I regolamenti governativi, nell’ordinamento italiano, costituiscono fonti normative secondarie e si collocano al di sotto delle fonti costituzionali e delle fonti primarie (leggi ordinarie, atti aventi forza di legge, trattati internazionali e direttive e regolamenti dell’Unione Europea). Secondo la dottrina sono atti formalmente amministrativi e sostanzialmente normativi. Avendo la forma di atto amministrativo un regolamento può essere annullato da un giudice amministrativo nel caso in cui contrasti con la legge (principio di legalità amministrativa) e l’effetto della pronuncia varrebbe erga omnes, cioè tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici e privati risentirebbero della pronuncia. Il giudice ordinario non può annullare un atto amministrativo, ma può disapplicarlo inter partes, cioè l’effetto sarebbe ristretto alle sole parti in causa. Nella gerarchia delle fonti, i regolamenti sono norme di rango secondario e quindi, come tali, sono subordinati alle leggi ordinarie e disciplinano materie non regolamentate da leggi. La legge 400/1988 all’art 17 commi 1 e 4 definisce il procedimento di adozione. Il Consiglio dei ministri (C.d.M) delibera l’adozione del regolamento, acquisendo preventivamente il parere del Consiglio di Stato. Il parere, acquisito entro 90 giorni, è obbligatorio e non vincolante, perché il Governo può perfettamente discostarsene (i motivi verranno formulati in C.d.M nella relazione del Ministro che propone quest’azione). Una volta deliberato il regolamento in C.d.M questo viene emanato per decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.). A questo punto il regolamento è un atto amministrativo considerato perfetto, ma non efficace. Perché l’atto acquisisca efficacia deve passare sotto il controllo di legittimità esercitato dalla Corte dei conti, la quale appone il visto e provvede alla registrazione. Solo alla fine di questo procedimento il regolamento viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale.