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Codice Penale

Trasferimento d’azienda, continuità di un rapporto di lavoro

Soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato.

Pubblicato il 02 January 2022 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di Milano, sezione lavoro, composta da:

ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 1586/2021 pubblicata il 23/12/2021

nella causa civile, in grado di appello, iscritta al n. R.G. 1121/2021, avverso la sentenza n. 697/2021, del Tribunale di Milano, Dott.ssa, promossa da:

XXX S.P.A. (C.F. e P.IVA), in persona del legale rappresentante protempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti

APPELLANTE

C/

YYY, (C.F.) rappresentato e difeso dagli Avv.ti

APPELLATO

I procuratori delle parti, come sopra costituiti, così precisavano le

CONCLUSIONI

PER L’APPELLANTE

In riforma della sentenza n. 697/2021 del Tribunale di Milano,

1. revocare e/o annullare il decreto ingiuntivo opposto nel primo grado di questo giudizio;

2. rigettare in ogni caso tutte le domande ex adverso proposte in sede monitoria e/o nella successiva fase di opposizione per tutti i motivi in narrativa, dichiarando in ogni caso che XXX s.p.a. non è tenuta a effettuare i pagamenti richiesti dal Lavoratore, ovvero in subordine ridurre il quantum richiesto in via monitoria e/o nella successiva fase di opposizione dal Lavoratore nella misura ritenuta di giustizia;

3. con vittoria di spese, diritti e onorari di entrambi i gradi di giudizio.

PER L’APPELLATO

1. respingere l’appello avversario;

2. condannare l’appellante al rimborso di diritti ed onorari (oltre rimborso spese generali, IVA e CPA) e delle spese tutte del presente grado di giudizio.

FATTO E DIRITTO

Con il ricorso di primo grado XXX s.p.a. ha agito davanti il Tribunale di Milano, quale Giudice del Lavoro, proponendo tempestiva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1118/2020 in forza del quale, su richiesta di YYY, il predetto Tribunale aveva ordinato il pagamento dell’importo di euro 70.812,96 a titolo di retribuzioni maturate a favore di quest’ultimo, in forza della sentenza del Tribunale di Torino n. 845/2019, con cui il subingresso (a partire dal 1° gennaio 2016) di *** s.r.l. nel rapporto di lavoro de quo, precedentemente in essere con XXX, era stato ritenuto non conforme all’art. 2112 c.c.

Si è costituito in giudizio YYY contestando in fatto e in diritto l’opposizione avversaria di cui ha chiesto il rigetto.

Il Tribunale con sentenza n. 697/2021, attenendosi alle motivazioni della sentenza n. 29/2019 della Corte Costituzionale e delle sentenze della Suprema Corte di Cassazione nn. 17784, 17785, 17786 e 26759/2019, ha rigettato l’opposizione condannando XXX S.p.A. al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale sentenza ha proposto appello XXX Spa per i seguenti motivi.

Con il primo motivo, denuncia l’erroneità della sentenza impugnata per avere qualificato in termini retributivi, anziché risarcitori, l’obbligazione in capo all’ex-datore di lavoro cedente.

L’appellante non ritiene condivisibile l’opzione interpretativa che configura l’obbligazione in capo al cedente inadempiente rispetto all’obbligo di ripristino del rapporto in termini retributivi, essendo per converso corretto quel diverso (e di per sé comunque recente) orientamento della Cassazione secondo cui «in caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall’ammontare del risarcimento» (Cass. 25 giugno 2018, n. 16694; In senso analogo Cass. 9 settembre 2014 n. 18955, Cass. 30 maggio 2016 n. 11095, Cass. 26 giugno 2014 n. 14542, Cass. 17 luglio 2008 n. 19740).

Che di risarcimento e non di retribuzione si debba parlare è comprovato dalla assorbente considerazione che, stante la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro e stante la nozione di retribuzione ricavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094, 2099), il diritto a percepirla sussiste solo in ragione e in proporzione della eseguita prestazione lavorativa, costituendo essa controprestazione, appunto, rispetto alla esecuzione effettiva della prestazione di lavoro.

Del resto tali principi interpretativi trovano piena conferma in una pure recente pronuncia della Consulta resa su una questione assimilabile a quella in esame, ossia quella dell’eventuale inadempimento datoriale alla sentenza di reintegrazione a seguito della declaratoria di licenziamento illegittimo.

