REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di CIVITAVECCHIA
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa, ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 1200/2020 pubblicata il 18/12/2020
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. /2014 promossa da:
XXX (), in persona del legale rappresentante pro tempore, *** (), YYY () e ZZZ (), tutti elettivamente domiciliati in con l’avv. e l’avv., dai quali rappresentati e difesi giusta procura a margine dell’atto di citazione
ATTORI
contro
BANCA KKK SPA (), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. con l’avv., dal quale rappresentato e difeso giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta
CONVENUTO
JJJ S.R.L. (), in persona del legale rappresentante pro tempore, con il patrocinio dell’avv. e dell’avv., elettivamente domiciliato in giusta procura allegata alla comparsa di intervento
INTERVENUTO
OGGETTO: Contratti bancari(deposito bancario, etc)
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
1. La XXX di *** & C. s.a.s., ***, YYY e ZZZ hanno convenuto in giudizio la Banca KKK s.p.a. al fine di ottenere la restituzione delle somme indebitamente pagate in esecuzione dei contratti di conto corrente ordinario n. e di conto corrente anticipi n., intestati alla XXX di *** & C. s.a.s. e garantiti dalle fideiussioni prestate da ***, YYY e ZZZ, previa declaratoria di nullità degli stessi per usura, anatocismo, indeterminatezza delle condizioni peggiorative applicate unilateralmente dalla Banca nel corso del rapporto, difetto di causa della commissione di massimo scoperto e applicazione del sistema di valute fittizie, il tutto oltre alla declaratoria di illegittimità del recesso esercitato dalla Banca e al risarcimento del danno derivato dai fatti illeciti integrati dalle ipotesi di nullità prospettate.
Si è costituita Banca KKK s.p.a., eccependo preliminarmente l’improcedibilità della domanda per mancato espletamento del tentativo di mediazione e contestando puntualmente le avverse deduzioni ed eccezioni nel merito; inoltre, la convenuta ha eccepito l’inammissibilità della domanda di ripetizione in caso di conti aperti e, in ogni caso, la prescrizione della stessa.
È stato espletato il tentativo di mediazione con esito negativo e la causa, di natura documentale, è stata trattenuta in decisione all’udienza di precisazione delle conclusioni del 17.9.2020.
Nelle more, con comparsa depositata in data 11.9.2020, ha spiegato intervento in giudizio ai sensi dell’art. 111 c.p.c. JJJ s.r.l. quale cessionaria del credito derivante dal rapporto oggetto di causa in capo alla KKK s.p.a. in data 23.12.2019.
2. La domanda attorea è infondata per i motivi che seguono.
Va anzitutto premesso che la domanda attorea è volta ad ottenere la restituzione dell’indebito asseritamente versato nel corso dei rapporti di conto corrente e finanziamento, per cui, in applicazione delle ordinarie regole di riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., spetta agli attori l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, ovvero: 1) la non debenza dei versamenti (nel caso di specie ricondotta alle questioni di nullità sollevate da parte attrice); 2) l’avvenuto pagamento delle somme di cui si chiede la restituzione ex art. 2033 c.c..
Sotto quest’ultimo profilo, deve ritenersi che parte attrice era quindi onerata dell’allegazione e della prova di aver eseguito il pagamento delle rimesse di natura solutoria eseguite sui conti correnti.
Invero, va ricordato che alla luce di un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, cristallizzato nella nota pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 24418/2010, le rimesse effettuate dal correntista nel corso del rapporto non possono essere considerate quali pagamenti ai fini dell’azione di ripetizione di indebito, salvo che sabbiano natura strictu sensu solutoria perché effettuate oltre i limiti del fido concesso o in assenza di fido. Pertanto, in caso di rimesse meramente ripristinatorie della disponibilità di credito sul conto, l’azione di ripetizione potrà essere esercitata solo alla chiusura del conto stesso, quando la Banca avrà effettivamente riscosso il saldo finale, nel computo del quale risultino comprese le somme non dovute.
