R.G. n. 1183/2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI
SALERNO Prima Sezione Civile
La Corte di Appello di Salerno, nelle persone dei seguenti magistrati:
dott.ssa NOME COGNOME Presidente dott. NOME COGNOME Consigliere dott. NOME COGNOME Consigliere rel.
riunita in camera di consiglio, ha emesso la seguente
SENTENZA N._984_2024_- N._R.G._00001183_2023 DEL_11_11_2024 PUBBLICATA_IL_12_11_2024
nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 1183 del Ruolo generale degli affari contenziosi civili dell’anno 2023, vertente TRA con sede in Salerno alla INDIRIZZOc.f. rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME COGNOME per procura allegata all’atto di appello;
– appellante –
in persona del curatore, avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME per procura allegata alla comparsa di risposta;
– appellato – OGGETTO:
appello avverso la sentenza del Tribunale di Salerno n. 2839/2023, pubblicata il 21/06/2023.
CONCLUSIONI
Per l’appellante:
“accogliere per i motivi tutti dedotti in narrativa il proposto appello e, per l’effetto, in riforma integrale della sentenza n. n. 2839/2023, resa dal Tribunale di Salerno il 21.06.2023, nell’ambito del giudizio n. 9495/2019 R.G., del preliminare di compravendita stipulato tra le parti in data 01.08.2016, introdotta dal con citazione notificata il 10.10.2019.
Con vittoria delle spese del doppio grado”.
Per l’appellato:
“rigettare l’appello, notificato in data 18.11.2023 perché assolutamente inammissibile ed infondato in fatto ed in diritto e, per l’effetto, confermare la sentenza n. 2839/2023 resa dal Tribunale di Salerno in data 21.06.2023, a definizione del giudizio rubricato al NRG 9495/2019 del Tribunale di Salerno e per l’effetto:
1) accertare e dichiarare la simulazione assoluta e la conseguente nullità del contratto preliminare, privo di data certa, stipulato tra la società in bonis e la ed avente ad oggetto l’alienazione di un capannone ed altri cespiti di proprietà della e per l’effetto;
2) condannare la alla restituzione, in favore della attrice, del pagamento dell’importo pari ad € 80.000,00 ovvero della diversa somma che in corso di causa risultasse, in ogni caso, dovuta oltre interessi legali dalla vendita al soddisfo;
condannare, in ogni caso, l’appellante al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio”.
FATTI DI CAUSA
La sentenza di primo grado La sentenza in oggetto accoglie la domanda proposta dal e, per l’effetto:
– dichiara la simulazione assoluta e la conseguente nullità del preliminare stipulato tra la società in bonis, quale promissaria acquirente, e la quale promittente venditrice, apparentemente datato 1.8.2016, avente ad oggetto la consistenza immobiliare sita a Solofra (Av) alla INDIRIZZO comprensiva di un capannone industriale e locali a piano terra;
– condanna parte convenuta alla restituzione in favore del della somma pari ad € 80.000,00 oltre interessi legali.
Dopo aver premesso che il curatore riveste la posizione di terzo rispetto ai contratti stipulati dalla società fallita e, pertanto, a norma dell’art. 1417 c.c. può fornire la prova della simulazione contrattuale anche mediante presunzioni, il giudice di primo grado espone che “sussistono sufficienti elementi indiziari concorrenti da cui desumere, con adeguato grado di probabilità, il carattere simulato del contratto preliminare di vendita, privo di data certa, stipulato tra la società fallita e la favore della fallita”, rappresentati dal curatore fallimentare e confermati dal giudice di prime cure, sono: 1) la mancanza dei fondi necessari per pagare il saldo del prezzo (pari ad € 120.000,00).
2) la circostanza che il contratto preliminare sia stato stipulato in una situazione di piena crisi aziendale e di cessazione di fatto delle attività da parte della promissaria acquirente (“che non giustificherebbe la scelta di acquistare il capannone già goduto a titolo di locazione”).