E infatti la Corte Costituzionale, con la sentenza 23 aprile 2018 n. 86, ha dichiarato pienamente conforme al dettato costituzionale l’art. 18, comma 4, della l. 300/70 nella parte in cui esso attribuisce natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dall’emissione della condanna di reintegrazione nel posto di lavoro e fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa.

In entrambi i casi, infatti: (1) il datore di lavoro, pur in presenza di una sentenza che ordina la ricostituzione del rapporto, non riammette il prestatore al lavoro; (2) il lavoratore offre al datore la propria prestazione; (3) il lavoratore medesimo, in attesa del ripristino del rapporto, presta la sua opera in favore di terzi.

Vi è poi un’ulteriore ragione di erroneità dell’orientamento interpretativo fatto proprio dalla sentenza di primo grado che insiste sul profilo delle conseguenze derivanti dalla comunicazione stragiudiziale con cui il lavoratore illegittimamente “ceduto” offre la prestazione lavorativa dopo la sentenza di ripristino del rapporto alle dipendenze del cedente.

Ad avviso dell’appellante, l’art. 1207 c.c., nel disciplinare proprio gli effetti della mora del creditore, stabilisce al primo comma che è a carico del creditore l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, il che è all’evidenza cosa ben diversa dal diritto del debitore a ricevere la controprestazione.

La riprova, ad avviso dell’appellante, è data dal disposto del secondo comma dell’art. 1207 c.c., il quale prevede testualmente che «il creditore è pure tenuto a risarcire i danni derivanti dalla sua mora».

In altri termini, anche la qualificazione di XXX quale creditore moroso nel ricevere la prestazione di lavoro, ai sensi dell’art. 1207 c.c., legittimerebbe al più la lavoratrice a ricevere un risarcimento del danno, ma non a ricevere la retribuzione, peraltro nella sua interezza.

Ulteriore errore è ravvisabile nell’orientamento giurisprudenziale fatto proprio dalla sentenza impugnata che richiama anche l’esigenza di predisporre un «deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestare a lavorare» (così Cass. n. 17784/19 e Cass.  1785/19).

Ma si tratta di un argomento del tutto inidoneo a sostenere validamente la tesi del diritto retributivo “pieno” in capo al lavoratore non riammesso in servizio, come comprovato ancora una volta dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 86/2018 la quale ha ritenuto che il meccanismo risarcitorio fosse pienamente conforme alle esigenze di effettività del comando giudiziale di reintegrazione. In sostanza non si vede perché mai un obbligo risarcitorio possa essere ritenuto «deterrente idoneo» a indurre il datore di lavoro a dare esecuzione a una sentenza di reintegra per declaratoria di illegittimità del licenziamento, e non dovrebbe invece essere «deterrente idoneo» a indurre il cedente a dare esecuzione alla sentenza di riammissione in servizio per ritenuta illegittima cessione del contratto di lavoro ex art. 2112 c.c.

Nella denegata ipotesi in cui si dovesse ritenere ormai formatosi un c.d. diritto vivente nel senso affermato dal primo Giudice, l’appellante chiede che la Corte di appello voglia sollevare questione legittimità di costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 2043, 2094 e 2099 e 2112 c.c.in relazione agli artt. 3, 24, 36 e 111 Cost. per come interpretati dalla giurisprudenza più recente di merito e di legittimità, condivisa dalla sentenza impugnata.

E infatti la configurazione in termini di obbligazione retributiva piena dell’obbligazione in capo al cedente inadempiente rispetto all’ordine giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro, di cui il lavoratore abbia richiesto l’esecuzione:

– si pone in contrasto con il canone di proporzionalità di cui all’art. 36 Cost. e con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nella misura in cui il lavoratore avrebbe diritto a percepire dal cedente una retribuzione piena senza prestare alcuna attività lavorativa, ossia nella medesima misura di qualsiasi altro lavoratore alle dipendenze del cedente che invece, a parità di mansioni, renda effettivamente prestazione;

– configurerebbe una manifesta disparità di trattamento con la situazione, sostanzialmente analoga, del lavoratore illegittimamente licenziato beneficiario di un ordine giudiziale di reintegrazione che non venga effettivamente richiamato in servizio dal datore di lavoro. E infatti in questo caso stando a quanto ribadito di recente dalla Corte Costituzionale, il lavoratore avrebbe diritto non già al pagamento della retribuzione, bensì al risarcimento del danno, riducibile per effetto del meccanismo del c.d. aliunde perceptum et percipiendum;

– configurerebbe una manifesta disparità di trattamento anche con la generalità delle situazioni che possono verificarsi nell’ambito del diritto civile, in cui tra gli effetti della mora del creditore non c’è quello della permanenza del diritto alla controprestazione da parte del debitore.