A tal fine, per chiarezza espositiva, è utile riportare uno stralcio della sentenza Cass. civ. n. 798 del 15/01/2013: “le Sezioni unite di questa Corte (sentenza 2 dicembre 2010, n. 24418) – affrontando la questione dell’individuazione del dies a quo della prescrizione dell’azione di ripetizione del cliente verso la banca con riguardo ad interessi che si assumevano, come nella specie, indebitamente corrisposti in relazione ad un’apertura di credito in conto corrente bancario – hanno fatto riferimento alla nota distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca (cfr. Cass. 6 novembre 2007, n. 23107; e Cass. 23 novembre 2005, n. 24588), al fine di stabilire se (e quando) sia o meno configurabile un pagamento, asseritamente indebito, da cui possa scaturire una pretesa restitutoria ad opera del solvens. In tale prospettiva è stato osservato che, se pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, è indubbio che non vi sia stato alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato; nel caso, invece, che, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto “scoperto” (cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento) e non, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere. Invero l’annotazione in conto di una posta di interessi (o di c.m.s.) illegittimamente addebitati dalla banca al correntista comporta un incremento del debito dello stesso correntista, o una riduzione dei credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nel senso che non vi corrisponde alcuna attività solutoria nei termini sopra indicati in favore della banca; con la conseguenza che il correntista potrà agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa (allo scopo eventualmente di recuperare una maggiore disponibilità di credito, nei limiti del fido accordatogli), ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto”.
Nel caso di specie, in applicazione dei principi di diritto sin qui richiamati, trattandosi di rapporti ancora in essere, parte attrice era quindi onerata dell’allegazione e della prova di aver eseguito i versamenti volti a ripianare lo scoperto di conto corrente per superamento del limite di affidamento (solutori), distinguendoli dai versamenti eseguiti al solo fine di ripristinare la provvista (che come detto non sono ripetibili in costanza di rapporto).
La domanda restitutoria risulta tuttavia carente sotto tale profilo sia in punto di allegazione che di prova e merita per ciò solo di essere rigettata.
Invero, in mancanza di allegazione dei pagamenti eseguiti, non può neppure applicarsi il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., il quale comporta che la parte onerata sia esonerata dalla dimostrazione di quei fatti e circostanze che, sebbene allegati, non siano stati specificatamente contestati dalla parte costituita (cfr. Cass. civ. n. 31619 del 06/12/2018: “Il principio di non contestazione opera in relazione a fatti che siano stati chiaramente esposti da una delle parti presenti in giudizio e non siano stati contestati dalla controparte che ne abbia avuto l’opportunità”).
Tali lacune non possono neppure colmarsi a mezzo di CTU che, come è noto, non è un mezzo di prova nella disponibilità delle parti ma uno strumento di ausilio al Giudice per la valutazione di dati già acquisiti al processo.
Sul punto, va ricordato che la Suprema Corte, proprio in materia di controversie di diritto bancario come quella che ci occupa, ha di recente ribadito che ha natura esplorativa la consulenza finalizzata alla ricerca di fatti, circostanze o elementi non provati dalla parte che li allega, ma non la consulenza intesa a ricostruire l’andamento di rapporti contabili non controversi nella loro esistenza, ipotesi questa che ricorre «quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo in questo caso consentito al c.t.u. anche di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse» (Cass. civ. del 23/02/2016 n. 5091, che richiama in termini Cass. civ. del 14/02/2006, n. 3191).
Nel caso di specie, posto che il pagamento delle somme di cui si chiede la restituzione ai sensi dell’art. 2033 c.c. integra un fatto costitutivo della domanda, come sopra precisato, e rilevato che l’accertamento dello stesso non richiede particolari cognizioni tecniche, la richiesta CTU deve ritenersi esplorativa.
3. Ciò posto, va comunque esaminata la domanda di nullità parziale dei contratti secondo quanto dedotto da parte attrice, in quanto avente autonoma rilevanza sotto il profilo dell’interesse ad agire (nel senso che deve comunque ritenersi sussistente l’interesse di parte attrice alla declaratoria di nullità del contratto, indipendentemente dall’infondatezza della domanda di ripetizione dell’indebito che ne consegue), trattandosi di rapporti ancora in corso al momento dell’introduzione della domanda.
In primo luogo, va rilevato che i contratti in questione (prodotti dalla Banca convenuta – doc. 2 e 3 del fascicolo di parte) contengono l’espressa previsione del tasso di interesse applicato, della commissione di massimo scoperto e dei giorni di valuta, con la conseguenza che non si ravvisano profili di nullità in tal senso. I contratti prevedono altresì l’espressa indicazione del potere della Banca di variare unilateralmente i tassi e delle condizioni contrattuali, nel rispetto dell’art. 118 TUB, con clausola specificamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c..
