’opposta, della tutela indennitaria ivi prevista, nella misura minima o comunque ritenuta di giustizia, detraendo dalla stessa quanto già corrisposto dalla XXX S.r.l.; – – In via ulteriormente gradata, ridurre l’indennità risarcitoria – che comunque non potrebbe superare le 12 mensilità – in ragione dell’aliunde perceptum. – Conseguentemente, condannare la Sig.ra YYY a restituire alla XXX Srl tutto quanto corrisposto in esecuzione dell’impugnata ordinanza, pari ad €.11.237,00 (corrispondente al netto dell’indennità risarcitoria corrisposta in complessivi €.14.703,66 lordi) e ad €. 3.647,80 per spese legali. – Con vittoria di spese, e compensi professionali del doppio grado di giudizio”.
Per la parte reclamata-reclamante incidentale: “In via principale e nel merito: – respingere con ogni e qualsiasi statuizione tutte le domande proposte da parte avversa, in quanto inammissibili, inaccoglibili, e, comunque, infondate in fatto ed in diritto, per tutti i motivi esposti in narrativa con ogni conseguenziale declaratoria; – in via incidentale, ed in parziale riforma della sentenza de qua, accertare e dichiarare che il motivo del licenziamento sia strumentale e ritorsivo, ovvero che la dipendente sia stata artatamente trasferita al fine di coinvolgerla nella riorganizzazione aziendale e nelle riduzioni di personale con ogni effetto che ne discende sulle conseguenti statuizioni, anche sul punto risarcitorio; – sempre in via incidentale, ed in parziale riforma della sentenza opposta, accertare e dichiarare dovute le spese e competenze di giustizia nel di loro intero e senza parziale compensazione alcuna. Con vittoria di spese e competenze di giustizia di entrambi i gradi di giudizio”.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con reclamo ex art.1, comma 58, della legge 92/2012, la società XXX S.r.l. ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe, con cui è stata respinta l’opposizione precedentemente proposta avverso l’ordinanza emessa ex art.1, comma 49, della legge 92/2012 dal Tribunale di Pescara in data 29/03/2019, con la quale era stata accolta la domanda della lavoratrice YYY tesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole in data 14 luglio 2018 per giustificato motivo oggettivo, con le connesse statuizioni reintegratorie e risarcitorie, parametrate al regime di tutela reale “attenuata” di cui all’art.18 IV comma L.300/1970, come modificato dalla legge 92/2012.
Con una serie articolata di motivi di gravame, la reclamante XXX S.r.l. ha censurato la sentenza impugnata per i seguenti motivi: 1) Violazione e falsa applicazione dell’art.18, commi 4, 5 e 7, L. 300/70 in relazione alla non ritenuta eccessiva onerosità della tutela reintegratoria; 2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, L. 604/66, nonché dell’art. 18, commi 4, 5 e 7, L. 300/70 in relazione alla ritenuta “evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento” con riferimento all’obbligo di repêchage e con riferimento all’art. 47, comma 3, D. Lgs. 81/2015; 3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, L. 604/66 e dell’art. 18, Legge n.300/70, in relazione ai criteri di scelta adottati; 4) Violazione e falsa applicazione dell’art.18, comma 4, L. 300/70, in relazione alla misura e ai limiti dell’“aliunde perceptum”. Ha quindi concluso come in epigrafe.
La parte reclamata si è costituita in giudizio ed ha resistito al reclamo, del quale ha chiesto il rigetto, assumendone l’infondatezza in fatto ed in diritto, in riferimento a ciascun motivo di impugnazione. Ha altresì proposto reclamo incidentale, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la natura ritorsiva del licenziamento e nella parte in cui ha disposto la parziale compensazione delle spese di lite.
1.- Con il primo motivo del gravame principale, la società reclamante censura la sentenza impugnata, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4, 5 e 7, della legge n.300/70, nella parte in cui, una volta accertata la violazione dell’obbligo di repêchage, ha applicato in favore della lavoratrice la tutela reintegratoria “attenuata”, in luogo di quella risarcitoria, sull’erroneo presupposto che la valutazione circa la eccessiva onerosità o meno della reintegrazione sul posto di lavoro andasse riferita allo “stesso periodo del licenziamento”, e non al momento della adozione del provvedimento giudiziale di reintegra.
Come è noto, la Suprema Corte, nel fornire parametri interpretativi in ordine all’applicazione dell’art.18, settimo comma, della Legge n.300/1970, così come modificato dal comma 42 dell’art.1 della Legge n.92/2012, ha chiarito che “nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra […] sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”, per cui “il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”. In tale prospettiva, può quindi affermarsi che la sussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” va valutata (anche) sulla base del rispetto, da parte datoriale, dell’obbligo di reinserimento del lavoratore in altro ambito organizzativo compatibile dell’impresa (v. anche Cass. n. 32159/2018; n. 181/2019; n. 2930/2019; n. 7167/2019).
