L’infedeltà coniugale nel diritto italiano era disciplinata dagli articoli 559 e 560 del codice penale, che prevedevano rispettivamente le fattispecie di adulterio e concubinato. Per la moglie costituiva reato il semplice adulterio, che vedeva punito anche il correo dell’adultera. La pena era prevista in misura maggiore nel caso di relazione adulterina. Il delitto era punibile a querela del marito. Quando a commettere il reato era il marito, invece, l’infedeltà era punita solo nel caso in cui avesse tenuto una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove. La Corte costituzionale ha affrontato più volte la questione di questa disparità di trattamento. In un primo tempo si era pronunciata per l’infondatezza della questione. L’avvocatura dello Stato aveva sostenuto l’impostazione tradizionale nel diritto italiano che «oggetto della tutela, nella norma dell’art. 559, non è soltanto il diritto del marito alla fedeltà della moglie, bensì il preminente interesse dell’unità della famiglia, che dalla condotta infedele della moglie è leso e posto in pericolo in misura che non trova riscontro nelle conseguenze di una isolata infedeltà del marito». Tornata poi a esaminare la questione con sentenza 19 dicembre 1968, n. 126, ha dichiarato incostituzionali i commi primo e secondo dell’art. 559 c.p. (reato dell’adulterio semplice compiuto dalla moglie). Tornata sull’argomento, la Corte con sentenza 3 dicembre 1969, n. 147, ha dichiarato incostituzionali sia i commi terzo e quarto dell’art 559 c.p. (reato di relazione adulterina della moglie), sia l’art. 560 (concubinato del marito).