Con il secondo motivo XXX S.p.A. denuncia l’erroneità della sentenza di primo grado per avere ritenuto l’esistenza del diritto rivendicato da controparte.

Ad avviso dell’appellante, sia la Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 7 febbraio 2018 n. 2990, sia la Sezione Lavoro della Cassazione stessa con l’orientamento fatto proprio dal primo Giudice (si vedano comunque Cass. 3 luglio 2019 n. 17785, Cass. 7 agosto 2019 n. 21158, Cass. 31 maggio 2018 n. 14019, Cass. 1° giugno 2018 n. 14136 e Cass. 31 ottobre 2018 n. 27976) hanno configurato l’esistenza di un diritto retributivo in capo al lavoratore non riammesso in servizio dal cedente solo se la mancata riammissione in servizio sia priva di qualsiasi giustificazione.

Tutte queste sentenze si sono infatti pronunciate nel senso che «il datore il quale, nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisca il rapporto di lavoro senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa offerta dal lavoratore».

Il fatto che XXX S.p.A. non abbia richiamato in servizio il lavoratore anzitutto discende dalla non definitività della sentenza, il che di per sé rende il comando giudiziale ancora suscettibile di essere riformato.

In secondo luogo, a far data dalla cessione di ramo d’azienda per cui è causa, XXX S.p.A. non ha più svolto con la propria organizzazione e col proprio personale le attività afferenti al ramo ceduto.

Dunque, in caso di ripristino del rapporto di lavoro, XXX S.p.A. avrebbe dovuto giocoforza effettuare ogni connessa valutazione, tra cui anche quella relativa alla effettiva compatibilità tra il proprio modificato assetto produttivo e organizzativo e il permanere del rapporto di lavoro di Parte Appellata.

In altri termini XXX S.p.A. – anche in ragione della non definitività dell’ordine ripristinatorio giudiziale – ha ritenuto che il mantenimento da parte del Lavoratore della sua occupazione in *** fosse l’opzione maggiormente in grado di garantire alla lavoratrice la stabilità della sua occupazione e conseguentemente del suo reddito.

In secondo luogo, ad avviso dell’appellante (il quale richiama la giurisprudenza formatasi in tema di interposizione fittizia: in particolare, la pronuncia n. 29/2019 della Corte Costituzionale, che ha fatto menzione della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 7 febbraio 2018 n. 2990), non è revocabile in dubbio il fatto che cessionario del ramo subentrato nel rapporto di lavoro, anche dopo l’emissione della sentenza di invalidazione del subentro medesimo, sia pur sempre assimilabile alla figura di un terzo che adempie ai sensi degli artt. 1180 e 2036 c.c., essendo il disposto dell’art. 29 comma 3-bis del d. lgs. n. 276/03, in tema di appalto illecito, che a sua volta richiama l’art. 27, comma 2, del d. lgs. n. 276/03 (secondo cui tutti gli atti compiuti dal somministratore sono de iure imputati all’effettivo utilizzatore della prestazione, tra cui anche i pagamenti effettuati dal primo a titolo retributivo e previdenziale, che valgono a liberare sempre l’effettivo utilizzatore fino alla concorrenza della somma effettivamente pagata) costituisce espressione di principi generali di diritto comune, valevoli per la generalità delle situazioni analoghe.

L’appellante, qualora non fosse ritenuta fondata tale affermazione, chiede che sia sollevata questione legittimità di costituzionale dell’art. 2112 c.c. in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede – per le ipotesi di trasferimenti di azienda o di suoi rami ritenuti non conformi ai requisiti sanciti dal medesimo art. 2112 c.c. – una disciplina, analoga a quella prevista in caso di fenomeni interpositori illeciti, di imputazione e di efficacia liberatoria per il cedente degli atti e dei pagamenti effettuati dal cessionario.

Inoltre il riconoscimento al lavoratore del diritto a percepire da XXX S.p.A. l’intera retribuzione, a fronte di una singola prestazione lavorativa resa nel medesimo periodo e già remunerata da *** costituisce una macroscopica violazione del principio di proporzionalità della retribuzione medesima di cui all’art. 36 Cost.

L’appellante sottolinea un ulteriore profilo di illegittimità dell’orientamento sostenuto dal primo Giudice.