3) l’esistenza di legami societari tra i legali rappresentanti delle due società:
l’amministratore unico e socio della società promittente venditrice ), è stato amministratore unico della promissaria acquirente negli anni 1990;
la carta di credito in uso alla società fallita registra movimentazioni riconducibili al predetto, destinatario anche di numerosi bonifici (vedi relazione ex art 33 l. fall.);
risulta, poi, residente presso lo stesso indirizzo ove era situata la cessata unità secondaria della (in Solofra alla INDIRIZZO;
il legale rappresentante della società fallita ha dichiarato al curatore, nel corso del suo interrogatorio, di conoscere per l’esistenza di una parentela tra le loro famiglie e ha confermato di essere stato coadiuvato nella gestione societaria proprio dal legale rappresentante della società promittente alienante, che lo supportava anche nei rapporti con gli istituti di credito ed aveva la disponibilità della carta di credito intestata alla società essendo il secondo firmatario della stessa.
Circostanze che fanno presumere che la società promittente venditrice fosse consapevole dell’insussistenza dei fondi necessari al pagamento del saldo prezzo e dello stato di crisi e di insolvenza della società promissaria acquirente, poi fallita.
Su questo punto, poi, il giudice di primo grado considera “prive di attendibilità e di affidabili riscontri fattuali” le giustificazioni fornite da in sede di interrogatorio formale, il quale ha affermato di aver svolto attività di procacciatore di affari per la e di aver utilizzato in tali occasioni la carta di credito aziendale per il rimborso delle spese.
Inoltre, “tale circostanza, anche se fosse vera, sarebbe neutra non incidendo sulle dinamiche delle operazioni relative al capannone e anzi confermando le attività svolte da per e la conseguente presunzione di conoscenza della situazione di 4) il dato temporale e “le palesi anomalie nel versamento della caparra”.
Si tratta di due bonifici di € 40.000,00 ciascuno effettuati in data 9.8.2016 e 2.9.2016, dopo la data indicata nel preliminare (1.8.2016), ove si attestano come già effettuati, e appena qualche giorno prima del sequestro penale dei conti e delle quote societarie disposto, in danno della società fallita, con decreto emesso dal Tribunale di Salerno in data 7.9.2016 (nel procedimento iscritto al R.n.r. n. 1701/2016 – R.G. Gip n. 3401/2016).
Secondo il giudice di prime cure, sono invece scarsamente significativi gli elementi contrari indicati dalla società convenuta, ovvero:
a) la diffida ad adempiere, ex art. 1454 c.c. inoltrata da parte della società promittente venditrice in data 27.2.2017, epoca in cui la RAGIONE_SOCIALE aveva addirittura già provveduto a cancellare la propria partita iva.
b) la circostanza che il contratto preliminare di compravendita sia stato preceduto da un contratto di locazione commerciale dell’immobile oggetto della promessa di vendita, registrato in data 20.6.2014 e risolto anticipatamente per concorde volontà delle parti in vista della vendita.
Per il primo giudice, “la locazione di due anni antecedenti al preliminare, infatti, non integra alcun elemento presuntivo della volontà di addivenire ad un preliminare, non essendovi alcuna prassi commerciale in tal senso né evolvendosi secondo una statistica apprezzabile i rapporti di locazione in rapporti di vendita.
La risoluzione anticipata, poi, è stata pattuita con scrittura apparentemente datata 30.9.2016, ma è stata registrata solo il 16.2.2017.
Dalla scrittura di risoluzione, quindi, emergono due ulteriori anomalie:
il mancato coordinamento tra il preliminare di vendita e la risoluzione della locazione, anche mediante meri riferimenti reciproci, e il lungo lasso di tempo intercorso tra l’accordo di risoluzione della locazione e la registrazione della stessa.
Le segnalate anomalie costituiscono ulteriori elementi del carattere solo fittizio del preliminare di vendita, privando di attendibilità tutte le operazioni avvenute dall’agosto del 2016 in poi”.
L’appello propone appello avverso la sentenza di primo grado, con il quale censura il ragionamento presuntivo basato, a suo parere, su indizi inconsistenti.