La Suprema Corte, oltre ad aver chiarito che l’obbligo di repêchage va correttamente collocato nell’ambito del “fatto” la cui insussistenza consente la tutela reintegratoria, ha altresì fornito utili indicazioni per precisare il significato dell’espressione “manifesta insussistenza”, ed ha a tal fine affermato che, pur in presenza di una non pretestuosa motivazione economica posta a base del recesso, l’“insufficienza probatoria” con riguardo all’adempimento dell’obbligo di repêchage è da sola idonea ad integrare un connotato di particolare evidenza nell’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, posto che “il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata” (v. Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2018, n. 10435; Cass.Civ., sez. lav., 17 ottobre 2019, n. 26460).
Ciò premesso, è noto che, nel caso in cui si accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il settimo comma dell’art. 18 prevede che il giudice “può” applicare la tutela reintegratoria di cui al quarto comma. Ne consegue che la “manifesta insussistenza del fatto” costituisce un antecedente necessario – ma non sufficiente – per l’esercizio del potere del giudice di applicare la tutela reintegratoria ovvero indennitaria (sul punto, per completezza, va evidenziato che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale; cfr. sentenza Trib. Ravenna 07.02.2020).
Posto che la suddetta disposizione non si preoccupa di orientare l’esercizio di tale potere discrezionale, una prima impostazione interpretativa, propensa a valorizzare il tenore letterale della norma, aveva sostenuto che, in tale ipotesi, il giudice disporrebbe di un ampio potere discrezionale di ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto.
A tale orientamento se ne era contrapposto un altro, teso invece a valorizzare una impostazione di tipo sistematico, secondo la quale, invece, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, il giudice sarebbe comunque obbligato a disporre la reintegrazione, in considerazione del fatto che, in una disciplina complessivamente tesa a rendere tassative le ipotesi che danno luogo alla reintegrazione nel posto di lavoro, sarebbe del tutto illogico riconoscere al giudice stesso un così esteso potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione nel posto di lavoro, senza che la norma stessa abbia minimamente specificato i criteri in base ai quali il giudice dovrebbe esercitare tale potere discrezionale (v. Tribunale Roma, ord.19.03.2014, est. Sordi).
Ebbene, la Suprema Corte ha aderito alla tesi della non obbligatorietà della tutela reintegratoria, affermando che, in ogni caso, “L’applicazione della tutela reale richiede un ulteriore vaglio giudiziale”.
Constatata l’impossibilità di individuare criteri nella norma in esame, la Cassazione ha ritenuto di individuare un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice, mediante ricorso ai principi generali dell’ordinamento in materia di risarcimento del danno, con particolare riguardo al concetto di “eccessiva onerosità”, al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art.2058 c.c.) ovvero di diminuire l’ammontare della penale concordata tra le parti (art.1384 c.c.). Ciò al fine di “di valutare – per la scelta del regime sanzionatorio da applicare – se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa”. In buona sostanza, secondo la Corte di vertice, “Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire al giudice di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria” (v. Cass.Civ., sez. lav., 03/02/2020, n.2366; Cass.Civ., sez. lav.,02.05.2018, n. 10435). Ne consegue che l’applicazione della tutela reale attenuata costituisce la normale conseguenza dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, restando salva la facoltà per il giudice di optare per la tutela indennitaria, nel caso in cui la reintegra si riveli eccessivamente onerosa per il datore di lavoro, in quanto “sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa”.
Fatte tali premesse, ritiene il Collegio che la tesi di parte reclamante meriti di essere condivisa laddove sostiene che la valutazione dell’eccessiva onerosità della reintegrazione sul posto di lavoro non debba essere riferita ad un’epoca coeva al licenziamento, bensì al momento dell’adozione dell’ordine giudiziale di reintegra, dovendosi tener conto, come la Suprema Corte ha precisato, della “struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa”.
Tale considerazione, tuttavia, non conduce all’accoglimento del primo motivo di gravame, atteso che ciò che rileva ai fini di tale accertamento non è né il “trend negativo”, né lo “stato di deficit” (come sostiene la parte reclamante), quanto piuttosto la compatibilità economica dell’ordine di reintegra rispetto alla “struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa”, e quindi rispetto alle dimensioni aziendali ed alla sua consistenza strutturale ed economica al momento dell’ordine di reintegra.