Anche tale doglianza appare dunque infondata.
Inoltre, va osservato che la commissione di massimo scoperto ha per certo una sua causa legittima in quanto, come pure riconosciuto dalla corte di legittimità, costituisce la remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma (cfr. Cass. n. 870/2006): la commissione in parola si risolve, quindi, nel corrispettivo che il finanziatore pretende e percepisce per la concessione della mera possibilità di utilizzo del denaro.
Pertanto, non si ravvisa l’invocata ipotesi di nullità della CMS.
4. Circa la questione dell’usura, va anzitutto rilevato che parte attrice non ha prodotto in giudizio i decreti ministeriali da cui desumere il valore del tasso soglia rilevante in relazione al periodo di conclusione del contratto e la questione di nullità ex art. 1815 c.c. merita per ciò solo di essere rigettata.
La giurisprudenza ha infatti da tempo chiarito che la mancata produzione in giudizio dei decreti ministeriali di rilevazione del tasso soglia impedisce l’accoglimento della questione di nullità sollevata con riferimento all’usura, trattandosi di atti amministrativi estranei dall’ambito di applicazione del principio iura novit curia di cui all’art. 113 cod. proc. civ., che va coordinato con l’art. 1 delle disp. prel. al cod. civ., il quale non comprende detti atti nelle fonti del diritto (Cass. civ. n. 8742 del 26/06/2001).
Inoltre, con specifico riferimento alla nullità di clausole che prevedono interessi usurari, la Corte di legittimità in una recente pronuncia, ha affermato che “il rilievo d’ufficio non si estende alla ricerca, d’ufficio, degli elementi di prova di interessi anatocistici o usurari. Correttamente, pertanto, il giudice rigetta la domanda dell’opponente per non avere l’opponente stesso fornito alcuna prova in merito, evidenziando che la sola richiesta di una consulenza contabile non può esentare la parte dall’onere della prova” (Cass. n. 2072/2014).
A ciò si aggiunga, quanto alla contestazione circa la pretesa usurarietà del tasso di interesse pattuito, che parte attrice ha ricostruito il tasso effettivo globale, da confrontare con il tasso soglia, ricomprendendovi anche la percentuale dovuta a titolo di commissione di massimo scoperto.
Sul punto, va osservato che l’art. 2-bis, comma 2, del d.l. n. 185 del 2008 (convertito dalla l. n. 2 del 2009), che attribuisce rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c., dell’art. 644 c.p. e degli artt. 2 e 3 della l. n. 108 del 1996, agli interessi, alle commissioni e alle provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’uso dei fondi da parte del cliente, non ha carattere interpretativo ma innovativo, e non trova pertanto applicazione retroattiva con riferimento ai rapporti esauritisi in data anteriore all’entrata in vigore della legge di conversione, con la conseguenza che, in riferimento a tali rapporti, la determinazione del tasso effettivo globale, ai fini della valutazione del carattere usurario degli interessi applicati, deve aver luogo senza tener conto della commissione di massimo scoperto. Tale conclusione, già espressa dalla giurisprudenza della Suprema Corte a sezioni semplici (il riferimento è a Cass. civ. n. 22270 del 03/11/2016) è stata avallata dalla sentenza n. 16303 del 20/06/2018 emessa a Sezioni Unite di cui è utile riportare la massima: “In tema di contratti bancari, con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore all’entrata in vigore (il 1 gennaio 2010) delle disposizioni di cui all’art. 2 bis del d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) degli interessi praticati in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata, rispettivamente con il “tasso soglia” – ricavato dal tasso effettivo globale medio (TEGM) indicato nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della predetta l. n. 108 del 1996 – e con la “CMS soglia” – calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media pure registrata nei ridetti decreti ministeriali -, compensandosi, poi, l’importo dell’eccedenza della CMS applicata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con l’eventuale “margine” residuo degli interessi, risultante dalla differenza tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati”.
Le conclusioni di parte attrice, laddove muovono dal presupposto della ricostruzione del TEG comprendendovi anche la commissione di massimo scoperto per tutta la durata del rapporto e dunque anche per il periodo antecedente all’entrata in vigore della L. 2/2009, si pongono in contrasto con i predetti principi e vanno quindi disattese.