Quanto alle “presunte interferenze dell’amministratore della promittente solo , ma trattasi di rimasto in carica solo quattro mesi nel 1990, e non di ;
che l’utilizzo di piccole somme mediante la carta di credito della era riconducibile all’attività di procacciatore di affari per conto della si trattava di somme modeste destinate al pagamento di spese (biglietti aerei, carburante, generi alimentari, parcheggi ecc.) e di un importo totale inferiore ai 4.000 euro in un periodo di alcuni mesi, da settembre 2016 a febbraio 2017;
che l’entità modesta degli importi e la loro causale, riportata sugli estratti conto, inducono a ritenere del tutto plausibile la dichiarazione resa da in sede di interrogatorio formale, secondo la quale la carta gli era stata affidata per addebitare direttamente alla società le spese sostenute nell’attività di procacciamento di affari;
che, se fosse stato in grado di ingerirsi nella gestione della avrebbe potuto attribuirsi somme ben maggiori;
che l’esistenza di “numerosi bonifici in suo favore” è un generica affermazione del curatore nella relazione ex art. 33 l. fall. di cui vi è alcuna traccia nei documenti prodotti in giudizio, né sono indicati gli importi, la data, la causale;
che il “rapporto di parentela” è irrilevante e indimostrato;
che neanche la coincidenza della residenza del con una sede secondaria della ormai cessata è supportata da una prova;
che le dichiarazioni rese dall’amministratore della fallita ( al curatore sulla co-gestione della società fallita non fanno prova della loro veridicità, non consistendo in una testimonianza resa in giudizio con l’obbligo di dire la verità e nel contraddittorio delle parti.
La “conoscenza da parte della dello stato di dissesto della Soc. RAGIONE_SOCIALE” è, secondo l’appellante, “priva di fondamento fattuale, giacche’, come evidenziato dalla stessa documentazione prodotta dalla curatela, la momento di stipula del preliminare, era tutt’altro che in dissesto”.
L’appellante osserva che la consulente contabile della curatela, dott.ssa , afferma nella sua relazione che la presentava un volume d’affari nel 2015 (pochi mesi prima della data del preliminare) per più di sei milioni di euro, con un utile di quasi centosessantamila euro.
La consulente scrive che “RAGIONE_SOCIALE per il biennio 2014/2015 presenta una solida struttura economica/patrimoniale”, “RAGIONE_SOCIALE alla data del 31.12.2015 era dunque un’azienda redditizia e patrimonialmente solida”.
Pertanto, non è affatto vero che la società poi fallita si trovasse in stato di Contro Anche la “avvenuta cessazione dell’attività della al momento del preliminare” è, per l’appellante, una circostanza inesistente.
Non solo il Tribunale non indica la prova di tale affermazione, ma risulta, al contrario, dagli stessi documenti prodotti da controparte che l’attività della all’atto del preliminare non era affatto cessata ed è proseguita normalmente almeno per tutto il 2016.
Ciò è confermato dalle decine di movimenti in entrata ed in uscita per alcune centinaia di migliaia di euro sugli estratti conto della le quali confermano che, almeno sino al 31.12.2016, la società poi fallita ha regolarmente incassato somme e pagato i propri fornitori.
L’appellante avversa, poi, l’affermazione di “anomalie del preliminare”, a cui oppone che l’art. 5 del contratto prevede che il prezzo “verrà pagato” con le modalità ivi previste, lasciando intendere che nessun pagamento era ancora avvenuto;
che è di per sé irrilevante che la parte venditrice abbia dichiarato, su richiesta della promittente acquirente, di aver già ricevuto i bonifici, probabilmente per poter accedere più rapidamente a qualche forma di finanziamento;
che la caparra è stata effettivamente versata subito dopo;
che entrambi i bonifici riportavano nella causale la dicitura:
“anticipo per compravendita immobile commerciale”, a testimonianza che la conclusione della trattativa era vera e reale;
che la promittente alienante non poteva aver alcuna consapevolezza dell’imminente provvedimento di sequestro.
Quanto alle “anomalie della scrittura di risoluzione della locazione” del 30.9.2016, l’appellante dissente dalle considerazioni del giudice di prime cure, poiché l’acquisto da parte di una azienda dell’immobile condotto in locazione per lo svolgimento dell’attività costituisce una scelta più che ragionevole, che consente, da un lato, di evitare l’esborso di somme a fondo perduto, e determina, dall’altro lato, l’incremento del patrimonio dell’azienda medesima, con tutte le conseguenze in ordine alla maggiore facilità di accesso al credito. L’appellante non comprende, poi, “la valenza, né logica né legale,” della mancanza di un riferimento alla locazione nel preliminare della stipula del preliminare di acquisto in corso nella risoluzione.