Ebbene, appare evidente che nella fattispecie siamo in presenza di una impresa di non piccole dimensioni, come risulta dalla documentazione contabile in atti. Dai bilanci degli anni dal 2016 al 2018 (prodotti dalla stessa parte reclamante), emerge infatti che la XXX S.r.l. ha sostenuto costi per il personale pari ad €.1.809.735,00 nel 2016, ad €.1.648.168,00 nel 2017 e ad €.875.591,00 nel 2018. Dalla visura camerale, prodotta dalla stessa XXX S.r.l., risulta che la società reclamante, alla data del 31.03.2018, aveva una consistenza occupazionale di 34 dipendenti, mentre nel bilancio al 31.12.2018 i dipendenti occupati erano ancora n°32. Sembra quindi potersi escludere che l’applicazione della tutela reintegratoria possa dirsi nella fattispecie connotata da una “eccessiva onerosità”, tale da renderla economicamente incompatibile con la struttura organizzativa assunta medio tempore dall’impresa. Tenuto conto della consistenza strutturale ed economica della XXX S.r.l. alla data del 31.12.2018 (32 dipendenti), delle risultanze dei bilanci societari e della circostanza che la società reclamante non ha fornito, come era suo onere, dati più aggiornati in ordine alla struttura organizzativa successivamente assunta dall’impresa, deve concludersi che, benchè la consistenza occupazionale si sia ridotta rispetto agli anni precedenti, siamo in presenza di una realtà commerciale di non piccole dimensioni ed avente una significativa consistenza occupazionale ed economica, con la conseguenza che non vi è in atti la prova che l’eventuale ripristino del rapporto di lavoro con YYY possa rivelarsi eccessivamente oneroso per la società datrice di lavoro, con la conseguenza che non è consentito al giudice “di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria”.
Il primo motivo del reclamo principale va dunque respinto.
***
2.- Con il secondo motivo del gravame principale, la società reclamante censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto una “evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento” con riferimento all’obbligo di repêchage e con riferimento all’art.47, comma 3, D. Lgs. 81/2015.
Il motivo non è fondato.
In punto di diritto, è noto che, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato dalla necessità di procedere alla soppressione del posto cui è addetto il lavoratore, è necessario che sia provato il nesso causale tra il motivo inerente all’organizzazione produttiva e il recesso, anche sotto il profilo dell’impossibilità di una diversa utilizzazione del dipendente licenziato. La prova di tale impossibilità d’impiego, in particolare, va fornita sulla base di inequivoci elementi volti a dimostrare che nell’ambito della organizzazione aziendale, esistente all’epoca del licenziamento, non vi erano altre possibilità di evitare la risoluzione del rapporto se non quella, vietata dall’art. 2103 c.c., di adibire il lavoratore ad una mansione dequalificante rispetto a quella dallo stesso esercitata prima della ristrutturazione aziendale.
Come si è detto, la Cassazione, di fronte ai dubbi interpretativi posti dall’art.18, settimo comma, della Legge n.300/1970, ha chiarito che “nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra […] sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”, per cui “il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”. In tale prospettiva, può quindi affermarsi che la sussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” va valutata (anche) sulla base del rispetto, da parte datoriale, dell’obbligo di reinserimento del lavoratore in altro ambito organizzativo compatibile dell’impresa (v. anche Cass. n. 32159/2018; n. 181/2019; n. 2930/2019; n. 7167/2019). Tale impostazione delinea il licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale extrema ratio, subordinata all’impossibilità per il datore di lavoro di attribuire al lavoratore una posizione lavorativa di pari livello professionale (o anche, con il consenso del lavoratore, di un livello inferiore, qualora ciò costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento) (v., sul punto, Trib.Larino, 18.10.2014).
Nella fattispecie, il primo giudice ha ritenuto violato l’obbligo di repêchage, in ragione del fatto che la XXX S.r.l., nello stesso periodo del licenziamento impugnato, aveva operato “la trasformazione del contratto di apprendistato di due operai in contratto a tempo indeterminato (rispettivamente, in data 18.3.2018 per *** ed in data 20.4.2018 per ***)” ed aveva assunto l’apprendista *** in data 14.5.2018, “sia pure con contratto di apprendistato e per 28 ore settimanali (non risultando peraltro che alla odierna convenuta sia stato offerto di proseguire il rapporto nel reparto panetteria ed in regime a tempo parziale)”.
L’assunzione della *** con contratto di apprendistato professionalizzante part-time (28 ore settimanali) è documentalmente provata mediante la produzione del relativo contratto di assunzione del 14.05.2018, in cui si specifica espressamente che alla scadenza del contratto di apprendistato la *** sarebbe stata inquadrata quale operaio IV livello, con mansioni di specialista di gastronomia, pasticceria e panetteria anche con funzioni di vendita, il che lascia intendere che il rapporto sarebbe verosimilmente proseguito anche dopo il termine del periodo di apprendistato.