Nel nostro ordinamento sin dal 2009 è stato introdotto l’istituto delle «Misure di coercizione indiretta», contenuto nell’art. 614-bis del codice di procedura civile secondo cui, ove il Giudice civile disponga la «condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò non sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».

Il provvedimento del Giudice emesso ai sensi della norma qui richiamata costituisce titolo esecutivo, ma le disposizioni di cui all’art. 614-bis c.p.c. «non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409».

Dunque – tornando alla fattispecie in esame è – ad avviso dell’appellante – evidente che qualsiasi interpretazione del tessuto normativo nel senso che il cedente “inadempiente” sia un obbligato a versare sempre e comunque l’intera retribuzione comporterebbe una violazione del principio di eguaglianza rispetto a tutte le altre situazioni in cui un soggetto sia inottemperante rispetto ad altri obblighi giudiziali aventi a oggetto un facere infungibile.

In queste situazioni analoghe a quella che ci occupa dal punto di vista giuridico non vi è alcun automatismo.

Come si è visto, infatti, ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c. il Giudice è sempre tenuto a valutare la specificità della situazione di fatto sottoposta alla sua attenzione e, alla luce di essa, egli deve sempre esercitare il suo fondamentale potere discrezionale di determinazione della “sanzione” pecuniaria connessa all’inadempimento.

E resta persino salvo il potere del Giudice di non concedere affatto la misura coercitiva pecuniaria richiesta, ove ciò risulti iniquo.

Ne consegue, allora, che l’adesione all’interpretazione resa dall’orientamento sviluppatosi nel 2019 – adesione avvenuta anche da parte della sentenza impugnata – equivale a sancire per via interpretativa, per il caso del trasferimento di ramo d’azienda, l’esistenza di una particolare misura di coercizione indiretta in ambito giuslavoristico contraddistinta da caratteristiche del tutto differenti rispetto alla fattispecie generale di diritto comune.

In definitiva l’adesione all’opzione ermeneutica fatta propria dalla sentenza impugnata implica, per i profili suddetti, una violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, della proporzionalità della retribuzione, della libertà di iniziativa imprenditoriale e del giusto processo di cui agli artt. 3, 36, 41 e 111 Cost.

Con il terzo motivo, XXX S.p.A. ritiene che non si possa ritenere valida ed efficace la costituzione in mora di quel lavoratore che, offrendo la propria prestazione a un datore di lavoro, al contempo mantenga un distinto (e “giuridicamente esistente”) rapporto lavorativo con un altro datore.

La messa in mora è funzionale alla richiesta di adempimento (ex art. 1453 c.c.), ragion per cui nel momento stesso in cui questa viene formulata il lavoratore dovrebbe avere già esercitato la sua scelta.

In definitiva la richiesta di adempimento presuppone necessariamente che, nel momento in cui questa viene formulata, chi la formula sia concretamente e immediatamente nelle condizioni di adempiere.

Ma nel caso di specie il lavoratore, nel momento in cui ha offerto la propria prestazione lavorativa a XXX S.p.A. si trovava alle dipendenze di un altro imprenditore.

Dunque nella fattispecie il lavoratore si trovava (e si trova tutt’oggi) nell’impossibilità di adempiere alla propria prestazione nei confronti di XXX S.p.A. ove da questa richiamata immediatamente in servizio.

In relazione a tale profilo, l’appellante chiede alla Corte di sollevare questione legittimità di costituzionale degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 2043, 2094 e 2099 e 2112 c.c., per come interpretati dalla giurisprudenza di cassazione più recente, in relazione agli artt. 3 e 36 Cost. E ciò perché, considerate le peculiarità del caso specifico su cui ci si è soffermati, ritenere la piena validità della messa in mora e ritenere altresì che essa possa dare origine al menzionato obbligo retributivo, vorrebbe dire avallare una esplicita e ingiustificata disparità di trattamento tra il lavoratore il cui contratto sia stato ceduto ex art. 2112 c.c. e il cui rapporto debba essere ricostituito a seguito di sentenza, e il lavoratore illegittimamente sospeso dal servizio dal proprio datore di lavoro.

Mentre infatti il lavoratore illegittimamente sospeso potrebbe sì continuare a essere retribuito dal proprio datore di lavoro, ma pacificamente non potrebbe al contempo lavorare presso un altro imprenditore percependo anche da lui un’altra retribuzione, il lavoratore il cui rapporto debba essere ripristinato dal cedente, per effetto di un mero atto formale costituito dall’invio di una comunicazione di messa in mora, potrebbe invece percepire contemporaneamente due retribuzioni piene, dal cedente e dal cessionario.