Non considera, poi, anomalo il fatto che la risoluzione sia stata registrata solo il 16.2.2017, non essendovi alcuna ragione per registrare la scrittura prima del deterioramento dei rapporti con la allorquando ha avuto contezza della definitiva mancanza di volontà di adempiere al preliminare da parte della L’ultima censura agli indizi valorizzati dalla sentenza impugnata riguarda la “inattendibilità del in sede di interrogatorio formale”, con particolare riferimento alle sue dichiarazioni sull’uso della carta di credito per il pagamento delle spese, che “non sono state specificamente contestate, con puntuali allegazioni, ma solo genericamente impugnate, e non possono, pertanto, essere oggetto di libera valutazione, e la loro verità deve essere definitivamente affermata”. L’appellato costituitosi, risponde che, sia sia sono persone riconducibili alla come si evince, sia dalla visura camerale della (di cui il primo è socio, mentre il secondo è amministratore unico), sia dal fatto che nel presente grado di giudizio il rappresentante legale della società appellante è mentre nel giudizio di primo grado era ;
che le numerose movimentazioni finanziarie effettuate da quest’ultimo sulla carta di credito aziendale non si limitavano a spese giustificate dal rapporto di procacciamento d’affari, ma si estendevano a beni e servizi di diversa natura, quali pay tv e servizi informatici;
che i numerosi bonifici in suo favore risultano dall’estratto al 30.9.2016 del c/c bancario n. P_IVA intestato a che le dichiarazioni dell’amministratore della società fallita, trasfuse nella relazione ex art. 33 l. fall., che confermano il ruolo di co-gestore di , fanno piena prova dei fatti ivi dedotti e possono essere confutate solo attraverso una querela di falso;
che la piena operatività e solidità patrimoniale della rappresentata dall’appellante è smentita dalla documentazione prodotta e dal fallimento dichiarato nel febbraio del 2018, a distanza di soli 14 mesi;
che, infatti, le “decine di movimenti in entrata ed in uscita” sono, in realtà, quasi tutte uscite, mentre le poche voci di entrata sono soprattutto finanziamenti, a riprova di una conclamata sofferenza finanziaria;
che la dichiarazione di cessazione della partita iva è del 10.2.2017;
che non trovano smentita le numerose anomalie temporali relative al preliminare e ai successivi pagamenti rilevate dal primo giudice;
che gli imminenti provvedimenti di sequestro penale erano noti all’amministratore della in quanto indagato;
che l’acquisto di immobile, a differenza della locazione, esige la disponibilità di liquidità dell’acquirente, ma nel caso di specie la Controp Conclude l’appellato che gli indizi gravi, precisi e concordanti dimostrano che la compravendita immobiliare non è mai stata voluta, ma era solo un escamotage giuridico per giustificare il trasferimento, in favore della dell’importo di € 80.000,00 ancora presente sul conto intestato alla sottraendolo ai creditori e all’incombente sequestro penale.
RAGIONI DELLA DECISIONE Il giudice di primo grado, valutando positivamente gli elementi indiziari forniti dalla curatela fallimentare, ritenuti dotati di intrinseca rilevanza, e scartando quelli non significativi indicati dalla società convenuta,
ricava dalla loro valutazione complessiva la prova presuntiva che la stipula del contratto preliminare di compravendita sia assolutamente fittizia.
Il compito del giudice di secondo grado è quello di valutare le critiche articolate dalla società appellante nei motivi di impugnazione rispetto al ragionamento del giudice di prime cure, sia nella scelta e nella valutazione analitica degli elementi indiziari, sia nella loro valutazione complessiva.
Orbene, gli elementi indiziari valorizzati dal giudice di primo grado possono essere riuniti in tre gruppi:
quelli riferibili alle condizioni economico-patrimoniali della promissaria acquirente (la società , incompatibili con la volontà di acquistare il capannone industriale locato;
quelli che evidenziano il ruolo svolto da in entrambe le società, quale amministratore unico della promittente venditrice e cogestore di fatto della promissaria acquirente;
quelli relativi al dato temporale e alle anomalie nel versamento della caparra.
Quanto al primo gruppo, si è considerato che la società non aveva, né la capacità economica, né l’interesse ad acquistare il capannone industriale, sia perché non aveva i fondi che servivano per pagare il saldo del prezzo (pari ad € 120.000,00), sia perché versava in una situazione di piena crisi aziendale e aveva cessato di fatto la sua attività.
Su questi punti, l’appellante contesta, sia lo stato di dissesto della promissaria acquirente, sia la cessazione di fatto delle attività.
