Il regicidio (dal latino: rex, “re”, e un derivato di caedere, “uccidere”) è una variante dell’omicidio caratterizzata dalla soppressione della vita di un re. Esempi eclatanti di regicidio furono l’omicidio di Enrico IV di Francia, avvenuto a Parigi il 14 maggio 1610 per mano del cattolico François Ravaillac, e quello di Umberto I d’Italia, avvenuto a Monza il 29 luglio 1900 per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. In Francia e in Inghilterra il regicidio (tentato o realizzato) era punito un tempo con lo squartamento, una forma di tortura ed esecuzione capitale particolarmente cruenta. Il termine “regicidio” venne per la prima coniato al tempo della Restaurazione, per indicare il “crimine” commesso dai membri della Convenzione nazionale (i “conventionelle”) rei di aver votato ed eseguito la condanna a morte di Luigi XVI di Francia. Nel diritto italiano, chi si macchiava di tale delitto era passibile della pena di morte mediante fucilazione; se il regicidio era fallito la pena era comunemente l’ergastolo (un’eccezione fu l’anarchico Giovanni Passannante, condannato a morte per tentato regicidio, anche se poi la pena fu commutata in carcere a vita). Nel periodo tra il 1889 e il fascismo l’ergastolo fu la pena anche per il regicidio consumato, per effetto dell’abolizione della pena di morte. All’avvento della Repubblica, il delitto di regicidio è stato sostituito con quello di attentato contro il Presidente della Repubblica.