Quanto alla avvenuta trasformazione dei contratti di apprendistato di *** e *** in contratti di lavoro a tempo indeterminato poche settimane prima del licenziamento (in data 18.03.2018 e 20.04.2018), trattasi di circostanza che non appare oggetto di contestazione alcuna e che trova indiretta conferma nelle risultanze del LUL (in cui entrambi i suddetti lavoratori risultano assunti a tempo indeterminato ed assegnati al reparto casse, al pari della reclamata).
Orbene, come si è detto, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato dalla necessità di procedere alla soppressione del posto cui è addetto il lavoratore, questi non può invocare (come è invece nell’ipotesi di licenziamento collettivo) situazioni personali per ottenere che la scelta del licenziamento cada su altro soggetto, ma ha il diritto di pretendere di essere mantenuto in servizio nel caso in cui il datore di lavoro non dimostri anche l’impossibilità di una sua utilizzazione in altro settore della stessa azienda. Tale onere, tuttavia, va assolto mediante la dimostrazione di fatti positivi come il fatto che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori e il fatto che, in epoca coeva al licenziamento, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica del lavoratore licenziato. Ciò in quanto la prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti è ritenuta imprescindibile in considerazione della ricostruzione del licenziamento come extrema ratio nell’ambito di tutti i provvedimenti riorganizzativi adottabili (cfr. Cass., 20 maggio 2009 n.11720).
Ora, nel caso in esame, in cui la motivazione del licenziamento è stata individuata dal datore di lavoro nella “necessità di ridurre l’organico di quattro unità, con riferimento al personale impiegato (esclusivamente o quasi esclusivamente) in cassa”, risulta evidente che la stabilizzazione di due apprendisti (assegnati proprio al reparto casse) e l’assunzione di una ulteriore apprendista (di cui viene espressamente preannunciata la futura assunzione) sono circostanze che si pongono in insanabile contrasto con il dedotto giustificato motivo oggettivo di recesso.
Né assume rilievo la circostanza che la *** fosse stata assunta con orario part-time, atteso che non risulta neanche dedotto che alla YYY sia stato mai proposto un repêchage con orario a tempo parziale, e che, in ogni caso, ciò che rileva è che a fronte della motivazione addotta a motivazione del recesso (riduzione di personale) la XXX S.r.l. ha contraddittoriamente proceduto, nello stesso periodo, ad incrementare la forza lavoro.
Né tanto meno ha rilevanza il fatto che gli apprendisti, ai sensi dell’art.47, terzo comma, del D.Lgs. n.81/2015, non siano numericamente computabili nell’organico aziendale, atteso che ciò che rileva è che, in ogni caso, siamo pur sempre in presenza di una nuova assunzione.
Va a questo punto sottolineato che, come è noto, la disposizione di cui all’art.18, settimo comma, della Legge n.300/1970 prevede la reintegra come sanzione solo eventuale, a cui il giudice “può” accedere solo nel caso in cui accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, con residuale applicazione generalizzata della tutela indennitaria “forte”, di cui all’art.18, quinto comma, della Legge n.300/1970. Si tratta dunque di interpretare a cosa il legislatore abbia inteso riferirsi con l’espressione “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. L’art. 18, settimo comma, cit., non aggiunge alcuna specificazione limitandosi ad indicare come “fatto” quello posto a base del licenziamento, senza tuttavia tener conto del fatto che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede non solo la presenza di una ragione economica non contingente a base della riorganizzazione aziendale, ma anche la sussistenza di un nesso di causalità tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro del lavoratore licenziato e l’impossibilità di una ricollocazione di quest’ultimo in mansioni equivalenti (o anche inferiori, in caso di patto di demansionamento).
Ebbene, deve in questa sede evidenziarsi come la norma di cui all’art.18, settimo comma, della Legge n.300/1970 si presenti di problematica interpretazione, nel momento in cui pone in comparazione concetti tra loro non del tutto omogenei, laddove fa riferimento, da un lato, alla insussistenza del “fatto” indicato nella comunicazione di licenziamento (che, se manifesta, consente la tutela reintegratoria “attenuata”) e, dall’altro, alle residuali ipotesi di insussistenza del “giustificato motivo oggettivo” (che danno luogo alla sola tutela risarcitoria).