Sostiene che la società era un’azienda “redditizia e patrimonialmente solida”, come affermato dalla consulenza contabile della curatela e dalla documentazione dalla stessa prodotta, e aveva nel 2015 un volume d’affari superiore ai sei milioni di euro e un utile di quasi centosessantamila euro;
la sua attività non era affatto cessata ed è proseguita le quali confermano che, almeno sino al 31.12.2016, la società ha regolarmente incassato somme e pagato i propri fornitori.
Osserva la Corte che il contratto preliminare indica la data di stipula del 1.8.2016 (non certa riguardo ai terzi) e che un mese dopo è intervenuto il decreto del G.i.p. del Tribunale di Salerno che ha disposto il sequestro penale (ottobre 2016) dei beni e dei conti della società promissaria acquirente sino alla concorrenza di € 2.003.055,43.
Dai verbali delle operazioni compiute dalla polizia giudiziaria in esecuzione del decreto di sequestro risultava l’esistenza di due conti correnti della società presso il Monte Paschi di Siena con saldi negativi e di un conto presso la con un saldo positivo di soli € 383,48;
la società, inoltre, era priva di beni mobili ed immobili, ad eccezione di tre autoveicoli, di cui due acquisiti all’attivo fallimentare per un valore stimato di € 2.200,00.
Da ciò si desume che alla data (non certa) di stipula del contratto preliminare (1.8.2016) la società promissaria acquirente non aveva beni, né mobili (salvo due vecchi veicoli), né immobili.
Disponeva solo di una liquidità di € 80.000,00 che ha trasferito alla svuotando le casse della società, con i due bonifici bancari di agosto e settembre 2016.
Non solo, la società già versava in uno stato di insolvenza, poiché non era in grado di far fronte alla consistente massa debitoria da cui era gravata.
Da un lato, infatti, non aveva beni, né altra liquidità;
dall’altro lato, aveva consistenti debiti, poi ammessi al passivo del fallimento in privilegio per € 5.427.977,71 e in chirografo per € 1.010.573,52 (oltre insinuazioni tardive).
Queste conclusioni non perdono di significato per il fatto, accertato dal consulente tecnico della procedura fallimentare (dott.ssa ), che la società, nonostante il sequestro penale, ha successivamente continuato a gestire un altro conto corrente con apertura di credito per anticipi su fatture, aperto in data 25.7.2016 presso la filiale di Mercato San Severino di ed estinto in data 12.1.2017 con un saldo debitore di € 119.282,36 per il conto ordinario ed € 33.728,93 per il conto anticipi.
Su questo conto la banca ha erogato sovvenzioni in base ad un finanziamento per esecuzione di disposizioni di pagamenti verso l’estero dell’importo massimo di € 150.000,00 accordato in data 26.7.2016.
Tutto ciò dimostra, al più, che con il nuovo rapporto bancario la società già in dissesto ha continuato ad utilizzare ulteriore credito bancario, incrementando la massa dei Il quadro della situazione reale, perciò, non era quello di un’azienda “redditizia e patrimonialmente solida” come sostiene l’appellante sulla base dei dati dell’ultimo bilancio (al 31.12.2015) depositato presso il registro delle imprese e della relazione del consulente della procedura fallimentare.
Quest’ultima, infatti, si basa solo sui dati dell’ultimo bilancio al 31.12.2015, non riscontrati né aggiornati, dal momento che la società non si è costituita nel procedimento prefallimentare, non ha depositato scritture contabili e bilanci neppure dopo la dichiarazione di fallimento ed il curatore, come risulta dalla relazione ex art. 33 l. fall., non è riuscito ad acquisire le scritture contabili.
Non tiene conto, poi, che l’attivo (€ 101.444 per immobilizzazioni ed € 813.583 per attivo circolante) e i debiti (€ 230.970) registrati nel bilancio al 31.12.2015 non corrispondono affatto alla reale condizione patrimoniale della società al momento del sequestro penale (mancanza totale di beni mobili e immobili e di liquidità bancaria) e al momento della dichiarazione di fallimento (i crediti ammessi al passivo sono oltre sei milioni e mezzo di euro).
Inoltre, se in generale è vero, come sostiene l’appellante, che “l’acquisto da parte di una azienda dell’immobile condotto in locazione per lo svolgimento dell’attività costituisce una scelta più’ che ragionevole”, non è, però altrettanto vero che la promessa di acquistare possa ragionevolmente provenire da una società insolvente, priva di beni patrimoniali, piena di debiti e in grado di pagare solo una caparra esattamente corrispondente alle sue residue disponibilità liquide.