Si è regolarmente costituito il sig. YYY, chiedendo il rigetto dell’appello.

Con decreto del 15.10.2021, veniva disposta la trattazione della causa con il rito c.d. “cartolare”, ai sensi dell’art. 221 c. 4 D.L. 19-5-2020 n. 34, conv. in L. 77/2020, che aveva modificato l’art. 83 D.L. 17-3-2020 n. 18, conv. in L. 27/2020, nonché l’art. 1 D.L. 7-10-2020 n. 125.

Depositate note scritte nel termine assegnato mediante detto provvedimento, la causa veniva decisa come da dispositivo in calce trascritto.

L’appellante censura la sentenza qui impugnata per distinti ordini di ragioni: in primo luogo, per aver il Tribunale qualificato in termini retributivi, anziché risarcitori, l’obbligazione in capo all’ex-datore di lavoro cedente; in secondo luogo, per avere il Giudice erroneamente ritenuto l’esistenza del diritto rivendicato da controparte nonostante il cessionario avesse continuato a corrispondere la retribuzione ex artt. 1180 e 2036 c.c; in terzo luogo, per aver ritenuta valida ed efficace la costituzione in mora del lavoratore che, offrendo la propria prestazione ad XXX S.p.A., al contempo ha continuato a mantenere un distinto rapporto lavorativo con ***.

Ad avviso dell’appellante, le soluzioni giuridiche condivise dal primo Giudice sollevano dubbi di costituzionalità in quanto determinano una evidente disparità di trattamento della posizione del lavoratore ceduto con quella, sostanzialmente analoga, del lavoratore illegittimamente licenziato, beneficiario di un ordine giudiziale di reintegrazione che non venga effettivamente richiamato in servizio dal datore di lavoro, nonché con la posizione del lavoratore, alle formali dipendenze dell’appaltatore, che, in caso di appalto non genuino o di somministrazione irregolare, ha diritto di ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro direttamente in capo al committente-utilizzatore.

L’appello è infondato per le medesime motivazioni già espresse da questa Corte nella sentenza n. 79/21 (rel. Casella) che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 118 Disp. Att. c.p.c., si riportano qui di seguito.

“Premesso che non è contestata tra le parti l’esattezza della ricostruzione della vicenda circolatoria che ha interessato il rapporto di lavoro del sig. ***per come sopra esposto, ritiene la Corte che il Tribunale abbia correttamente applicato i principi giurisprudenziali in materia affermati dalla Corte di Cassazione e già recepiti da questa Corte territoriale in numerosi precedenti riguardanti vicende perfettamente sovrapponibili alla fattispecie ora in esame (cfr., tra le altre, la sentenza n. 232/2020).

Va infatti rilevato che, secondo l’orientamento interpretativo recentemente espresso dalla Cassazione (in particolare con le sentenze n. 5998/2019; n. 9747/2019; n. 17784/2019; n. 17785/2019; n. 21158/2019; n. 21160/2019; n. 29092/2019), in ipotesi di trasferimento di azienda di cui sia stata accertata l’illegittimità, i crediti vantati dal lavoratore nei confronti del cedente per effetto del mancato ripristino del rapporto da parte di quest’ultimo, nonostante l’emissione di un tale ordine da parte del giudice, hanno natura retributiva e non risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) e decorrono dalla messa in mora operata dal lavoratore medesimo.

Secondo l’orientamento più recente, e qui condiviso, il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente all’accertamento dell’illegittimità della cessione ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore del cedente da parte del lavoratore, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa, non trovando applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità di quanto altrimenti percepito.

Questo Collegio intende dare continuità all’orientamento suddetto e che appare ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità successiva (cfr. Cass., ord., 21.4.2020, n. 7977; Cass., ord. 21.4.2020 n. 7978; Cass., ord., 24.4.2020, n. 8162/2020; Cass., ord., 29.10.2020, n. 23930).