Secondo un primo orientamento, nel “fatto posto a base del licenziamento” sarebbero sussumibili esclusivamente le circostanze relative alle ragioni produttive-organizzative ed alla soppressione del posto (ovviamente legate dal relativo nesso causale): pertanto, se tali circostanze risultano manifestamente insussistenti (nel senso di una loro evidente e significativa “inconsistenza”, quantitativa e qualitativa, così come risultante dalla prova a carico del datore di lavoro ed anche per quanto riguarda la sua intrinseca idoneità a giustificare il licenziamento) potrà operare la tutela reintegratoria (in tal senso Trib. Milano, 5 novembre 2012 e 29 marzo 2013, Trib.Genova 14 dicembre 2013). Invece, nelle “altre ipotesi” in cui si accerti che comunque “non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” andrebbero annoverate le violazioni dell’obbligo di repêchage e dei criteri di scelta, che daranno luogo alla tutela meramente risarcitoria. Ciò in quanto, diversamente opinando, il “fatto posto a base del licenziamento” finirebbe con il coincidere con lo stesso giustificato motivo oggettivo, in tal modo sostanzialmente privando di contenuto l’alternativa sopra descritta e la correlata graduazione delle tutele, dando ingresso inevitabilmente alla sola tutela reintegratoria, con una interpretatio abrogans della bipartizione voluta dal legislatore. Secondo tale impostazione, in altri termini, l’espressione “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” si riferirebbe all’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia addotto motivi economici inesistenti nella comunicazione del licenziamento (fatto dal quale esula ogni valutazione circa il rispetto del repêchage e l’applicazione dei criteri di correttezza e buona fede), mentre la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo sarebbe riferibile al caso in cui, pur in presenza di validi motivi economici, il datore di lavoro non abbia rispettato le altre regole che rientrano nella nozione di giustificato motivo oggettivo circa la possibilità di reimpiegare altrimenti il lavoratore e circa il rispetto degli artt. 1175 e 1375 c.c. (v. Tribunale Milano, ord. 28.11.2012; Tribunale Roma, ord. 08/08/2013; Tribunale Modena, ord. 26/06/2013).
Altro orientamento, invece, muovendo dal presupposto della perdurante validità del principio del licenziamento per motivi economici quale extrema ratio, ha ritenuto di attribuire all’obbligo del repêchage carattere costitutivo dell’esistenza stessa del giustificato motivo oggettivo, imponendo, in caso di sua violazione, la reintegra. Secondo tale impostazione, l’obbligo di repêchage rappresenta un “elemento costitutivo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo”, con la conseguenza che, qualora venga accertata la sua violazione, la fattispecie si colloca nell’area della “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento. Il carattere manifesto dell’eventuale insussistenza del fatto afferirebbe pertanto anche all’aspetto della non ricollocabilità del lavoratore in altro posto in azienda, configurandosi il repêchage (cui è equiparabile la violazione dei doveri di correttezza e buona fede) quale elemento costitutivo dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, la cui violazione imporrebbe dunque la tutela reintegratoria (v. Tribunale Reggio Calabria, sez. lav., 03/06/2013).
Tale ultima impostazione, come detto, è stata fatta propria dalla Suprema Corte (v. Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2018 n.10435; Cass.Civ., sez. lav., 17 ottobre 2019 n.26460), la quale ha ritenuto che “nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra […] sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”, per cui “il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”. In tale prospettiva, può quindi affermarsi che la sussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” va valutata (anche) sulla base del rispetto, da parte datoriale, dell’obbligo di reinserimento del lavoratore in altro ambito organizzativo compatibile dell’impresa (v. anche Cass. n. 32159/2018; n. 181/2019; n. 2930/2019; n. 7167/2019).
Sulla scorta di tali considerazioni, tenuto conto della stabilizzazione dei due apprendisti addetti al reparto casse e della assunzione di una ulteriore apprendista, in epoca coeva al licenziamento, deve dunque concludersi che emerge la carenza di elementi atti a giustificare il recesso sotto il profilo dell’adempimento dell’obbligo di repêchage, carenza che deve ritenersi ben nota e conosciuta o, quanto meno, agevolmente conoscibile al datore di lavoro: può per questo qualificarsi come “manifestamente insussistente” il giustificato motivo oggettivo addotto a causa del licenziamento.
Nella specie, le condizioni per applicare la tutela reintegratoria “attenuata” di cui all’art.18, quarto comma, L.300/1970, nel testo modificato dalla legge 92/2012, si fondano sulla considerazione che, da un lato, il datore di lavoro ha proceduto al licenziamento della YYY per giustificato motivo oggettivo senza valutare la possibilità di un repêchage della lavoratrice in mansioni equivalenti (che, in considerazione della consistenza dell’organico aziendale, non appariva affatto di impossibile attuazione), e che, dall’altro, la realtà imprenditoriale della XXX S.r.l. è di dimensioni tali che l’eventuale ripristino del rapporto di lavoro non può ritenersi eccessivamente oneroso per la società datrice.
In quest’ordine di concetti, il fatto posto a base del recesso è quindi da valutarsi come “manifestamente insussistente”, con conseguente diritto della reclamata alla tutela prevista dall’art. 18, quarto comma, l. 300/70, come richiamato dall’art. 18, settimo comma (nel testo novellato dall’art. 1, c. 42, l. 92/2012).
Per tali ragioni, anche il secondo motivo del reclamo principale deve essere disatteso.