Risultano, così, confermati gli indizi economico-patrimoniali della simulazione del contratto preliminare di compravendita, a mezzo del quale la società in stato di insolvenza ha trasferito tutta la sua liquidità ad altra società, sottraendo ai creditori il suo residuo patrimonio.
Quanto al secondo gruppo di indizi, il giudice di prime cure evidenzia la relazione di parentela tra l’amministratore unico della ) e quello della ), la disponibilità da parte di quest’ultimo della carta di credito della con la quale effettuava prelievi, la residenza di presso lo stesso indirizzo della cessata unità secondaria della (in Solofra alla INDIRIZZO.
Sotto tale aspetto, l’appellante contrasta presunte interferenze nell’amministrazione della di cui non è mai stato pagamento di spese (biglietti aerei, carburante, generi alimentari, parcheggi ecc.), di importo totale inferiore ai 4.000 euro in un periodo di alcuni mesi, da settembre 2016 a febbraio 2017.
Contesta gli altri elementi indiziari relativi ai rapporti di con la società fallita, ritenendoli non supportati da prove, quali l’esistenza di “numerosi bonifici in suo favore”, il “rapporto di parentela”, la coincidenza della sua residenza con una sede secondaria della e le dichiarazioni rese dall’amministratore della fallita ( al curatore sulla co- gestione della società fallita.
Ebbene, gli indizi che rivelano la presenza di , amministratore unico della promittente venditrice, anche nella gestione della promissaria acquirente sono stati ricavati dal giudice di primo grado dalla documentazione bancaria acquisita dal curatore fallimentare (che evidenzia numerose operazioni di prelievo con la carta di credito in uso alla società fallita, effettuate da ) e dalle dichiarazioni rese al curatore dall’amministratore unico della che ha sottoscritto il contratto preliminare, In realtà, ha reso informazioni tra loro contrastanti nei colloqui avuti con il curatore fallimentare il 23.3.2018, il 13.7.2018 e il 27.9.2018. Prima ha affermato che ha sempre gestito direttamente gli affari societari, senza interessamento o ingerenze di terzi.
Poi ha riferito che, quando è diventato legale rappresentante della (nel 2014) si è rivolto a “persona che conoscevo e di cui avevo fiducia” e padre di che nel corso degli anni novanta era stato legale rappresentante della società, “richiedendogli aiuto per lo svolgimento del mio compito gestionale”;
che lo ha accompagnato presso la banca ove hanno aperto il conto corrente intestato alla e chiesto il rilascio della carta di credito;
che il era il secondo firmatario e, perciò, aveva pieni poteri nella movimentazione della carta di credito intestata alla che non ha mai controllato le movimentazioni effettuate dal , né ha mai verificato gli estratti conto relativi alla carta di credito.
In seguito, ha dichiarato che la ha intrattenuto saltuari rapporti con il , al quale ha corrisposto compensi per l’attività di procacciatore di affari per conto della società.
Al di là delle sue dichiarazioni altalenanti, alcune circostanze che confermano la presenza di nella società fallita hanno un riscontro documentale.
estratti conto della carta di credito confermano che la maggioranza delle operazioni sono state effettuate con la carta riferibile al medesimo.
Né ha un significato la considerazione dell’appellante, secondo cui “il avrebbe potuto attribuirsi somme ben maggiori se effettivamente avesse avuto accesso alla gestione della società fallita”, dal momento che, con i due bonifici effettuati in favore della sua società, i conti della sono stati svuotati.
L’altra circostanza documentata riguarda la reale sede operativa della presso la sede locale in Solofra, alla INDIRIZZO (mentre la sede legale di Salerno, INDIRIZZO corrispondeva allo studio del consulente fiscale), chiusa dopo il sequestro penale nel 2016.
Si tratta, non solo dello stesso indirizzo di residenza di figlio di (che negli anni novanta era stato amministratore unico della ed attualmente è amministratore unico della società appellante, come risulta dall’atto di appello), ma anche della stessa unità locale di un’altra società fallita (la RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita dal Tribunale di Avellino in data 4.6.2002), di cui era socio con il figlio amministratore unico.