Si legge testualmente nella prima ordinanza:

«questa Corte ha recentemente risolto le questioni qui devolute, con sentenze oggetto di ampie ed approfondite argomentazioni (Cass. 3 luglio 2019, n. 17784, sub p.ti da 6.2. a 7.1.; sub 8 in motivazione; Cass. 7 agosto 2019, n. 21158), qui espressamente richiamate in quanto condivise e pertanto meritevoli di continuità, secondo le quali:

soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Ed è evidente che l’unicità del rapporto venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare; per insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’unicità del rapporto presuppone la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c.: sicchè, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale); il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente (cfr. da ultimo: Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso  conforme, tra le altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario);

pure a fronte di una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore), la prestazione lavorativa solo apparentemente resta unica: giacchè, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n’è un’altra giuridicamente resa, non meno rilevante sul piano del diritto, in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato;

pertanto al dipendente spetta la retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316), perchè, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva; nelle obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni fungibili, la costituzione in mora credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711); in quelle relative a prestazioni infungibili (cui appartiene quella lavorativa), dovendo l’adempimento della prestazione di fare essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore, basta invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.: integrando insindacabile valutazione di merito l’accertamento della necessità della collaborazione del creditore, affinchè il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare (Cass. 12 luglio 1968, n. 2474); mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile ha posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, stante l’equiparazione della prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari; da quel momento l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato; dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno con la messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno;

la conclusione è coerente con l’interpretazione costituzionalmente orientata secondo cui, in riferimento allo scrutinio di legittimità costituzionale della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, “il danno forfettizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”; sicchè, “a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata” (Corte Cost. 11 novembre 2011, n. 303, sub 3.3 del Considerato in diritto); essa è stata ribadita dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. s.u. 7 febbraio 2018, n. 2990), autorevolmente confermata siccome corretta nella prospettiva interpretativa, costituzionalmente orientata, di rimeditazione della regola di corrispettività nell’ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro della prestazione lavorativa regolarmente offerta: posto che il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore; dovendo continuare a gravare sul datore di lavoro, che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, l’obbligo di corrispondere la retribuzione (Corte Cost. 28 febbraio 2019, n. 29, sub 5 del Considerato in diritto)».

Le Sezioni Unite (n. 2990/2018) nell’affrontare e risolvere le questioni, sollevate da XXX in questa sede, circa l’asserita disparità di trattamento con il lavoratore licenziato, hanno ritenuto il carattere eterogeneo delle due ipotesi, escludendo la loro assimilabilità: «In particolare, deve ritenersi fuorviante il richiamo alla materia dei licenziamenti, in ordine alla quale sussiste una disciplina legislativa specifica e derogatoria rispetto al diritto delle obbligazioni, che riconduce i compensi dovuti dal datore di lavoro, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, nell’ambito del risarcimento del danno. A riguardo – tralasciando principi ormai superati da successivi interventi legislativi quale la distinzione, applicata in talune pronunce, tra il periodo anteriore al licenziamento, in ordine ai quale il diritto del lavoratore era al risarcimento, dal periodo successivo alla pronuncia di reintegra, a seguito della quale spettava al lavoratore la retribuzione – non può farsi riferimento, ai fini che qui rilevano, alla disciplina specifica introdotta dalla L. n. 108 del 1990, a modifica dell’art 18 Stat. Lav., che ha qualificato, come risarcimento del danno, l’indennità commisurata alla retribuzione per il periodo fra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione. Si è posto in evidenza in proposito che, alla luce del nuovo testo dell’art. 18, le somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado che abbia dichiarato illegittimo il licenziamento ed ordinato la reintegrazione del lavoratore, costituiscono (in assenza di ottemperanza alla decisione di primo grado) non più retribuzione, ma risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittima risoluzione del rapporto (Cass., Sez. L, 13/12/2006 n. 26627). Nello stesso senso della natura risarcitoria dell’indennità dovuta a seguito di licenziamento illegittimo e fino alla reintegra, è l’intervento operato dalla L. n. 92 del 2012 (legge Fornero) che, modificando l’art. 18 Stat. Lav., qualificata risarcitoria l’indennità da corrispondersi dalla data del licenziamento all’effettiva reintegra, prevede anche la detrazione dell’ aliunde perceptum (cfr. art. 18, comma 2, per il licenziamento discriminatorio: il comma 4, per il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo in ordine al quale, oltre che l’aliunde perceptum, va dedotto quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione). Giova evidenziare, in tema di licenziamento inefficace dopo la novella introdotta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, che, da ultimo, in funzione di un riallineamento tra la disciplina di tutela obbligatoria stabilita dalla L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 37, (per le ipotesi di inosservanza della forma scritta e dell’onere di comunicazione dei motivi nel licenziamento) e quella stabilita dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, anch’essa novellata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, lett. b), (ove il licenziamento orale gode di una tutela reintegratoria piena – comma 1 e 2 – mentre quello del licenziamento intimato in violazione del requisito della motivazione riceve la sola tutela risarcitoria – commi 5 e 6-), è stata data una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata delle conseguenze della prescritta inefficacia al fine di assicurare alle diverse ipotesi una tutela esclusivamente risarcitoria secondo un criterio di ragionevolezza che eviti ingiustificate disparità di trattamento (Cass. Sez. L. 05/07/2016, n. 13669)».