***
3.- Con il terzo motivo del gravame principale, la XXX S.r.l. censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto contraria ai principi di buona fede e correttezza l’applicazione del criterio di scelta del “maggior costo aziendale”, in tal modo facendo ricadere la scelta dei lavoratori da licenziare su quelli maggiormente onerosi per il datore di lavoro. Secondo la parte reclamante, in particolare, “il criterio del maggior costo aziendale era sicuramente il più coerente con la motivazione dei licenziamenti” e, in ogni caso, non avrebbe avuto neanche ragione di operare, atteso che l’esigenza di riduzione del personale non ha riguardato indistintamente tutti i dipendenti della società, ma solo gli addetti al reparto casse, con la conseguenza che, non trattandosi di personale omogeneo e fungibile, “deve escludersi la operatività, ai fini della scelta dei lavoratori per i quali risolvere il rapporto, dei criteri di cui all’art. 5 della legge n. 223 del 1991”.
Anche tale motivo non è convincente.
Come è noto, in ipotesi di licenziamento individuale, quando il giustificato motivo oggettivo si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale assolutamente omogeneo e fungibile, ai fini del controllo della conformità della scelta dei lavoratori da licenziare ai principi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c., non essendo utilizzabili nè il normale criterio della “posizione lavorativa” da sopprimere in quanto non più necessaria, nè tanto meno il criterio della impossibilità di repechage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili), deve farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che l’art. 5 della legge n. 223 del 1991 ha dettato per i licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità (non assumendo, invece, rilievo le esigenze tecnico – produttive e organizzative data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti) (Cass.Civ., sez. lav., 21 dicembre 2001 n. 16144). Ciò in quanto, nelle ipotesi di licenziamento individuale per necessità di ridurre il personale derivante dalla decisione imprenditoriale di modificare la dimensione aziendale che investa indifferentemente un certo numero di lavoratori il cui posto si trovi nell’area da ridurre, il datore di lavoro, nella scelta del lavoratore da licenziare, deve ispirare la sua condotta ai principi di correttezza e buona fede, con la conseguenza che, pur non avendo l’obbligo di applicare i criteri previsti per il licenziamento collettivo dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991, può fare ad essi ricorso, perché costituiscono uno standard particolarmente idoneo a consentirgli di esercitare il suo potere di scelta tenendo adeguatamente conto degli interessi del lavoratore e di quello aziendale (Cass.Civ., sez. lav., 11 giugno 2004 n. 11124; Cass.Civ., sez. lav., 09 maggio 2002 n. 6667).
Ebbene, nella fattispecie siamo sicuramente in presenza di personale omogeneo e fungibile, atteso che il datore di lavoro ha, con valutazione insindacabile in questa sede, limitato la scelta dei lavoratori da licenziare al solo reparto casse, che ha inteso ridurre di quattro unità. E’ all’interno di tale perimetro di comparazione che è stata dunque attuata la riduzione di personale ed è quindi in tale ambito che possono trovare applicazione analogica i criteri di scelta di cui all’art. 5 della legge n. 223 del 1991.
Va tuttavia considerato che, mentre per i licenziamenti collettivi è fatta salva la possibilità di adottare criteri doversi da quelli legali, trovando tale facoltà un adeguato contrappeso nella continua interlocuzione sindacale che caratterizza la relativa procedura, non altrettanto può dirsi con riguardo ai licenziamenti individuali, in cui l’applicazione dei criteri di scelta avviene senza confronto sindacale, e quindi ad opera del solo datore di lavoro. Ne consegue che, in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, gli unici criteri applicabili analogicamente sono quelli previsti dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991, tra cui non rientra quello del “maggior costo aziendale”. Non ignora la Corte il diverso orientamento espresso da Cass.Civ., sez. lav., n°25192 del 07.12.2016 (richiamata nella sentenza impugnata), ma si ritiene agevole osservare che, trattandosi di criteri previsti nell’ambito della disciplina legale di un altro istituto, siamo nel campo dell’analogia legis, con la conseguenza che gli unici criteri che possono essere oggetto di applicazione analogica sono quelli previsti direttamente dal legislatore, e non altri.
Ad ogni buon conto, appare evidente che l’applicazione del “criterio del maggior costo aziendale” per individuare i lavoratori da licenziare risulta anche del tutto irragionevole, atteso che tale criterio va a colpire, nell’ambito di personale omogeneo e fungibile, i lavoratori maggiormente onerosi per il datore di lavoro e, quindi, verosimilmente, proprio quelli con maggiore anzianità di servizio e/o più meritevoli. Del resto, la stessa sentenza della Suprema Corte sopra richiamata, dopo aver ammesso la possibilità di utilizzare criteri di scelta diversi da quelli legali, circoscrive tale utilizzo a criteri “non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati”. Ebbene, il “criterio del maggior costo aziendale”, adottato nella fattispecie dalla XXX S.r.l., appare non solo arbitrario, ma anche del tutto irrazionale, in quanto va a colpire, come detto, proprio il personale che, per anzianità o meriti, ha acquisito il diritto ad un migliore trattamento retributivo e contributivo. Il che comporta che, come correttamente ritenuto dal primo giudice, trattasi di un criterio non conforme ai principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro.