Trovano conferma, infine, gli altri dati sospetti evidenziati dal primo giudice (terzo gruppo).
Sia quello temporale (la fuoriuscita di tutte le disponibilità liquide sul conto della società, con i due bonifici del 9 agosto e del 2 settembre, pochi giorni prima che intervenisse il sequestro penale dei conti e delle quote societarie), sia l’anomalia della dichiarazione di rilascio da parte della promissaria acquirente di “ampia ricevuta” dei due bonifici di € 40.000,00 in un contratto preliminare che reca una data anteriore ai bonifici.
La circostanza, poi, che nel contratto preliminare si affermi che il prezzo “verrà pagato” con le modalità ivi previste, compresi i due bonifici bancari, non smentisce, bensì conferma l’anomalia della dichiarazione di ricevuta di un pagamento che, stante la data del preliminare, non era stato ancora effettuato.
In conclusione, la valutazione unitaria e complessiva degli elementi indiziari consente di affermare:
che il contratto preliminare è stato sottoscritto da due società collegate tra loro dalle figure del padre (amministratore unico della promittente venditrice, al quale l’amministratore unico della promissaria acquirente, , aveva dato libero accesso al conto della società con il rilascio della carta di credito supplementare) e del figlio (che è stato insolvenza (era gravata da consistenti debiti, non possedeva beni mobili, salvo un paio di vecchi veicoli, né beni immobili, e disponeva solo di una liquidità di € 80.000,00) e, perciò, non aveva, né la capacità economica, né l’interesse ad acquistare il capannone industriale; che la stipula del contratto preliminare ha fornito la giustificazione della fuoriuscita dalla società insolvente anche della liquidità residua, mediante i due bonifici, poco prima che intervenisse il sequestro penale dei conti;
che, dopo il sequestro penale, la società ha continuato ad operare con il conto della utilizzando la nuova linea di credito concessa dalla banca con l’effetto di aggravare il dissesto, incrementando la già consistente massa debitoria.
Tutto ciò conferma la natura assolutamente fittizia del contratto preliminare che, secondo la prospettazione data dalla curatela nell’atto introduttivo di primo grado, aveva il solo scopo di distrarre somme di denaro dalla società in stato di dissesto e prossima al fallimento.
L’intera operazione (sottoscrizione di un contratto preliminare simulato e prelievo della somma di € 80.000,00 con i due bonifici) aveva l’obiettivo di trasferire la somma di € 80.000,00 dalla società in dissesto (simulata promissaria acquirente) alla società (simulata promittente venditrice), giustificando l’operazione come pagamento dell’acconto sul prezzo della futura vendita e versamento di caparra confirmatoria, poco prima che intervenisse il sequestro penale dei conti.
Le somme sarebbero state trattenute dalla a seguito della (finta) risoluzione del contratto preliminare (simulato) per inadempimento della società promissaria acquirente (simulata), realizzatasi di diritto con la scadenza del termine per la diffida ad adempiere.
Di qui il rigetto dell’appello e la condanna dell’appellante al rimborso delle spese processuali di secondo grado, che si liquidano come in dispositivo, tenuto conto dei parametri stabiliti con decreto del Ministro della Giustizia 13 agosto 2022, n. 147 (valore € 80.000,00), non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dall’art. 92, comma 2, c.p.c., la loro compensazione.
L’ammissione del al patrocinio a spese dello Stato comporta il pagamento degli onorari per l’intero in favore dello Stato, a norma dell’art. 133 del D.P.R. n. 115 del 2002, senza la riduzione della metà ex art. 130, che sarà operata, invece, sulla liquidazione al difensore.
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione (c.d. doppio contributo).
PQM
La Corte di Appello di Salerno, prima sezione civile, definitivamente decidendo in grado di appello nella causa civile iscritta al R.G. n. 1183/2023, così provvede:
1. rigetta l’appello;
2. condanna la società al rimborso delle spese processuali del grado di appello in favore del che liquida in € 7.000,00 per onorari di difesa, oltre il rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% degli onorari, Cnap ed Iva come per legge, con pagamento a favore dello Stato.
Dà atto, a norma dell’art 13, comma 1 quater, del d.P.R. 115/02, della sussistenza del presupposto processuale per il pagamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Salerno lì 08/11/2024
Il Consigliere estensore Il Presidente (dott. NOME COGNOME (dott.ssa NOME COGNOME
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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