Anche i principi regolanti la fattispecie della interposizione fittizia di manodopera (e specialmente quelli contenuti nell’art. 27 D.Lgs 276/2003) non possono trovare applicazione nella (diversa e non assimilabile) ipotesi della cessione di ramo d’azienda dichiarato nullo. Sul punto, infatti, la Suprema Corte (n. 29092/2019) ha chiaramente affermato: «Acclarato che dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione.

Invero la più approfondita disamina giuridica qui svolta induce al superamento di un primo orientamento di ritenuta detraibilità, dal credito retributivo spettante al lavoratore validamente offerente all’originario datore la propria prestazione ingiustificatamente rifiutata, della retribuzione percepita dal datore (già cessionario), sul presupposto dell’unicità di prestazione lavorativa e di obbligazione, con la qualificazione del relativo pagamento alla stregua di un adempimento del terzo, a norma dell’art. 1180 c.c. (Cass., sez. VI, 31 maggio 2018, n. 14019; Cass., sez. VI, 1 giugno 2018, n. 14136: p.to 6 in motivazione).

Già si sono illustrate le ragioni di un’effettiva duplicità dei rapporti in essere: il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l’utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell’attività del lavoratore cui in via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad un’obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie: Cass. 3 settembre 2015, n. 17516; Cass. 31 luglio 2017, n. 19030). Sicchè l’esistenza di un debito proprio, generato dall’obbligo di retribuire le prestazioni del lavoratore ceduto di cui ha concretamente fruito, esclude in radice la possibilità di configurare un adempimento in qualità di terzo da parte del destinatario dell’originaria cessione; in relazione all’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., infatti, si è ritenuto che deve mancare nello schema causale tipico la controprestazione in favore di chi adempie, pagando il terzo per definizione un debito non proprio e non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione patrimoniale a suo favore (Cass. s.u. 18 marzo 2010, n. 6538; Cass. 7 marzo 2016, n. 4454; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23439), mentre nella specie il non più cessionario compensa un’attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell’impresa di cui è titolare.

Parimenti non sono applicabili le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 276 del 2003, laddove all’art. 27, comma 2 (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3 bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.

Il meccanismo che consente l’incidenza liberatoria degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o dall’appaltatore è stato richiamato dalla sentenza n. 2990 del 2018 delle Sezioni unite limitatamente ai “pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione” (Cass. 31 ottobre 2018, n. 27976).

Il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell’appalto, non ne consente l’applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d’azienda.

Il dato testuale che connette l’effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “ha effettivamente utilizzato la prestazione” esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l’applicazione al caso della cessione di ramo d’azienda, ove l’impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto. E’ che i fenomeni interpositori rappresentati dalla somministrazione irregolare o dall’appalto illecito risultano strutturalmente incomparabili con le cessioni di ramo d’azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto. Nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell’unico rapporto, mentre nel secondo caso l’impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d’impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio» (conf. Cass., n. 17784/2019).

E’ proprio il rapporto negoziale tra cedente e cessionario che rende diversa, in fatto, la fattispecie da quella del licenziamento; quel rapporto rende più agevole una strategia comune volta a mantener fermi gli effetti della cessione, pur dichiarata nulla, senza conseguenza alcuna.

La soluzione adottata dalla Suprema Corte, ineccepibile in diritto, ha, quale rilevante obiettivo, quello di indurre il datore ad ottemperare – pena la corresponsione della retribuzione mensile – all’ordine giudiziale.

Del resto, la Suprema Corte ha affermato che “la soluzione della questione devoluta sia l’inevitabile approdo di un coerente percorso logico giuridico di effettività del dictum giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell’inosservanza senza reali conseguenze. Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, né tanto meno veicolare strumenti di coercizione indiretta (neppure applicandosi, per espressa previsione, alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolati dall’art.409, c.p.c., l’art. 614-bis, c.p.c., come novellato dall’art. 13, d.l.n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2005, che ne ha mutato la rubrica originaria con quella di “Misure di coercizione indiretta”, ampliandone l’ambito applicativo, ricomprendendovi oltre agli obblighi di fare infungibile, anche gli obblighi di fare, non fare e di dare, diversi dal pagamento di somme di denaro) finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte di un esercizio improprio delle prerogative datoriali”.