Deve poi essere esclusa la configurabilità dell’usura soggettiva, atteso che parte attrice non ha dato alcuna prova della sussistenza delle condizioni previste dall’art. 644 c.p. per l’integrazione del reato di usura, ossia in primis della concreta sussistenza di una condizione di difficoltà economica e finanziaria in capo al correntista.
5. Quanto all’anatocismo, va rilevato che i contratti di conto corrente e conto anticipi per cui è causa risultano conclusi rispettivamente il 9.7.2002 e il 4.4.2006 (cfr. documenti 2 e 3 del fascicolo di parte convenuta) e dunque sono entrambi soggetti alla disciplina introdotta dall’art. 25 del d.lgs. 342/1999 (art. 120 TUB come novellato) e dall’art. 2 della delibera CICR del 9.2.2000 (in vigore dal 22 aprile 2000) – che stabiliscono la validità dell’anatocismo purché l’addebito e l’accredito degli interessi avvenga a tassi e con periodicità contrattualmente stabiliti e con la medesima periodicità per gli interessi creditori e debitori. In altre parole, la disciplina normativa applicabile ratione temporis al contratto per cui è causa legittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, purché sia prevista la pari periodicità di capitalizzazione per gli interessi attivi.
Nel caso di specie, le condizioni contrattuali relative ad entrambi i conti contengono l’espressa previsione che “I rapporti di dare e avere relativi al conto, sia esso debitore o creditore, vengono regolati con identica periodicità”; in effetti, le condizioni economiche riportate nel documento di sintesi contengono l’espressa previsione della periodicità trimestrale della capitalizzazione, riferita sia agli interessi attivi che a quelli passivi.
I contratti risultano quindi conformi alla disciplina sopra richiamata sotto il profilo dell’anatocismo.
6. L’infondatezza della tesi attorea con riferimento ad usura e anatocismo determina altresì il rigetto delle ulteriori domande (declaratoria di illegittimità del recesso esercitato dalla Banca e risarcimento del danno), avanzate appunto sul presupposto (disatteso) della sussistenza delle ipotesi di nullità prospettate.
7. Gli odierni attori hanno poi chiesto, nelle conclusioni dell’atto di citazione, la liberazione dei fideiussori ai sensi dell’art. 1956 c.c..
In proposito, va ricordato che il fideiussore che chiede la liberazione della prestata garanzia, invocando l’applicazione dell’art. 1956 cod. civ., ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., l’esistenza degli elementi richiesti a tal fine, e cioè che successivamente alla prestazione della fideiussione per obbligazioni future, il creditore, senza la sua autorizzazione, abbia fatto credito al terzo pur essendo consapevole dell’intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche (Cass. civ. n. 2524 del 07/02/2006).
Peraltro, in tema di liberazione del fideiussione, l’autorizzazione di cui all’art. 1956 c.c. non è configurabile come accordo “a latere” del contratto bancario cui la garanzia accede, sicché non richiede la forma scritta “ad substantiam” e può essere ritenuta implicitamente e tacitamente concessa dal garante, in applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti, laddove emerga perfetta conoscenza, da parte sua, della situazione patrimoniale del debitore garantito. (cfr. Cass. civ. n. 4112 del 02/03/2016: nella specie, la S.C. ha confermato le decisione impugnata, che aveva considerato irrilevante la mancata richiesta della suddetta autorizzazione da parte della banca, atteso che la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi comune a debitore e fideiussore, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale tra essi esistente e dello stato di loro convivenza).
Ciò posto, nel caso di specie non è stata fornita alcuna prova dell’assunto posto alla base della doglianza in esame, che pertanto non può trovare accoglimento.
8. Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo in applicazione dei parametri di cui al d.m. 55/2014, tenuto conto della durata del processo e della quantità e qualità dell’attività difensiva svolta, nonché degli altri criteri stabiliti dall’art. 4, comma 1 del citato decreto, in rapporto ai parametri di liquidazione propri dello scaglione di valore proprio della controversia.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così decide:
– rigetta la domanda attorea;
– condanna gli attori, in solido tra loro, al pagamento in favore della parte convenuta delle spese di lite, che liquida in complessivi € 5.355,00 per compensi, oltre spese generali, Iva e Cpa come per legge.
CIVITAVECCHIA, 18 dicembre 2020
Il Giudice
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Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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