Per tali ragioni il terzo motivo del reclamo principale deve essere respinto.
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4.- Con il quarto motivo del gravame principale, la XXX S.r.l. censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha limitato la detrazione dell’aliunde perceptum dall’indennità risarcitoria alle sole retribuzioni percepite fino ad un anno dopo il licenziamento, in ragione del fatto che, operando il limite legale massimo delle dodici mensilità (art.18, quarto comma, Legge n.300/1970), la detrazione di somme percepite presso altri datori di lavoro in un periodo più esteso avrebbe irragionevolmente compresso o annullato il diritto del lavoratore ad essere indennizzato per il licenziamento illegittimo. Secondo la parte reclamante, in particolare, il chiaro tenore letterale della norma di cui all’art.18, quarto comma, della Legge n.300/1970 renderebbe evidente che “il periodo di riferimento per la detrazione dell’“aliunde perceptum” non è affatto limitato ai primi 12 mesi successivi al licenziamento, ma all’intero periodo di estromissione, che va dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegra”.
Anche tale motivo non può essere condiviso.
Come è noto, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che, da quanto dovuto al lavoratore a titolo di risarcimento del danno da illegittimo licenziamento, debba essere detratto quanto nel frattempo percepito aliunde dallo stesso lavoratore, atteso che in caso contrario si verificherebbe un ingiustificato guadagno esorbitante l’entità reale del danno subìto. Siamo quindi in presenza di una limitazione del risarcimento del danno, operante in applicazione del principio generale di cui all’art.1227 secondo comma c.c., nei casi in cui sia dimostrato che le conseguenze dannose siano di consistenza inferiore rispetto al danno presunto, liquidato ai sensi dell’art.18, quarto comma, della Legge n.300/1970.
Ne consegue che sussiste un inscindibile nesso tra il danno liquidato ex lege al lavoratore licenziato e le retribuzioni percepite aliunde dal medesimo dipendente nello stesso periodo. Il che comporta, quale logico corollario, che nel momento in cui il legislatore ha limitato alla misura di dodici mensilità il massimo del risarcimento riconoscibile in favore del lavoratore licenziato, anche l’aliunde perceptum deve essere circoscritto al medesimo arco temporale, essendo del tutto irragionevole che, una volta raggiunto il tetto massimo delle dodici mensilità, il lavoratore si trovi a vedere drasticamente ridotto o addirittura annullato l’ammontare dell’indennità risarcitoria, a causa del fatto che, diligentemente, si sia attivato per reperire una nuova occupazione ed abbia continuato a prestare attività lavorativa anche oltre il dodicesimo mese dal licenziamento. In altri termini, seguendo la tesi propugnata dalla parte reclamante si determinerebbe l’irrazionale conseguenza che il lavoratore verrebbe ad essere irragionevolmente pregiudicato dal fatto di essersi comportato con diligenza nel reperire una nuova occupazione e nel dedicarsi stabilmente ad essa per una durata superiore ai dodici mesi, finendo così con il compromettere il proprio diritto ad essere giustamente indennizzato per il licenziamento illegittimo subìto. In buona sostanza, mentre per i primi dodici mesi l’aliunde perceptum trova un contrappeso nell’aumento progressivo delle mensilità di indennità risarcitoria da percepire, a partire dal dodicesimo mese in poi le retribuzioni percepite aliunde finirebbero con l’erodere via via l’ammontare della predetta indennità, sino ad annullarla del tutto, con la inammissibile conseguenza che il fatto di aver prestato diligentemente lavoro retribuito finisce con il determinare un immeritato vantaggio patrimoniale per il precedente datore di lavoro (che lo aveva illegittimamente licenziato), in danno del lavoratore stesso, che, oltre ad essere stato ingiustamente estromesso dal rapporto di lavoro, è stato anche diligente nel reperire e mantenere una nuova occupazione.
Per tali ragioni, anche il quarto motivo del gravame principale deve essere disatteso.
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5.- Con il primo motivo del reclamo incidentale, YYY censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha disatteso la sua domanda tesa ad ottenere l’accertamento della natura ritorsiva del licenziamento (con le correlate cosneguenze in tema di tutela applicabile), che discenderebbe dalla considerazione che la lavoratrice sarebbe stata deliberatamente trasferita al reparto casse (l’unico interessato dalla riduzione del personale) solo pochi giorni prima della comunicazione del licenziamento ed al solo fine di estrometterla dal rapporto di lavoro.
Il motivo non è fondato.
E’ infatti noto che la configurabilità di un licenziamento ritorsivo presuppone che l’intento di rappresaglia sia stato l’unico motivo determinante il licenziamento, soltanto appunto in tal caso integrandosi il presupposto normativo del “motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile”. La giurisprudenza sul tema è consolidata: “In ipotesi di provvedimento datoriale ritorsivo spetta al lavoratore l’onere di provare la natura di tale atto, attraverso la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia” (Cass. n. 14319/2013); “secondo il consolidato principio enunciato da questa Corte, l’intento ritorsivo deve avere avuto un’efficacia, non solo determinativa, ma anche esclusiva, in relazione alla volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento legittimo di licenziamento” (Cass. n. 5555/11; n. 18283/10; Cass. n. 10047/04); l’onere della prova può essere “assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro” (Cass. n. 1823/10).
Ebbene, nella fattispecie in esame, per come si è detto, il licenziamento è stato intimato a fronte di un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo aziendale, per cui la soppressione del posto di lavoro della YYY è da ritenersi avulsa da connotati di pretestuosità, e ciò esclude di per sé la configurabilità di un licenziamento ritorsivo. Del resto, la parte appellante non ha minimamente spiegato quale precedente circostanza intercorsa tra le parti dovrebbe avvalorare la conclusione che il datore di lavoro avrebbe attuato nei confronti della lavoratrice un intento di rappresaglia, a tal fine creando le condizioni per poterla estromettere dal rapporto di lavoro. Inoltre, la YYY non è l’unica lavoratrice addetta al reparto casse ad essere stata licenziata, per cui non si comprende per quale specifica ragione la medesima esigenza di riduzione del personale possa avere connotati di ritorsività nei suoi confronti, e non anche nei riguardi delle altre lavoratrici licenziate. Ad ogni buon conto, poiché il motivo illecito determina la nullità del licenziamento solo quando il provvedimento sia stato determinato esclusivamente da esso, la nullità non può verificarsi quando nella determinazione del licenziamento con lo stesso motivo illecito ne concorra uno lecito, come il giustificato motivo oggettivo (inteso come ragione economica del recesso), nella fattispecie pacificamente sussistente.
Per tali ragioni, il primo motivo del reclamo incidentale va disatteso.
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6.- Con il secondo motivo del reclamo incidentale, YYY censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la parziale compensazione delle spese di lite.
Il motivo non è fondato, atteso che, in applicazione del principio stabilito dall’art. 92, 2° comma, c.p.c., deve ritenersi che nella fattispecie ricorrono evidenti ragioni di ordine equitativo, attesa la parziale reciproca soccombenza, tenuto conto dell’esito complessivo del giudizio e dell’accoglimento solo parziale delle domande della lavoratrice, nonché della obiettiva controvertibilità delle questioni trattate. Ne segue la piena condivisibilità della sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la compensazione per la metà delle spese di lite del primo grado.
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7- Alla luce delle considerazioni che precedono, sia il reclamo principale che quello incidentale devono essere dunque respinti, con conseguente integrale conferma della sentenza impugnata.
In linea con quanto disposto nella sentenza impugnata, anche nella presente fase di reclamo ricorrono le medesime ragioni di ordine equitativo che giustificano la compensazione per la metà delle spese di lite della fase di reclamo, atteso l’esito complessivo del giudizio e tenuto conto del rigetto di entrambe le impugnazioni proposte nel presente giudizio e della obiettiva controvertibilità delle questioni trattate.
– rigetta sia il reclamo principale, che quello incidentale;
– compensa per la metà le spese di lite del presente grado (che liquida, per l’intero, in complessivi €.6.620,00), e condanna la XXX S.r.l. a rifondere alla controparte la parte di spese non compensata, oltre spese generali nella misura del 15% del compenso totale per la prestazione (art.2 D.M.10.03.2014), I.V.A. e C.A.P.;
– dichiara entrambe le parti tenute al pagamento di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello già versato per il reclamo.
Si applica nei confronti di entrambe le parti l’art. 1 comma 17 della 1egge 228\2012, che ha modificato l’art.13 del d.p.r. n.115\2002, mediante l’inserimento del comma 1 quater, a mente del quale, se l’impugnazione principale o incidentale è respinta integralmente, o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma del comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte di Appello di L’Aquila, Sezione Lavoro e Previdenza, definitivamente pronunciando sul reclamo proposto avverso la sentenza n°80/2020 emessa dal Tribunale di Pescara, in funzione di giudice del lavoro, in data 07.02.2020, contrariis reiectis, così decide:
Così deciso nella Camera di Consiglio tenuta in data 2 Luglio 2020.
IL CONSIGLIERE EST. IL PRESIDENTE
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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