La necessità di riaffermazione del valore dell’effettività della tutela, soprattutto in un settore delicato quale quello del lavoro, risulta il principale obiettivo enunciato dalle richiamate pronunce delle Sezioni unite nonché della Corte costituzionale, la quale, nella sentenza già richiamata n. 29 del 2019, ha affermato che una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività tra diritto alla retribuzione e prestazione lavorativa effettivamente resa, in quanto il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore.

In definitiva, sul principio di equità, incarnato nell’istituto dell’aliunde perceptum, deve prevalere l’esigenza di salvaguardare la concreta attuazione del comando giudiziale.

Anche la questione attinente la messa in mora del cessionario da parte del lavoratore ceduto con riferimento alle prestazioni infungibili è ampiamente affrontata dalla Suprema Corte la quale, in palese contrasto con la tesi dell’appellante, ritiene che la prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo non escluda una valida offerta di prestazione all’originario datore:

«al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (…). Una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva. (…).

La conseguenza che si è tratta è pure coerente con il diritto generale delle obbligazioni, che, non a caso, ha collocato, nel capo (II del Titolo I del libro IV) “Dell’adempimento delle obbligazioni”, la disciplina della mora del creditore (sezione III). Per comprensibili ragioni di diversa coercibilità, essa differenzia le obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni fungibili da quelle relative a prestazioni infungibili (cui evidentemente appartengono quelle inerenti la prestazione di lavoro).

Sicchè, per le prime la costituzione in mora credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711). Per le seconde, dovendo l’adempimento della prestazione di fare essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore, basta invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.: integrando insindacabile valutazione di merito l’accertamento della necessità della collaborazione del creditore, affinchè il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare (…).

Dai principi di diritto su enunciati discende allora, siccome coerente precipitato logicogiuridico, che, mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari.

Sicchè da quel momento l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.

Nè tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (v. Cass. 8 aprile 2019, n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi».

I dubbi di costituzionalità avanzati dall’appellante in relazione alla paventata disparità di trattamento con le altre obbligazioni di facere infungibile (per le quali non esisterebbe alcun automatismo nella quantificazione delle misure di coercizione indiretta, attribuite invece alla discrezionalità equitativa del Giudice), appaiono prima facie manifestamente infondati in quanto la materia lavoristica (a cui, infatti, non è applicabile l’art. 614 bis c.p.c.) ha proprie peculiarità che non la rendono assimilabile alle altre ipotesi invocate dall’appellante. In particolare, nel caso di mancata reintegrazione presso il cedente (così come nell’ipotesi di mancata reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato), è lo stesso contratto di lavoro intercorso inter partes a contenere l’esatta quantificazione della controprestazione in denaro “dovuta dall’obbligato” in caso di inadempimento, coincidente, cioè, con la retribuzione convenuta ab origine, rendendo pertanto inutile un eventuale intervento postumo del Giudice finalizzato all’individuazione di una equa misura di “coercizione indiretta” ai danni del soggetto inadempiente.

In definitiva, le censure mosse da parte appellante alla sentenza del Tribunale con i primi tre motivi trovano compiuta ed esaustiva risposta nelle soprariportate argomentazioni della giurisprudenza di legittimità, totalmente condivise da questo Collegio che, proprio perché ispirate ad una interpretazione costituzionalmente orientata, escludono qualsiasi residuo dubbio di incostituzionalità.”

La motivazione, come sopra richiamata anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., viene integralmente condivisa da questo Collegio.

Essa ben si attaglia al caso di specie, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle confutate – in modo pienamente convincente – nel precedente sopra riportato.

Conclusivamente, l’appello dev’essere rigettato e la sentenza impugnata dev’essere integralmente confermata.

Le spese del grado sono poste a carico della parte soccombente e liquidate come da dispositivo, in ragione della controversia e delle tabelle dei compensi professionali di cui al DM n. 55 del 10 marzo 2014, come modificato dal decreto 08.03.2018, n. 37.

P.Q.M.

Rigetta l’appello avverso la sentenza n. 697/2021 del Tribunale di Milano;

Condanna l’appellante a rifondere all’appellato le spese del grado, liquidate in complessivi € 3.300,00, oltre spese generali e oneri di legge.

Si dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato art. 1 comma 17 L.228/12.

Milano 13 Dicembre 2021

Il Giudice Ausiliario Rel.

Il Presidente

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